Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

venerdì 29 marzo 2013

Le artiste del Sampian




Il villaggio di Kapal, nella regione di Badung, è diventato il centro del sampian, un manufatto ottenuto intrecciando e colorando giovani foglie di cocco, usato nei rituali indù, che simbolizza la dualità dell’universo e il bilanciamento cosmico necessario per trasformare questa dualità nella unicità della verità finale. In passato, le donne del villaggio creavano le composizioni di foglie nel loro tempo libero. Oggi sono diventate la loro attività principale.

La celebrazione del Galungan e del Kuningan, che si tiene in queste due settimane, ha generato un discreto profitto per questo tipo di artigianato familiare, ed ha sostituito la vendita di sanggah (piccolo monumento di culto), che era il prodotto tradizionale degli artigiani del villaggio.

Nei due mesi precedenti le feste, dozzine di donne hanno fatto il metuesan (il taglio accurato e la coloritura delle foglie trasformandole in ornamenti artistici). Una di esse, Ni Luh Sriasih, con l’aiuto dei figli, ha lavorato duramente mettendo a frutto la sua abilità e creatività, in questo che è il periodo più intenso della loro vita famigliare, producendo centinaia di ornamenti religiosi, come  tamiang, endongan e penjor (gli alti pali di bambù curvati in cima e decorati con fantastici festoni colorati fatti di foglie di palma da cocco e ciuffi di erbe intrecciate).

Ni Luh maneggia abilmente un coltellino e incide velocemente le reringgitan (foglie tagliate) in varie e fantasiose forme e dimensioni. Per farli ancor più attraenti, gli ornamenti sono spesso colorati di rosso, verde, blu e abbelliti con fiori di plastica e perline.

La forte espansione della domanda fa sì che la maggior parte delle foglie giovani di palma provengano da fuori Bali, da Giava, Madura e le isole ad est di Bali. Una coppia di tamiang si vende per 10,000 Rp. (80 cent. di €), mentre una decorazione completa per il penjor costa tra 500,000 e 1 milione di Rp (40-80 €).

Durante le settimane che precedono e seguono il Galungan, famiglie e banjar sono impegnati a costruire i propri penjor e ad abbellire l’entrata principale che da sulla strada. Anche negozi, sedi di aziende ed edifici pubblici s’arricchiscono di ghirlande, altarini e drappi gialli e bianchi. Le strade di Bali fioriscono di migliaia di “alberi” che creano stupefacenti “gallerie” di bambù coloratissimi.

Tamiang, secondo il sito Hindu-Indonesia.com, deriva dalla parola tameng, che significa scudo. Tameng è anche il simbolo di Dewata Nawa Sanga, perchè indica i nove punti cardinali del mandala balinese.

In occasione del Kuningan, che marca la fine del lungo periodo di celebrazioni, tamiang e endongan sono piazzati agli angoli della casa e in ogni monumento di culto.
I due simboli sono strettamente legati: il tamiang rappresenta un’arma che protegge, è l’endongan rappresenta il necessario. Assieme simbolizzano la conoscenza e la devozione come principali necessità della vita, mentre l’arma principale è la serenità

 ( Luh De Suriyani & G.C.)


martedì 19 marzo 2013

La strega Calon Arang



Una luce rosso sangue getta un manto di magia e mistero attorno alla figura di Calon Arang, la strega maligna che incute ancora terrore tra le migliaia di balinesi assiepati attorno allo spazio allestito per evocarla.

Siamo a Tegallalang, villaggio a nord di Ubud, davanti al Pura Dalem Kahu, il tempio dei morti, l’ultimo giorno di luna piena di novembre, momento propizio per ricordare la storia di una donna che, concessasi alla voluttà delle forze del male attraverso le pratiche di magia nera, getta incantesimi distruttivi sul popolo ma viene infine piegata dalla forza positiva del Barong e dell’unione solidale degli esseri umani.

È l’occasione, offerta dai Banjar Pejengaji e Gagah di Tegallalang, per scrutare nel profondo del dramma di una magia oscura e maligna che cerca di sopraffare la parte buona della società, con gli occhi sapienti e pragmatici della mitologia balinese.  La drammatizzazione di Calonarang al vertice dei suoi poteri magici serve come potente esorcismo, nella speranza che per il resto dell’anno non agisca troppo brutalmente avendo temporaneamente placato il suo appetito di distruzione.

A Bali tutti sanno che la vita è un’eterna lotta tra forze maligne e benigne e che non ci sono veri vincitori, o meglio,che chi ne esce sconfitto non lo è definitivamente. Molto saggiamente, pur nella consapevolezza che il lato buono di noi stessi sia da preferire e nutrire per farlo emergere in ogni occasione, si è consapevoli che la parte peggiore possa essere temporaneamente zittita, ma mai annientata. E bene quindi tentare anche di ingraziarsela e di non stuzzicarla troppo, per limitare, per così dire, i danni.
E infatti gli appartenenti ai Banjar hanno allestito uno spazio evocativo senza badare a spese, con una scenografia imponente ed elaborata, giochi di luci per sottolineare le scene più drammatiche e coinvolgenti. C’è anche spazio concesso alle riprese televisive, con l’intento un po’ narciso di far conoscere a tutta l’isola la propria bravura (e devozione). La strega sarà senz’altro deliziata dall’enorme baldacchino che la ospita lassù, sulla piattaforma più alta, al vertice di una vertiginosa scalinata in bambù, guardata da due formidabili naga. Così potrà dominare tutta la scena e lo spazio davanti al tempio, e le sarà data l’illusione, nel breve tempo della rappresentazione, della propria potenza.

La vicenda, narrata all’interno di questo palcoscenico sontuoso, si dipana tra danze di fanciulle voluttuose e dialoghi di principesse e cortigiani. I più famosi tra essi sono immediatamente riconosciuti dagli astanti e accolti con fragorosi battimani, le loro battute avvolte dall’ilarità generale. E’ il momento in cui il dialogo tra l’attore e la folla si fa più intenso, la comicità dilaga e si parla anche di vicende d’attualità. Ma le battute fulminanti e il contrappunto tra i comici e spettatori o comici e gamelan (irresistibile un improvvisato kecak tra gli orchestrali) divertono la platea e scatenano i commenti sagaci.
Si arriva al primo climax attorno a mezzanotte, ora fatidica, quando un gruppo di adepte del maligno occupa la scena e si agita in modo scomposto e allucinato. Si rappresenta la danza macabra nel cimitero, quando gli incantesimi vendicativi vengono gettati sul regno di Airlangga e i cadaveri vengono smembrati e suddivisi tra gli adepti: stasera sono talmente potenti che una “diavolessa” cade in trance e viene portata via a braccia dagli assistenti del banjar.
Poi, dopo altri lunghi dialoghi tra vari personaggi, che preparano la chiusura del dramma, entra il re che, gonfio d’orgoglio e di spirito guerresco, si avventura con foga su per la scala per affrontare ed uccidere la potente strega. Ma la forza del male è troppo anche per uno spirito regale e basta un gesto svogliato del velo sacro per vincere il povero re ed il suo keris.

Ecco che, in pochi momenti segnati dalla confusione e dal parossismo, si compie la storia. Il re esce ed entra il Barong, essere magico e buffo, quintessenza della potenza salvifica e benevola al servizio dell’umanità. Egli solo può fronteggiare Calonarang e misurarsi alla pari con la sua forza malvagia. La battaglia infuria fino a che anche il Barong ha bisogno d’aiuto per sovrastare la forza del male, ed ecco che in un lampo arriva un manipolo di giovani a torso nudo che,caricati dai vapori d’incenso e imbracciando un keris, si lanciano nel mezzo della lotta. E’ un continuo rincorrersi, giostrare tra affondi e parate, con gli animi che si accendono sempre più e Calonarang che si perde sempre più in una trance parossistica.  Alla fine riesce a sopraffare un giovane assalitore ed altri entrano in trance, rivoltando su di sé il keris con il quale intendevano ucciderla. 

Immediatamente il Barong rientra e mette in fuga la strega, tra le urla spaventate degli spettatori  e i gesti calmi e misurati dei pemangku (i sacerdoti) che aspergono i giovani in trance e riversi a terra, esausti.
Ora, unico padrone della scena, il Barong dispensa il suo fluido salvifico e, con l’aiuto dei sacerdoti, lenisce a poco a poco le ferite della trance indotta dalla strega, finché tutti i giovani guerrieri si riprendono e la cerimonia ha termine.

Gli abitanti del banjar si allontanano soddisfatti, con ancora molta adrenalina in corpo e la sensazione che la cerimonia abbia avuto l’effetto desiderato. Sono certi che l’eco delle trance, delle danze, della musica, dei colori turbinanti rimanga a compiacere la strega a lungo nei mesi a venire, potente esorcismo che stende un velo di tranquillità sulla comunità.

giovedì 7 marzo 2013

Sumba: il villaggio di Pero




Proprio come immaginato. Come se un pensiero, un abbozzo di idea, prendesse forma dal disegno e, tratto dopo tratto, particolare dopo particolare, si trasformasse lentamente nella realtà. Prima i chiaroscuri, poi  colori, poi i suoni e infine gli odori. Così è il viaggio.

L’arrivo è una breve corsa in moto fino al primo warung per mangiare un riso con pollo arrostito. Poi verso Pero, un’ora di strada poco frequentata, tra piccoli gruppi di case, nuove e antiche, poche chiesette, negozi generalisti nuovi di cinesi, con le facciate verniciate di colori violenti scintillanti sotto il sole delle tre del pomeriggio. Sono meglio di un’insegna luminosa, visibili da lontano anche alla luce.

Il losmen è come deve essere, l’archetipo della locanda indonesiana. Uno spazio centrale popolato di poltrone e divani polverosi, lerci e sfondati, ma dotati di cuscini ricamati e centrini poggiatesta lavorati all’uncinetto. Un tappeto appeso rimanda alla Ka’ba, il cubo nero della Mecca, a preghiere quotidiane e all’origine della famiglia dei proprietari, una coppia musulmana di Bima, Sumbawa. A terra pochi tappeti slabbrati e consunti. Attorno sei stanzette spoglie ma luminose, con un letto a una piazza e mezza e materasso di gommapiuma. Né armadio né sedie. In stanza si dorme e basta, il resto del tempo dev’essere passato fuori. E’ un modello centrifugo, che scoraggia l’isolamento e sembra favorire i contatti.
Aggiunto a questo edificio un capannone col tetto di lamiera, al centro due lunghi tavoli di plastica bianca, attorno un’altra serie di stanzette. L’ultima in fondo è lo spazio di preghiera. Dietro, nel giardino posteriore, i cessi, loculi di mattoni col pavimento di cemento sbrecciato perennemente bagnato, la turca e il vascone dell’acqua, da cui si prende per ogni tipo di pulizia.

Sul davanti che da sulla unica strada del paese, la veranda è protetta da un grande mango che, assieme al colore verde slavato dei muri, è la vera insegna del losmen. Una donna lo indica proprio così: la casa verde sotto il grande mango.

Pare che la telefonata al camat, il capo amministrativo dell’intera zona di Kodi, abbia funzionato e così la “prenotazione”. In realtà il losmen ha un solo cliente, un giavanese qui a costruire un pozzo. Sono appena le quattro del pomeriggio e già le zanzare tigre si affollano, sfidando le mosche e i moscerini.

Il nonno prepara il betel sotto la veranda. Dice che pioverà, che piove sempre e che è pieno di ladri. Sarà forse la versione locale del vecchio proverbio, fatto sta che estrae un lungo coltellaccio, il parang, e mostra come taglierebbe la testa a chiunque osasse entrare in casa a rubare. La testa poi, chiosa, la getterebbe in fondo alla via, in mare, ricettacolo di rifiuti, anche umani. Il nonno, spiega, è lì di guardia tutta la notte e non c’è nulla da temere. Le porte delle stanze non hanno serratura ma di notte le porte esterne sono chiuse dall’interno e i clienti sono isolati.

Passano tre pescatori con reti e lanterne a petrolio, stanotte si pescano calamari. Due bimbetti passano con qualche pesce colorato appeso ad un bastone “ikan!!! Ikan!!!” gridano. Le bambine invece vendono dolcetti e banane fritte, le vocine acute, modulate a seconda del genere di dolciume che tengono nel canestro di plastica in equilibrio sul capo. La strada è un palcoscenico e un mercato, i grandi alberi e gli arbusti fanno da quinte e da sipario.