Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

giovedì 22 agosto 2019

I villaggi dei Nagekeo


     In sella ad uno scooter in affitto, percorro la bella strada costiera che da Ende si allontana serpeggiando verso ovest, verso le terre dei Naga e dei Keo, alla ricerca dei sa’o jara, i cavalli lignei stilizzati che rappresentano il totem principale di questo popolo. 
     In questi ultimi anni questo tratto che corre lungo il mar di Savu fino alla cittadina di Nangaroro, è stato riasfaltato e permette viste incantevoli della costa sabbiosa, dell’isola e penisola di Ende, con i vulcani Iya e Medja. La lunga spiaggia da Maunggora a Nangapanda, conosciuta al turismo come spiaggia blu, è punteggiata dai mucchi di sassi di varie gradazioni di nero, verde e bluastro e calibri diversi, che attorniano gli insediamenti precari dei raccoglitori, spesso donne col bimbo al collo chine sulla battigia per ore a raccogliere questo pesante tesoro verdazzurro, tanto ambito dai costruttori di ville del Giappone e di Bali.
     Nangaroro la strada si inerpica con ampi tornanti e la guida si fa ancor più divertente, attraverso tratti di foresta e piantagioni. Ad Aegela si lascia la pomposa trans-Flores e ci si dirige a nord, lungo quella che sembra un’autostrada tra basse colline. Non incrocio veicoli e nemmeno case per diversi chilometri. Sembra un pianeta deserto. Dopo una curva compaiono le prima case sparse e, all’altezza della chiesa, si sale una stradina verso il villaggio adat di Lambolewa, Bo’a Zea.

Bo’a Zea (Lambolewa)
     Chiedo il permesso di entrare nel villaggio ad un anziano: due file di case tradizionali con al centro un ampio spazio comune, rinnovato di recente. Una coppia di colubrine portoghesi fanno guardia minacciosa. Om Dobi si scusa perché non ha nulla da offrirmi, in compenso mi racconta del furto del Peo ligneo, che ha colpito al cuore la comunità, e della boxe locale, tinju, che si svolge ogni anno ad agosto. Ine Susanna mi parla della sua famiglia e dei figli, al lavoro nei campi. I giovani sono tutti al lavoro, i bambini alla scuola e a presidiare il luogo rimangono pochi anziani. L’insediamento di origine, Labo-Kawa il kampung induk, si trova 8 km più sù lungo il sentiero che porta alla cima del monte Keli Lambo.

     Da Lambolewa in mezzora si scende verso il mare e la piana alluvionale di Mbay, formata dal fiume Aesesa, verde di risaie dopo le aride distese di sterpaglie che coprono i versanti occidentali delle colline. Sul mare fa un caldo accecante e l’aria attorno trema satura di polvere. Tristi edifici governativi si affacciano lungo la strada, asfalto intriso di sabbia e buche lasciate dall’ultimo monsone.
Prendo la strada che si inerpica verso sud, lungo il versante occidentale del Keli Lambo, fino al bivio per Tutubhada.

Tutubhada
     Un grande villaggio con molte case tradizionali, alcune, quelle di origine dei suku, ben tenute. Queste, chiamate Sa’o Ji Vao, hanno tre facce intagliate nella trave anteriore e, ai lati dell’entrata, dietro la veranda, due statue lignee, donna a sinistra e uomo a destra, a grandezza naturale. A sottolineare il primato della coppia portatrice di vita di un clan.
     Pak Fredy, emigrato a Giava per cercare lavoro, è stato richiamato dal governo locale per occuparsi della promozione turistica. Mi fa da cicerone, alto, azzimato, occhiali spessi e sigaretta accesa. Chiedo di visitare la Sa’o Ji Vao principale, ma niente: la morte di un anziano incombe e bandisce la visita di stranieri durante i 40 giorni di lutto. Solo indossando una sciarpa tradizionale, affittata da una vecchina, posso avvicinarmi e ammirare gli intagli, le statue e le decorazioni sulla facciata.
Fredy è un ironico dissacratore e racconta di alcuni turisti musulmani che, per non aver rispettato le regole e i tabù del villaggio, sono morti colpiti dall’anatema degli antenati, di ritorno a Giava. Il villaggio si affaccia su un’ampia piazza rettangolare che ospita tombe e menhir di pietra, ricoperti di cera sciolta delle candele offerte ai morti.

     Dopo la scuola media di Tutubhada una stradina a tratti sassosa e sconnessa sale per diversi chilometri tra basse colline. Quando la pista diventa cementata (è la spiccia modernità della profonda provincia indonesiana), si prende un sentiero a sinistra.

Rendu Ola
     Il villaggio mi appare vuoto. all’entrata, su un angolo dello spiazzo centrale, sta un singolo Sa’o Nggua con alcune mascelle appese. Al centro del villaggio si staglia solitario un Peo ben disegnato e intagliato, e una Sa’o Enda minimalista. Arrivano due vecchine cariche della spesa fatta al mercato di fondo valle. Si riposano sotto la veranda di una casa e si fanno un betel. Si chiacchiera degli incendi che, in questa stagione di secchezza estrema, sono il vero pericolo per le comunità isolate. Un luogo tranquillo, abitato dal vento secco e dai fantasmi.

     A Boawae riprendo la TransFlores verso est. Al bivio di Raja si imbocca la strada verso sud che attraversa basse colline, gole, montagne verdi e boschi di Eugenia (chiodo di garofano) e Aleurites (noce delle Molucche). Poche risaie, già aride. La strada asfaltata è costellata di macchie di noci, fave di cacao e chiodi di garofano messi a seccare al sole.

Wajo
     Pak Arnold esce dalla sua grande casa moderna per accogliermi, abbigliato con vesti antiche. Il suo aiutante mi fa togliere le scarpe e mi aiuta ad indossare gli stessi capi, un sarong con motivi che sembrano fiocchi di neve, dorati su fondo nero, e una sciarpa che riprende gli stessi colori. Solo così posso salire sulla grande piattaforma di pietra sopraelevata dove si trovano Peo e Sa’o Enda. Questo villaggio, peraltro molto noto per la sua orchestra di percussioni di bambù, non ha un Sa’o  Jara separato e distinto dall’edificio, ma lo si riconosce integrato nelle grosse travi che sostengono il pavimento, abbellite con terminali a forma di testa di cavallo. L’interno è stato estesamente intagliato con scene e simboli legati a caccia e agricoltura e statue lignee.

Pautoda
     Unione di due suku, Pau e Toda, il villaggio ha dato origine a 4 ana susu. A fine luglio si svolge la grande cerimonia Ka Todo che coinvolge gli ana susu nella celebrazione dell’unione fra uomo e agricoltura. La festa si dipana in varie parti: durante la Pute Wutu i quattro anziani capi-clan danzano attorno al Peo assieme all’anziano custode della tradizione, o Nete Niro. imitati, in un secondo momento, dalle loro mogli. Seguono danze collettive e declamazione di poesie. L’apice si raggiunge con la Sepa Api, che prevede danzare e scalciare le braci ardenti di gusci di cocco, fino ad estinguerle. Infine, con la Papa Todi, i maschi dei due suku, Pau e Toda, si affrontano in una battaglia rituale usando come proiettili frutta (pinang, piccole noci di cocco, zucche del Siam, arance e papaie).
     Pak Sipri (Ciprianus) mi racconta che all’origine della danza del fuoco ci fu un esorcismo. Un antenato, nel villaggio, aveva raggiunto una conoscenza tale delle preparazioni erboristiche da diventare invulnerabile, salvo se bruciato con braci di gusci di cocco. La sua presenza e arroganza creò disarmonia tra gli abitanti del villaggio che, per ricreare il giusto equilibrio, lo bruciarono su braci ardenti fino a calpestarne le ceneri.

Lewa
     Ci sono quattro suku. Oltre al Peo, a cui hanno rubato alcuni abbellimenti, c’è il madhu, un palo intagliato a motivi geometrici con in cima la statuina di un uccello. Le effigi di uccelli sono associate, come accade negli intagli delle case Ngada, a “gioielli”, qui rappresentati da conchiglie. Il significato è lo stesso: i volatili domestici concorrono al benessere del clan e del villaggio e sono simbolizzati mentre “producono” ricchezza. Un gruppo di anziani mi invita a sedere sotto una tettoia e inizia la solita intervista, come sempre condita da buonumore, allusioni e frasi scherzose. Immancabile la foto ricordo sotto il Sa’o Jara. Acquisto un bel po’ di chiodi di garofano e l’invito a ritornare in occasione del Sepa Api. Un giovane mi accompagna ad un villaggio vicino, dove è in corso la festa di accoglienza di una suora, appena rientrata dall’Italia. Mi siedo con i suoi famigliari che mi rifocillano e si divertono quando scambio poche frasi in italiano con la sorella, visibilmente imbarazzata.



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