Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

martedì 5 dicembre 2023

Viaggio a Lembata e Lamalera - 1989


27 luglio - Partiamo da Larantuka in barca alle 9 ma montiamo alle 7.45 per prendere i posti migliori. La barca ha due ponti, ci sistemiamo su quello superiore, coperto da un tendone. Cinque minuti dopo la partenza si rompe un tubo dell’olio: veniamo rimorchiati al porto dove attendiamo quasi due ore prima di ripartire col tubo saldato. Viaggio tranquillo, attraverso il lungo canale tra Adonara e Solor. Sosta a Wawerang. Di fronte, sull’isola di Solor, si trova Lamakera, l’unico altro villaggio di pescatori di balene.

Arriviamo a Lewoleba alle 14. Ci sistemiamo al losmen Rejeki dove troviamo due ragazzi francesi: uno e’ stato l’anno scorso a Lamalera per due settimane. Siamo in 7 occidentali. L’alloggio e’ pulito e tranquillo con teh e kopi in abbondanza. 4500 Rp a testa. Ci sono le zanzariere ed il letto matrimoniale. La sera cerchiamo di affittare un mezzo per Lamalera, ma sono scarsissimi. I prezzi richiesti sono alti, non ci decidiamo e la sera passa cosi’.

La cena al losmen e’ abbondante ma a Laura non piace. Dopo cena la passiamo a chiacchierare con Maurizio, l’italiano che si e’ unito a noi da Maumere.

28 luglio - I 4 turisti giavanesi alloggiati al losmen ci fregano la jeep e fanno il giro del vulcano (60000 Rp).

Ci ritroviamo sconsolati davanti al losmen cercando disperatamente un mezzo di trasporto. Di li’ a poco l’inglese, in fretta e furia, fa i bagagli con la sua compagna svizzera e balza su un camion diretto non si sa dove.

Decidiamo di andare al mare e troviamo un pescatore, dietro al losmen tra l'immondizia e le palafitte, che accetta di accompagnarci al pulau pasir, in mezzo alla baia, col suo minuscolo sampan mosso da una vela lacera. Partiamo e io devo svuotare continuamente l’acqua dalla barca con una sessola ricavata da una grossa conchiglia. Il mare sembra grosso ed ho un momento di paura. Poi il guscio prende vento e fila via liscio fino all’isolotto che emerge solo con la bassa marea. Sembra di essere tornati in Tanzania, all’isolotto davanti Dar Es Salaam. Sabbia bianca corallina, conchiglie, formazioni coralline sommerse, pesci. Un lungo vermotto, tridacne, stelle marine.


Troviamo un piccolo anemone con un minuscolo pesce pagliaccio nero e verde fosforescente. Li’ vicino alcuni gamberetti con l’addome in verticale. Arrivano altri pescatori che tirano su una sciabica. Tra i molti pescetti compriamo per 1000 rp 4 sgombri che saranno cucinati la sera al losmen. Il sole e’ micidiale ma per fortuna c'è parecchio vento. Cerchiamo le conchiglie, sopra di noi volano uccelli marini, il vulcano Ile Ape che incombe fuma.

Il ritorno e’ meno angosciante ma Laura, scendendo mette il piede su un riccio di mare. Dolore. Un po’ alla volta riusciamo a tirar via tutti gli aghi. Alla sera tentiamo di nuovo di affittare un mezzo senza riuscirci.

29 luglio - Ci svegliamo decisi a trovare un trasporto per Lamalera. Il figlio dei cinesi padroni di un negozio li’ vicino ci aiuta. Una jeep e’ rotta, quella di un ufficio pubblico e’ rotta! Finalmente troviamo un camion proprietà di un altro cinese, chiede 200000 rp fino a Boto, poi a piedi. Contratto a 175000 fino a Ilulorong, a tre ore di cammino dopo Boto. Torno felice al losmen a dare la buona notizia. Di li’ a mezzora arriva l’autista e ci informa che quel giorno non si può partire, senza fornire spiegazioni. Nemmeno l'intermediazione dell’inglese collezionista di ikat, che alloggia al losmen con noi, riesce a risolvere il problema. Siamo costretti ad aspettare domani. Pensiamo di fare una passeggiata fino a Nawakema, il villaggio piu’ vicino. Altro che passeggiata! Camminiamo per 3 ore e mezza superando un sentiero a tratti molto ripido. Per fortuna spira un vento rinfrescante. Arriviamo al villaggio stremati e siamo accolti in modo festoso e piacevole. Ci offrono teh e banane, ci accompagnano da una vecchina che sta tessendo un ikat e ci danno da bere un enorme noce di cocco. Offriamo 3000 rp e rientriamo per la strada piu’ agevole e piu’ lunga: altre tre ore di cammino. L’ultimo tratto di sentiero ci da un passaggio un camion. Mandi rinfrescante e cena al losmen. Serata di chiacchiere.

30 luglio - Si parte infine per Lamalera. La strada e’ poco piu’ che un sentiero, appena praticabile. Visto che il furbo autista se ne frega del charter e trasporta altra gente pagante e merci, riduco il prezzo a 160.000. Il paesaggio e’ bello, a tratti arido e poi lussureggiante, con diversi torrentelli che il camion attraversa senza sforzo. Nei villaggi tutti, specie i bambini, ci salutano festosamente e a Ilulorong l’accoglienza e’ addirittura trionfale. 

Fine del passaggio: paghiamo il saldo all’autista, attorniati da nugoli di fanciulli/e e ci avviamo a piedi, zaini in spalla. L’appuntamento con l’autista del camion sarà’ qui mercoledì prossimo, tra tre giorni. I saluti dei bambini sono infiniti. Il sentiero e’ effettivamente praticabile solo a piedi, fino a Ilulorong si potrebbe arrivare anche in moto, guidando con attenzione. Il guru di inglese, incontrato al villaggio, si propone di farci da guida fino a Lamalera. Quasi subito vesciche fastidiose. Facciamo tre soste in due ore e mezza, e’ un po’ dura ma il guru ci aspetta ogni volta molto comprensivo: selamat siang a tutti gli incroci di altri viandanti.


Costeggiato il vulcano e superata un'ultima collina scendiamo fino a Lamalera: il guru ci porta dal kepala desa, Joseph Bataona. Ci accolgono moglie e figlie, occupate a battere il riso nel mortaio, che ci offrono subito teh e banane fritte. Potremo alloggiare da loro le tre notti che resteremo in paese. Ci mostrano la stanza: letto matrimoniale per noi (asse di legno) e singolo per Maurizio (rete e materasso). Sfiga! Le tre notti si annunciano massacranti: si dorme poco e la mattina ci si sveglia come se ci avessero bastonato tutta la notte. Maurizio monta la sua zanzariera e poi andiamo in spiaggia. Le barche sono molto belle.



Tutto il paese e’ riunito in piazza perché e’ la serata d’addio ad un gruppo di ragazzi di Yogyakarta che si sono fermati al villaggio per un mese, studiando usi e costumi locali. Sono studenti di antropologia, sociologia e biologia. Veniamo invitati a partecipare e ci offrono subito succo di palma lontar. Maurizio beve senza discutere, Giancarlo arriva a fatica a meta’, io neanche assaggio. 

Poi ci fermiamo a parlare con quello che sembra essere il coordinatore degli studenti. Veniamo a sapere che e’ ancora in vigore il baratto, gli scambi avvengono durante il mercato del sabato. Si scambiano soprattutto pesce secco e sale con frutta e carne proveniente dai villaggi di montagna. Un pezzo di pesce e’ grande come le dita di una mano e vale 6 banane. Oramai pero’ in piccola parte e’ arrivato a circolare anche il denaro.


E’ in corso un’epidemia di malaria: tre casi in paese e un turista tedesco. Da domani raddoppiamo la dose di Paludrin. Cena dal kepala desa assieme a due ragazzi ospiti e alla sera ci ritroviamo tutti in piazza dove viene offerto cibo e danze. [Laura scrive].


31 luglio Mattinata in spiaggia a fare giochi di società con Maurizio. Scopriamo che c'è una bellissima casetta bianca sulla scogliera che si può affittare per 5000 rp al giorno compresi tre pasti, ma decidiamo di non traslocare perché siamo ospiti a casa del capo. Pranzo con pesce secco e mie goreng: molto scarso! Il pomeriggio dedicato alla visita di Lamalera A, villaggio alto con chiesa, senza prete. A cene stesso cibo ma in minor quantità: siamo alla fame. [Laura scrive].

1 agosto - Maurizio e Giancarlo partono alle 7 con i pescatori. Io resto a salutarli sulla spiaggia perché e’ vietato alle donne andare a pesca. SFIGA! Il mio raffreddore peggiora notevolmente. Torno a casa e rimango a letto tutto il giorno, dormendo o leggendo. Tornano alle 13.30. Hanno preso solo un pesce e hanno visto pescare una manta. Sono tre mesi che al villaggio non viene catturata una balena, tempi duri! Passo il pomeriggio a letto, a cena solo nasi putih e mie goreng. In stanza, di nascosto, mangiamo le ultime banane che ci eravamo portati. [Laura scrive].

1 agosto - Usciamo in mare alle 7 di mattina con la luce del sole limpida e radente. Aiuto a spingere la pesante tena lungo i pochi metri di spiaggia, rotolandola su pochi tronchi sbozzati.

Appena in acqua i sei sette rematori si mettono a pagaiare con brevi colpi ritmati incitati dal capobarca. Ci sono corte pagaie ai due lati della barca, il timone a poppa e un lungo remo manovrato a prua che consente rapidi e precisi spostamenti laterali e aiuta nel mantenere la rotta. 




La nostra barca pesca un grosso mahi mahi che viene subito macellato e suddiviso tra l’equipaggio. La sentina si riempie di sangue. Una tena poco lontana arpiona una grossa manta. Loro sono un po’ piu’ contenti.


Ma nessun cetaceo viene avvistato oggi e i volti dei pescatori di Lamalera sono piu’ scuri della notte che scende.

martedì 2 maggio 2023

L'eclissi d'amore

 L'eclissi di luna, per i balinesi, e’ storia di amore violento non corrisposto. Una passione malsana che porta un gigante malvagio di nome Kala Rau a mangiare Dewi Ratih, la dea della luna, pur di averla tutta per se’. 


Questo Kala Rau, oltre ad essere grosso, tozzo e con una faccia da far spavento, e’ anche molto potente, tanto da superare la prestanza soprannaturale di molti dei. In questo gioco eterno e universale, tra la bella e la bestia, di ricerca spasmodica dell’amore di una fanciulla fino ad arrivare a rapirla – ricordate nel Ramayana Sita rapita dal demone gigante Ravana?- l’astuzia di Kala Rau si scontra con l’ineluttabile supremazia di qualcuno della Trimurti.

Ma andiamo con ordine.

C'era una volta il gigante Kala Rau, il più temibile tra i giganti, che regnava sulla terra a Balidwipa su un popolo di giganti e di umani, con quali pare soddisfacesse spesso la sua fame.

Kala Rau spesso levava di notte gli occhi al cielo, attratto dallo splendido e ammaliante chiarore che avvolgeva il corpo di Dewi Ratih, la dea-luna, per tutti la Venere del pantheon asiatico. 

Ella viveva con gli altri dei nel regno di Wisnuloka, reame celeste precluso a giganti ed umani.

Un po’ alla volta la contemplazione siderea divenne amore appassionato e infine desiderio sfrenato. Ma alla proposta di matrimonio Kala Rau ottenne un solenne e sprezzante rifiuto.

L’amore, di fronte al rifiuto, si trasformo’ nella mente dell’ orrido gigante in qualcosa di malsano. Pur di avere la dea della luna tutta per se’ il demone sfido’ apertamente il consesso degli dei e minacciò di metterlo a ferro e fuoco se non gliela avessero concessa.

Gli Dei e le Dee erano irrequieti e, conoscendo la potenza soprannaturale del gigante, davvero preoccupati. 

Il re di Wisnuloka era Dewa Wisnu. Nel dubbio di una probabile disfatta in una guerra contro il potente Kala Rau, per calmare gli animi di dei e dee decise di distribuire la preziosa tirta amerta (acqua della vita). La sua idea era di impedire agli dei di morire quando Kala Rau avesse attaccato Wisnuloka.

Tuttavia, la conversazione tra gli dei e il piano di Wisnu furono origliati da uno dei giganti, che subito ne riferi’ al suo re Kala Rau. Questi studio’ un folle sotterfugio per ingannare gli invidiati dei, ottenere l’ambita tirta amerta, da loro sprezzantemente controllata e sempre negata ai giganti, e impossessarsi finalmente di Dewi Ratih. “Userò il loro stesso segreto!" disse Kala Rau. Si travesti’ da Dewa Kuwera, in quel momento assente, e si reco’ indisturbato a Wisnuloka, mescolandosi agli altri dei.

Wisnu riunì tutti gli dei e le dee nel palazzo, verso’ l'acqua della vita in una brocca e chiese a tutti di berne a turno solo un sorso. Uno ad uno gli dei bevvero: prima Dewa Iswara, poi Dewa Sambu, Dewa Brahma, Dewa Shiva e Dewa Sangkara. Quando venne il momento di Dewa Kuwera  Wisnu senti’ che c'era qualcosa di strano in quel dio, più grande e più alto del solito e anche alquanto puzzolente. 

Vistosi in pericolo di essere scoperto, il falso Dewa Kuwera salto' la fila e si precipito' a bere a sorsate l'acqua della vita. Dewa Aditya (il sole) e Dewa Candra (la luna, altro nome di Dewi Ratih) si accorsero del travestimento e informarono immediatamente Dewa Wisnu del raggiro. Questi, adirato per l’inganno, lancio’ il suo chakra al collo di Kala Rau con un colpo così potente da spiccargli la testa dal corpo. Il corpo cadde sulla Terra e si trasformo’ in un mortaio per il riso, un lesung. 

Sfortunatamente, Kala Rau aveva gia’ ingoiato l’acqua della vita, che era scesa fino in gola e aveva donato l'immortalità alla sua testa, che pote’ vivere per sempre sebbene fosse già separata dal corpo. Dewa Wisnu, non potendo eliminarla, la scaglio’ infuriato in cielo.

La testa di Kala Rau vaga da allora nel cielo alla ricerca di Dewi Ratih. E quando di tanto in tanto la incontra tenta ancora di afferrarla. Ma non avendo le mani, usa la bocca e lentamente la inghiotte. E cosi’ il bel corpo di Dewi Ratih e’ gradualmente ingoiato da Kala Rau che pero’, non avendo stomaco, non la puo’ trattenere. E cosi’, a poco a poco, la luna - Dewi Ratih - ricompare.


Quando il corpo di Dewi Ratih e’ inghiottito dalla testa di Kala Rau, la Terra di Balidwipa diviene oscura. La gente di Balidwipa ritiene che l'evento sia un'eclissi lunare. Per evitare che il demone si prenda la luna la gente picchia il corpo di Kala Rau, trasformato in  lesung, pensando cosi’ di tormentarlo e fargli sputare la luna, cosa che regolarmente avviene.

Ma la testa di Kala Rau conserva ancora il ricordo di chi svelo’ il suo inganno e, di tanto in tanto quando lo incontra, tenta invano di inghiottire anche Dewa Surya – il sole, senza riuscirci ma causando una temporanea oscurita’ nel mondo, chiamata dai suoi abitanti eclissi di sole.



Nelle leggende popolari giavanesi, quando si verifica un'eclissi, una donna incinta deve alzarsi e fare il bagno per far in modo che i suoi figli non nascano con difetti. Allo stesso modo se una gallina sta covando un uovo, si deve cospargere della cenere intorno ad essa, così facendo i pulcini nasceranno sani.



sabato 25 dicembre 2021

Ngerebeg a Tegallalang: i colori contro il lato oscuro.

 Il termine "Ngerebeg" deriva dalla parola "gerebeg" che significa ricerca. In giavanese antico ha anche altri significati: compiere una grande cerimonia, raggrupparsi, emettere urla e strepiti. In alcuni villaggi dell’isola di Bali (come Tegal Darmasaga o Batubulan) Ngerebeg è una cerimonia che si tiene nel Pura Puseh o nel Pura Dalem, con la partecipazione di una grande folla di fedeli, accompagnati dall’orchestra beleganjur.

I Balinesi seguono questa tradizione perché credono che l’azione collettiva e coordinata sia in grado di neutralizzare i tratti malvagi che esistono nel villaggio a patto che venga focalizzata nell’evitare che Buthakala, la generica entità che riassume in sé i tratti oscuri e malvagi dell’essere umano, rechi disturbo alla collettività. E’ una delle forme che assume a Bali l’esorcismo collettivo periodicamente necessario per tenere sotto controllo le manifestazioni ostili al procedere tranquillo della vita della comunità.

Nel villaggio di Tegallalang Ngerebeg si svolge in un modo originale. Gli abitanti del villaggio seguono la citata convinzione che ogni essere umano sia costruito su un intreccio tra bene e male e sono consapevoli che le manifestazioni maligne debbano essere periodicamente neutralizzate e rifiutate. Qui, a simbolo del Bhutakala, la presenza oscura e malevola che risiede in noi, i bambini e i giovani si dipingono il corpo di mille colori e motivi fantasiosi. La “mascherata” che ne deriva mostra a tutti la manifestazione del lato oscuro, che viene prima “nutrita” con riso e lawar, preparato e distribuito dagli adulti nel cortile interno del tempio. Rifocillati i ragazzi mascherati assistono alla breve processione, tre volte attorno agli altari principali, dei simulacri di dei e antenati, che sancisce la sacralità del momento e il legame stretto con la “terra di sopra”. Infine si lanciano festosi e vocianti in processione attorno al tempio e su fino alle risaie di Ceking, dove i giovani si sbarazzano della pittura simbolo del male dando libero sfogo al loro ardore con urla, canti e strepiti in un festoso allontanamento delle presenze nefande che hanno, nel corso dell’anno, “obbligato” a comportamenti impropri.

L'obiettivo principale del rituale è quindi far emergere, e dare un volto, alle proprie passioni per controllarle durante l’anno a venire, in modo da non distruggere se stessi e non recare disturbo gli altri.


Andando più a fondo nel significato di questo rituale si vede come Ngerebeg sia visto come pratica essenziale al mantenimento dell'armonia tra le creature dei due mondi sekala e niskala, e tra il bhuana alit (corpo umano) e il bhuana agung (universo). L’azione collettiva serva a tenere sotto scacco i sei nemici dell’uomo, o sad ripu1, identificati in Bhutakala o nei wong samar. Queste entità, simili agli umani ma prive del solco sopra il labbro superiore e che non rispondono mai al saluto Om Swasti Astu, si crede siano parte incancellabile del creato e quindi anche parte della manifestazione del dio supremo quando scende al tempio. Queste presenze, che si muovono liberamente e non viste nel villaggio, vivono nella parte superiore del fiume a ovest del tempio.

Quando si svolge il piodalan del Pura Duun Bingin a Tegallalang, queste entità vogliono partecipare, attirate dalla possibilità di purificarsi e per tenerle sotto controllo e compensarne la presenza destabilizzante, per esorcizzarne insomma l’ingombrante apparenza, vengono fatte emergere, il giorno che precede l’acme del piodalan, con la “mascherata” e neutralizzate con il fracasso festoso e urlante dei giovani del villaggio.

Le stradine attorno al Pura Duur Bingin si animano presto di ragazzi e ragazze che affollano i venditori di leccornie: spiedini di pastella fritta, salsicce di tofu, riso e manioca, patate fritte, mini martabak e involtini di verdure. Non mancano es cendol e coni gelato.

Il tempio già affollato, in un’ora si riempie di persone vocianti. Su tutto il fraseggio ipnotico del gamelan e il canto antico del maestro di cerimonie.

Un gruppo di fedeli prepara il lawar e lo dispone in foglie di banano, altri portano i banten colmi di frutta e volatili arrostiti alla benedizione del mangku. A piccoli gruppi, accompagnati da genitori e parenti, entrano i bambini, dipinti con tutti i colori che la fantasia possa immaginare, i volti spesso disegnati con espressioni arcigne, con baffi e grosse sopracciglia, o interamente di nero o con i tratti di gatti e tigri. Ognuno porta con sé varie decorazioni come “lance” la cui punta è un ventaglio di foglie di palma da cocco o aren, abbellite da fiori, penjor o banderuole come lelontek e kober: armi innocue ma potenti verso i wong samar.

L’atmosfera eccitata ha un momento di calma durante la condivisione del cibo, per rianimarsi di nuovo in occasione dell’uscita dei pratima, accompagnata dalle danze di alcune donne. E poi l’agitazione dei giovani mascherati raggiunge l’apice con l’uscita dal tempio e la lunga camminata tra le stradine del villaggio e su fino alle risaie.

Uno dei significati del Ngerebeg, il valore dell’attenzione alla socialità e e all’ambiente, può essere colto nella ricerca dell’armonia tra buhana agung e bhuana alit, vale a dire tra l'universo e il suo contenuto, qui inteso come l'ambiente che ci circonda, e gli esseri umani. Da qui deriva la maggior considerazione che gli antenati riponevano nella cura dell'ambiente naturale, concetto che ora dovrebbe essere una delle linee guida per le generazioni più giovani, in modo che sviluppino quell’atteggiamento di considerazione e conservazione per la natura.

1Sad Ripu significa sei nemici che rappresentano i tratti umani negativi, da far emergere per allontanarli da sé e neutralizzarli. Questi aspetti nefasti dell’umanità possono interrompere il proprio percorso ideale di vita in accordo col proprio dharma. I sei nemici sono: 1) kama, lussuria; 2) lobha, avidità: 3) krodha, rabbia; 4) moha, confusione, 5) mada, ubriacatura e 6) matsarya, gelosia o invidia.



mercoledì 17 novembre 2021

wayang kaca: dipingere su vetro

 
    Non deve sorprendere che in una società così devota all’espressione artistica in ogni sua piega, ci sia un villaggio nel quale si pratichi la pittura su vetro.

    Ho visitato la prima volta Nagasepaha, nel kabupaten di Buleleng, 12 anni fa, quando la tecnica di pittura wayang kaca era già consolidata e tramandata da decenni a due generazioni di suoi discendenti dal precursore I Ketut Negara, meglio conosciuto come Jero Dalang Diah.

    Jero Diah era, negli anni ‘20 del secolo scorso, un apprezzato dalang e intagliatore di marionette quando, nel 1927 Wayan Nitia, un collezionista di wayang kulit, comparve nel suo villaggio portando con sé dal Giappone un dipinto su vetro raffigurante una donna con indosso un kimono. Il visitatore era ansioso di ottenere da Diah un simile dipinto su vetro avente come soggetto la figura di una wayang kulit. A quel punto, la curiosità di Jro Dalang Diah fu stimolata e iniziò a studiare il dipinto su vetro, imparando la tecnica della pittura al contrario (perché il dipinto è visto dal lato non dipinto).

    Negli anni '80 Jero Dalang si era talmente migliorato da poter dipingere sia temi ripresi dalle grandi epopee indù Ramayana e Mahābhārata, in uno stile di disegno chiamato Kamasan. Sia temi nello stile Sukaraya giavanese. Infatti, originata nel XIV secolo nei Paesi Bassi, nel XIX secolo la pratica della pittura su vetro era stata portata a Giava, in particolare nelle corti di Cirebon, Surakarta, Yogyakarta, Demak e Madura, fino a Bengkulu, Palembang, Medan e Aceh a Sumatra. A quel tempo, il vetro era costoso e i dipinti su vetro, la maggior parte dei quali raffiguravano scene del Corano, erano oggetti di lusso riservati ai ricchi.

    Quando conobbi Jero Dalang Diah era seduto in un angolo della sua casa di fronte ad una finestra, vestito di un semplice sarong che metteva in risalto il suo corpo emaciato di ultra novantenne. Appesi al muro c'erano un certo numero di wayang kaca che aveva fatto lui stesso. Parlava a stento ed era aiutato da uno dei suoi nipoti, ai quali, dopo che al figlio I Ketut Sekar, aveva insegnato la nuova tecnica pittorica, rendendo così il villaggio un’icona nel mondo del collezionismo d’arte.

    Il padre tramandò al figlio la propria abilità nel creare wayang kulit, bade (la costruzione in carta e bambù che trasporta il morto per la cremazione) e addobbi per i templi.

    Girando per il villaggio avevo conosciuto sia pak Sekar che un suo figlio, entrambi pittori di wayang kaca. Colpito dalla bravura di pak Sekar gli commissionai un dipinto, poi faticosamente e meticolosamente trasportato in Italia.


    Ma furono i temi sociali, che vidi dipinti su vetri esposti sul pavimento della veranda della scuola elementare, a intrigarmi di più. Quadri come fumetti che parlavano di argomenti quotidiani come l’accesso alle spese mediche e scolastiche, le politiche sociali del governo locale e di quello centrale. Argomenti trattati con arguzia e sarcasmo, le armi dialettiche usate dai balinesi anche durante una rappresentazione di topeng o di wayang kulit: momenti collettivi che sono diventati importanti veicoli di un minimo di critica sociale e politica.

    Qualche tempo fa, la pittura wayang su vetro è stata ufficialmente registrata come patrimonio culturale immateriale indonesiano dal Ministero indonesiano dell'istruzione e della cultura e pak Sekar è stato più volte premiato per la sua arte.

    Qualche settimana fa sono ritornato, dopo molti anni, a Nagasepaha. In un fine mattina assolato e immoto, ho ripercorso la strada che si snoda sul bordo di una collina fino all’abitazione di pak Sekar. Poche persone si aggiravano per le stradine deserte del paese, alcune portando la mascherina d’obbligo. 

    Un pak Sekar ultrasettantenne e sua moglie ci hanno accolto un po’ straniti, stupiti che nel mezzo di tanto sconvolgimento per l’epidemia ci fossero ancora stranieri interessati alla sua arte. C’era nei suoi occhi il desiderio composto che hanno i balinesi versati nell’arte di vendere ciò che creano. E’ uno sguardo che mette malinconia per quel genere di speranza ammantata di rassegnazione che lascia trasparire.

    In un’anticamera polverosa e disordinata ci ha mostrato alcuni suoi quadri e wayang kulit, tolte da una vetrinetta dove riposavano affastellati e inconsapevoli del proprio carattere simbolico. In un canto stavano ammassate pelli di vacchetta, forse in attesa di nuovi ordinativi per marionette che tardano a venire. Forme che chissà in quale futuro getteranno ombre fluttuanti e seducenti su uno schermo ancora tutto da preparare.





lunedì 18 ottobre 2021

I Bali Mula: Bayung Gede e la madre foresta

 


Bayung Gede è un villaggio che racchiude in sé una storia antica e una socialità tra le più originali ed arcaiche tra quelle che abitano l’isola Bali.

Gli storici sono concordi nell’affermare che Bali, in epoca storica e certo prima del IX secolo, fu abitata da società già stratificate ed organizzate, principalmente in alcune aree montane e densamente forestate, nella regione racchiusa dai fiumi Pakrisan e Petanu dove si praticava un’agricoltura irrigata, ed in alcune aree costiere dove il commercio con le isole vicine era particolarmente attivo.

Queste comunità, di tipo Austronesiano, in specie quelle montane che mantenevano scarsi collegamenti con la costa, sono oggi considerate “autoctone” e in possesso di un’organizzazione sociale e religiosa in qualche modo indipendenti da quelle di altri gruppi, pur rientrando nella grande “indianizzazione” dell’Indonesia, probabilmente iniziata gradualmente nei primi secoli dopo Cristo.

Questa indianizzazione si sovrappose, assorbendole, alle credenze specifiche dei Balinesi “autoctoni”, nate dalla ritualizzazione della loro collocazione geografica e legate ai benefici apportati dall’ecosistema originato dal semicerchio di vulcani, e la conseguente abbondanza di pioggia e terreni fertili.

L’organizzazione sociale arrivata con l’induismo si integrò alla religione “animistico-spaziale” locale che vedeva nell’asse montagna/mare (kaja-kelod) e alba/tramonto del sole (kangin-kahu) il fondamento della vita, riflesso nel macrocosmo che gli abitanti avevano creato. Ne emerse una prima forma di induismo, dai tratti arcaici, successivamente riformata, in ultima istanza dall’influenza Majapahit, fino ad assumere le caratteristiche che oggi contraddistinguono gran parte delle comunità religiose isolane.

Solo in alcune aree limitate sopravvivono scampoli di pratiche religiose e organizzazioni sociali che potremmo definire di induismo primitivo, limitate a quelle comunità che anticamente abitavano le zone centrali di Bali.

Una di queste comunità vive a Bayung Gede. Tra i tratti che la distinguono c’è il mito della propria origine, la suddivisione dei compiti nella gestione della collettività e la singolare pratica che a ha che fare con la placenta di un nuovo nato.

Gli abitanti di Bayung Gede credono che i loro antenati abbiano avuto origine dai ceppi degli alberi tagliati, riportati in vita con la tirta kamandalu (che è l'acqua della vita prodotta dal dio Brahma) aspersa da Hanoman, la scimmia bianca, discepolo del dio Betara Bayu (la divinità che governa il vento). Un mito che contiene in nuce l’ecologia umana di un popolo legato alla natura isolana e il messaggio che si deve sempre rispettare l'universo (Bhuana Agung) e la natura come una madre amorevole che partorisce e si prende cura degli esseri umani. Ne deriva una profonda considerazione che la collettività ha per le foreste attorno al villaggio, da cui trae da millenni sostentamento e che è obbligata a preservare.

Stante la loro provenienza dal legno, quando nasce un neonato il suo simbolo, qui detto Catur Sanak, o il “fratellino”, che lo avvolgeva e proteggeva nel grembo materno, deve ritornare al legno. Questa convinzione si manifesta nel rituale di inserire la placenta dentro una noce di cocco e di appenderla ad un albero designato, il pohon bukak (Tabernaemontana macrocarpa ?), che cresce in un’area boschiva protetta, chiamata Setra Ari-ari (il cimitero delle placente).



L’intero processo di sospensione della placenta è piuttosto complicato. Innanzitutto, la placenta deve essere lavata e pulita il più possibile e così la noce di cocco (kau), poi tagliata in due parti. Sul guscio superiore viene tracciato il simbolo Ongkara ().


I famigliari spesso inseriscono nell’involucro vari ingredienti: cenere, anget-anget (coriandolo, mesui, noce moscata e chiodi di garofano) e tengeh (curcuma mescolata a calce). Il guscio viene richiuso, la sutura sigillata con calce e il tutto viene avvolto stretto con legacci fatti di fibre di bambu (salang tabu).

La funzione è fare in modo che il “fratellino” rimanga in un ambiente protetto, fragrante, caldo, e il bambino cresca in modo appropriato.

Il padre del neonato porta la noce di cocco al setra ari-ari che si trova in un bosco a valle del villaggio (in posizione kelod), con un falcetto al fianco (tah).



L’involucro con la placenta viene appeso ad un ramo scelto dell’albero bukak e il padre raccoglie qualche foglia di felce prima di rientrare a casa: una volta appesa fuori della soglia informerà tutti dell’avvenuta nascita e sospensione della placenta. I fiori dell'albero bukak contengono oli essenziali che svolgono un ruolo importante nell'assorbimento dei cattivi odori. Anche le foglie sono utilizzate per avvolgere cose nelle cerimonie Dewa Yadnya e come protezione dei genitali nella preparazione di una salma per la sepoltura.

Questo mito contiene credenze cosmologiche sulla nascita e la morte e sul tema della reincarnazione. L’albero bukak, la foresta, diviene il simbolo della madre niskala di Catur Sanak: ad essa il “fratellino” deve fare ritorno e “reincarnarsi” per completare il ciclo della vita.