Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

martedì 13 dicembre 2016

nyale: tra mare e terra.

     Ogni anno, da cinque a sette giorni dopo la seconda luna piena (di solito nel mese di febbraio, a volte anche in marzo) un polichete di mare, la Palola viridis, che vive sul fondo sotto le rocce calcaree, inizia il proprio ciclo riproduttivo col rilascio di segmenti del proprio corpo carichi di uova e seme. Masse di propaggini riproduttive, simile a millepiedi variamente colorati, abbandonano il nuoto attivo e si lasciano trasportare dalla corrente sotto costa.
     Le popolazioni indigene di molte isole dell’Indonesia e del Pacifico considerano questo un evento che reca con sé potenti significati simbolici legati alla fertilità, soprattutto per l’elevato contenuto proteico che ne fa un alimento altamente nutritivo e intrinsecamente fecondo.
     


     Nel caso di Sumba, le lune calanti di febbraio e marzo sono i momenti propizi per osservare comportamento, numero e colore dei vermi di mare e legarli all'inizio della Pasola e alla prodigalità del raccolto di riso.
     La notte prescelta, il rato nyale, che si occupa del rituale, inizia con una preghiera al marapu dalla pietra di una tomba megalitica, col viso rivolto verso la luna. Allineato con la luna, il rato può misurare con attendibilità la posizione dell’astro e lo stato del moto ondoso dell'oceano. Se i segni sono conformi a quanto tramandato dai marapu, il rato nyale fornisce il responso e la cerimonia della raccolta dei vermi e, il giorno successivo, la Pasola possono avere inizio e le previsioni per il prossimo raccolto sono più favorevoli. All'alba, il rato nyale entra in acqua per catturare i primi nyale e ne controlla aspetto e colore. Centinaia di persone accorrono dai villaggi vicini per sentire le previsioni per il prossimo raccolto. La predominanza di vermi di colore verdastro indica che la risaia sarà infestata da muschio; il colore marrone avvisa di possibili infestazioni di insetti.



     La quantità ed il colore del nyale, visibile sotto costa in quel giorno, determinerà, attraverso il risultato del raccolto, il destino di tutti gli abitanti del villaggio. Un’abbondante cattura è segno che anche il raccolto di riso di quest'anno sarà copioso. Il nyale è tradizionalmente associato alla fertilità e, come parte della serie di cerimonie associate alla loro raccolta, i vermi marini sono tritati e sparsi nei canali di irrigazione intorno ai campi per contribuire a garantire un buon raccolto.


      Il nyale è raccolto anche per essere cucinato e consumato dagli abitanti del villaggio. Alcuni ardimentosi non esitano a mangiarlo ancora vivo. La frittata di nyale è un piatta localmente ricercato per l’alto contenuto proteico ed il sapore pungente. I vermi sono cotti anche al vapore, fritti, o trasformati in pepes nyale, mescolati con cocco e spezie, avvolti in una foglia di banana e arrostiti sul fuoco.


Tarik batu: il valore simbolico di una tomba

     


     Il paesaggio di Sumba, in particolare la regione occidentale, o Barat Daya, da Kodi a Wanokaka, è punteggiato da centinaia e forse migliaia di tombe megalitiche. La costruzione di queste grandi tombe di pietra è chiaramente un impegno eccezionale. La quantità di lavoro e di capitali necessaria per erigere questi monumenti sembra rendere questo sforzo di gran lunga il più grande dispendio di tempo, energia e risorse nella società tradizionale Sumbanese.

     Nel contempo, questa impresa monumentale riserva svariati benefici sociali, politici ed economici a coloro che vi sono coinvolti. Quando attuata per tempo, è motivo di orgoglio e conforto. In primo luogo, è un’azione di promozione sociale giacché spesso i monoliti sono spostati, dalla cava al villaggio di destinazione, ad un ritmo inutilmente lento per dare modo al proprietario della pietra di mettere "in mostra" la propria ricchezza attraverso un programma cerimoniale svolto per un periodo più lungo del solito. Un’altra forma di esibizione di potere e prestigio si ottiene impiegando un numero elevato di persone che ‘tirano’ (tarik) la pietra. Dalle circa 200 o 300 persone per trascinare un monolite, si arriva anche a 1.000.

     Anche dimensioni ed estetica servono allo scopo, trasmettendo grande considerazione e rispetto per il censo di chi è in grado di acquisire le pietre più grandi e impiegare artigiani che possano abbellire riccamente le superfici esterne della tomba con bassorilievi, statue e motivi geometrici e simbolici rituali. Nella regione di Kodi, entrando in un villaggio o entro una sezione del clan all'interno di un grande villaggio, fanno molta impressione i gruppi di antiche tombe di pietra collocate davanti alle case che circondano la natara, o zona cerimoniale del clan, dove si svolgono grandi cerimonie. In tal modo, ricchezza, notorietà e prodigalità, di individui e del loro clan, sono immediatamente riconoscibili e quantificabili.

     Nel contesto economico tradizionale di Sumba occidentale, la proprietà della terra e degli animali domestici è un elemento chiave per l'acquisizione di ricchezza e prestigio. Di conseguenza, il maggior dispendio di riso (terreni) e di animali (sacrifici) avviene durante il complesso programma di cerimonie che si attua con la costruzione di tombe megalitiche di pietra. Nel contesto di questi eventi, vi è uno scambio di animali (carne) contro manodopera e animali per altri animali.

     Di più, è importante anche la forma di indebitamento che si instaura in conseguenza del sostegno che amici e parenti garantiscono al proprietario della tomba nella fornitura di grandi animali da sacrificare durante i rituali associati alla costruzione. La capacità di sponsorizzare grandi cerimonie e la costruzione di tombe megalitiche dipende quindi, in larga misura, dai rapporti che ciascuno si è costruito nel tempo. Al fine di stabilire una tale rete di relazioni e di sostegno, è assolutamente necessario tessere una serie di collegamenti parentali attraverso accordi di matrimonio per se stessi e la propria prole. Inoltre, è essenziale dimostrare una conveniente ‘lista crediti’ ottenuta da adeguati sostegni alle cerimonie altrui.

     Un capo famiglia che intenda costruire una tomba deve in primo luogo assicurarsi l’approvazione del marapu e del proprio clan, attraverso sacrifici, cerimonie e incontri. Nel contempo, deve raccogliere la quantità di denaro, animali, cibo, parang, kain sarung e, nel caso, gioielli, sufficiente a compensare tutte le persone che verranno coinvolte nel lungo processo di scavo, trasporto e costruzione. l’intero processo può durare mesi o anche anni.



     Solo a questo punto può iniziare lo scavo in una delle cave di arenaria, la più famose delle quali è quella dietro la spiaggia di Wainyapu, nella regione di Kodi. Dopo lo scavo va organizzato il trasporto al villaggio del capofamiglia e la successiva costruzione vera e propria della tomba. Per ultimo viene l’abbellimento, eseguito da scalpellini specializzati (tukang batu). Gli scalpellini tradizionalmente ricevono una grosso bufalo d'acqua vivo, un sarong e un lungo pezzo di stoffa intessuta. A lavoro completato, si indice una festa e viene sacrificato un maiale. Lo scultore, di solito, si tiene la testa di questo maiale (le teste di suini sono particolarmente ricercate, visto che garantiscono mascelle da esibire appese alla veranda di casa propria).


(grazie a Ron Adams e Retno Handini)

lunedì 12 dicembre 2016

Li'i marapu, la parola agli antenati

In occasione di molte delle cerimonie che regolano la vista sociale delle comunità di Sumba Ovest, grande rilievo viene dato al dialogo ritualizzato tra viventi e marapu, chiamato LI’i marapu . Questa sorta di canto battagliero è affidato a persone speciali, i rato, che tramandano così un sapere codificato in secoli di tradizioni verbali. E’ una sorta di ‘libro sacro’ non scritto ma narrato, che affida alla parola rituale il rapporto stretto che i Sumbanesi hanno con il loro cuore spirituale e religioso, il marapu.

Il luogo elettivo del discorso rituale è il natara, sorta di ombelico spirituale del villaggio, con la grande pietra posta al centro. Attorno si trovano sparse le tombe megalitiche, i dolmen per gli antenati e le grandi case di famiglia. I partecipanti lo vivono come un anello unificante cui tutti appartengono e presenziano per rivivere e ricordare la tradizione.
Tutti i consanguinei, matu mata, tenga wiwi, ‘tutti gli occhi e le labbra’, dovrebbe essere presenti per mostrare il loro rispetto per i valori tradizionali comuni. Tutti ascoltano la voce del rato e rispondono "Yawaoh!". Solo così è possibile iniziare un discorso rituale che sia 'pieno' e valido per raggiungere gli antenati.



LI’i marapu si riferisce alle parole che si collegano i vivi ai morti, ai loro antenati, e a tutte le forze del mondo invisibile, cui si riferisce collettivamente come marapu. Ma li’i ha anche il senso di promessa: katuku Ili, 'piantare la parola', si riferisce al contratto stipulato tra chi chiede ad esempio un raccolto abbondante o abbondante prole e un marapu specifico cui è promesso in cambio il sacrificio di un animale, dopo un certo periodo di tempo. Queste 'parole' sono espresse in un linguaggio cerimoniale, tenda, che è composto di formule che utilizzano immagini e metafore. Ognuna di queste formule, che usa parole e espressioni sinonime o affini che non sono sempre presenti nella vita di tutti i giorni, possiede un significato preciso e può essere utilizzata in diversi contesti. Lo scopo è di aprire un dialogo tra le persone e il marapu attraverso un rito articolato e a più fasi.

Chi effettua il discorso rituale sono i rato o kabani-bani, o 'uomini di rabbia, che in questo contesto significa non tanto emozione quanto espressione di autorità e sapienza nell'azione, entrambe funzioni essenziali per l'ordine sociale. I kabani-bani sono uomini di alto rango la cui sapienza spirituale in tema di leadership e di interpretazione dei valori tradizionali è fuori discussione. Essi sono gli intermediari tra gli antenati e la vita di ogni giorno. Conoscono le parole degli antenati, li'i marapu, sotto forma di migliaia di coppie di versi recitati a memoria e rapidamente, ad alta voce e con entusiasmo, in mezzo ad una folla di ascoltatori silenziosi.

Forse la caratteristica principale di questo dialogo è che si svolge in forma di una contesa in cui il marapu 'esige' ciò che gli spetta: che la tradizione sia seguita, che una promessa si compia o che la riparazione per una trasgressione sia fatta. Spesso è a causa di un cattivo presagio (malattia, morte o incidente) che un rituale si svolge e sono le persone che devono obbligatoriamente spiegare e giustificare i loro atti nell'interpretare i segni inviati dal marapu. Questi segni (tanda) sono un mezzo fondamentale di comunicazione tra visibile ed invisibile. Sono la parola del marapu, che sia favorevole o avversa, in risposta alle parole rivolte loro dagli uomini. Questi segni quindi generano parole da parte di uomini che sono accompagnati da musica, canti e balli, a seconda della solennità del rito, che si conclude sempre con il sacrificio di un animale la cui interiora o il fegato vengono esaminate per decifrare i segni inviati dal marapu. Così segni, parole e sacrificio sono profondamente legati insieme.

Quando si deve tenere una cerimonia si attiva tutta una serie di legami sociali: parenti e consanguinei aiutano il titolare del rito nella raccolta degli animali necessari per il sacrificio. Inoltre, è necessario convocare coloro che si specializzano nella orazione: ata urataata zaizo e ata woleka - uomini che officiano i tre tipi di cerimonie che designano diversi gradi del rituale. Questi livelli successivi nel rito sono simili ai pioli di una scala che deve essere scalata passo dopo passo - la 'scala delle parole pronunciate per il marapu', nauta lei marapuUrata è il primo passo, e può essere accompagnato da un semplice sacrificio di un pollo senza l’accompagnamento di tamburi e gong. Zaizo è una celebrazione rituale più elaborata necessario, per esempio, per richiamare l' 'anima' del riso o l'anima di un uomo colpito da un fulmine. Le parole rivolte al marapu sono questa volta accompagnate da un canto e sottolineate dal battito dei tamburi e gong e da sacrifici animali più importanti. Woleka è il passaggio finale in cui i vivi e il marapu sono `rasserenati '. Si tratta di una cerimonia di ringraziamento e di omaggio al marapu che ha accordato la propria benedizione in modo che il padrone di casa possa 'arrossare il villaggio con il sangue', dimostrando così di essere un uomo importante, un ata mboto, 'un uomo di peso'.

Sia da sola che accompagnata dal suono di tamburi e gong, la parola è dunque al centro del rituale e la sua efficacia nell'ottenere l'approvazione del marapu dipende, in larga parte, dal modo in cui viene eseguita e pronunciata. Tre concetti importanti sembrano essere incarnati nel discorso rituale. Il primo è chiamato nggoba, 'coppia, partner' (concepito anche come 'avversario'). Le formule rituali formano coppie in cui una frase è bilanciata da un’altra; tamburi e gong sono partner; i viventi e il marapu sono partner nel dialogo rituale. Il secondo concetto, legato al primo, è quello del intermediario: l'officiante, il cantore, il morto recente, 'permettono al discorso di passare' da una parte all'altra; essi sono il 'ponte' che unisce le due sponde del colloquio. Il terzo concetto è quello di nauta 'scaletta'. Questo è sicuramente l'immagine di una gerarchia di importanza data alle varie fasi del rito e della parola indirizzata al marapu. E’ anche l'immagine di un approccio passo-passo, di una progressione nel discorso rituale che, arrivato alla sua conclusione, ha raggiunto il suo obiettivo: gettare via 'ciò che è caldo' (ambutu ambangata) e sinonimo di pericolo, e ricevere 'l'acqua fredda, l'acqua fresca' (we'e maringi we'e manggabo), che simbolo di salute e prosperità .

(grazie a Brigitte Renard-Clamagirard e Elvira Rothe)


sabato 5 novembre 2016

Il ciclo dell'acqua nella mitologia balinese

Bhatara Tengahing Segara
Ava divas tarayanti
Sapta suryasya rasmayah.
Apah samudrriya dharaah.
 (Atharvaveda VII.107.1).
Sette raggi solari
evaporano naturalmente
l'acqua di mare
verso il cielo blu.
Poi dal cielo blu
la pioggia cade sulla terra.



 “Il sole che splende sulla terra penetra in modo naturale col suo calore nell’acqua mare. Questa è la legge naturale della creazione di Dio. L'acqua dell'oceano, esposta alla luce solare, evapora nel cielo in forma di nuvole. Sempre per legge di natura le nuvole si trasformano in pioggia. L'acqua piovana che cade sul monte verrà assorbita correttamente solo se la foresta è fitta. Dal processo della creazione divina nasce la naturale fertilità della terra, che è la fonte di tutti gli esseri viventi. Se grande è il dono di Dio all'umanità, altrettanto lo è il debito che essa deve a Dio. La natura umana sarebbe infelice se l’intero processo fosse interrotto o alterato.”
E per infondere il credo che la vita non deve danneggiare i processi naturali, Dio è adorato nella sua manifestazione di Dio del Mare. Nella tradizione indù di Bali il Dio del mare è chiamato Bhatara Tengahing Segara, celebrato nel Pura Goa Lawah, il tempio-caverna sul mare, lungo la strada per Karangasem.

Nel Lontar Prekempa Gunung Agung si racconta che Shiva inviò la Trinità, Sang Hyang Tri Murti, per salvare la terra. Brahma discese per reincarnarsi nel serpente (naga) Ananta Bhoga. Vishnu si incarnò nel serpente Basuki e Iswara diventò il serpente Taksaka.
Naga Basuki si posizionò con la testa nell'oceano per farlo muovere ed evaporare a formare le nuvole. La coda diventò il monte e le sue squame le foreste che l?ammantano. La testa di Naga Basuki così divenne l’apertura che collegava il mare con la cima del Gunung Agung: la grotta Goa Lawah. L’apice della coda si trova nel tempio Pura Goa Raja, uno dei templi del complesso di Besakih. Infatti anticamente si credeva che tra i due luoghi vi fosse un collegamento sotterraneo, che solo il terremoto del 1917 fece franare, interrompendolo. (www.babadbali.com).

Quindi l’azione “dell’alito divino” della testa del naga Basuki fa evaporare l’acqua di mare che, condensandosi, forma le nuvole. Queste, portate dal vento, si addensano sulle pendici del Gunung Agung e precipitano in forma di pioggia. L’acqua piovana, agevolata dalla fitta copertura forestale, permea il terreno e, attraverso i collegamenti sotterranei, ritorna al mare lungo coda e testa del naga Basuki.

Nel tempio di Goa Lawah i balinesi adorano il Dio affinché un tale processo naturale abbia corso regolare e la terra rimanga fertile a beneficio dell’umanità.

lunedì 26 settembre 2016

I giovani balinesi e la tradizione

In molti hanno osservato, nel corso dello sviluppo impetuoso e disordinato del turismo a Bali degli ultimi 20 anni, che non ce l’avrebbero fatta. Che i giovani balinesi non avrebbero retto al bombardamento sconsiderato di valori avulsi e spesso opposti a quelli gelosamente tramandati dalla società agricolo-religioso-feudale isolana. Che avrebbero accettato passivamente il consumismo e si sarebbero consegnati ad un capitalismo caotico e irrispettoso, un po’ come sta accadendo alla stessa frangia di popolazione nelle altre tigri asiatiche, Malesia, Thailandia, Vietnam e Filippine.
La realtà restituisce come al solito una situazione articolata, senza vincitori né vinti. I ragazzi balinesi sono sì lanciati nell'adottare nuovi modelli di comportamento, nuovi stili di vita, ma restano nella stragrande maggioranza ancorati e avvolti nel bozzolo culturale della organizzata e onnicomprensiva società dell’isola degli dei.
I membri più giovani di ogni banjar e villaggio continuano in massa a partecipare alle cerimonie religiose che formano l’ossatura entro cui si articola la vita di ogni abitante dell’isola, scandite in riti di passaggio e celebrazioni di dei ed antenati. Ci vanno in moto, con immancabili occhiali scuri, seri e imbronciati, cellulare all'ultima moda, acconciatura ardita e tatuati. Ma ci vanno, maschi e femmine in egual misura.

Questa piccola enclave di pensiero induista, persa in un oceano di isole abitate in massa da musulmani, non mostra di sgretolarsi sotto i colpi del profitto, che cerca di trasformare le magnifiche risaie della Bali rurale in enormi complessi turistici ed ha già con successo trasformato un paradiso esotico per pochi in un’icona turistica per le masse. Il segreto è, forse, in una parola: appartenenza.
L’intreccio di legami di famiglia, famiglia allargata e clan che trattengono e cementano assieme i gruppi sociali dell’isola è talmente saldo e autentico che ancora riesce efficacemente a proporsi alle nuove generazioni come modello originale, caratteristico, unico. Quasi uno status symbol, la balinesità. Un modello non da rigettare e sostituire con altri più semplici e moderni, ma da mantenere, coltivare e fare proprio. Da indossare con l'orgoglio di emergere ed essere distinguibili in quest'immensità etnica che è l’Indonesia moderna, al di là del pensiero unico islamico che, come un’immensa coperta, tende a uniformare, se non cancellare, la ricca diversità culturale dell’arcipelago.
In questo scenario l’unicità di Bali diventa una bandiera che attrae migliaia di giovani che non esitano a partecipare alla densa vita cerimoniale, vestiti in modo tradizionale e disciplinati a seguire passo passo le procedure rituali così come tramandate nei testi sacri redatti in foglie di palma.

Paradossalmente, il turismo di massa, con la sua pressione culturale multiforme e sguaiata, che invade l’isola e ne erode l’ecosistema naturale, tiene in vita gli aspetti esotici della cultura balinese promuovendone sul palcoscenico globale particolarità e sottolineandone l’identità. Tutti conoscono il brand Bali, i media mondiali ne parlano, viene dipinta come meta di vacanze esotiche, fatta di sorrisi, sole, mare e cerimoniali millenari. I balinesi sono dipinti come dediti alla danza, alla musica, all'adorazione silenziosa degli dei, disponibili al sorriso e quieti nell'accogliere il turista.
A fronte di ciò, gli abitanti dell’isola reinventano le categorie classiche con le quali definivano sé stessi e la propria cultura, si appropriano del brand e sottolineano l’esclusività etnica e religiosa di una discendenza induista. Pur nella contraddittoria realtà di un’isola colonizzata dalle élite polito-economiche giavanesi e dal capitale straniero, i balinesi riescono a mantenere e riformare le tradizioni artistiche e religiose che li hanno identificati per più di un millennio.
La balinesità è un asset in mano sia alla nuova borghesia, creatasi col turismo, sia ai banjar delle aree agricole. La unicità è coltivata attraverso il “turismo culturale” che vuole mostrare al mondo un complesso di cultura e natura interdipendenti e riconoscibili.
I ragazzi si muovono disinvolti all'interno di queste contraddizioni e cavalcano questi flussi di milioni di ospiti dai passi fugaci, imparando fin da piccoli a convivere con essi senza mancare di rinsaldare anno dopo anno, cerimonia dopo cerimonia, i contorni della loro traccia culturale.
Luogo ideale e significativo che sancisce il rinnovo dell’appartenenza è il rito di passaggio, che occupa con immutato trasporto, anno dopo anno declinato individualmente o in massa, la vita dei giovani balinesi.
Esempi se ne incontrano molti una volta abbandonate le caotiche vie intasate dal traffico dei vacanzieri e percorse le strade ancora verdeggianti di risaie della Bali contadina. Qui ogni villaggio è ancora addossato all'incrocio principale (il perempatan agung) fulcro dell’intreccio religioso-sociale che i balinesi si cuciono addosso. Da qui passano tutte le cerimonie rivolte agli dei, ai demoni ed agli umani.

I ragazzini di Daha Tukad, villaggio antico annidato tra le fertili colline alle pendici del grande vulcano, avvolti nei loro preziosi geringsing, tessuti seguendo antichissimi disegni indiani, si fotografano a vicenda con aria sbarazzina, sbirciando al di sopra dei loro smartphone e macchine digitali. E’ il giorno dell’abbandono dell’età dei volti lisci e innocenti per entrare a pieno titolo tra gli adulti del villaggio. I maschi, infagottati in vesti candide e marziali, il dorso coperto da mantelli variopinti, sono carichi di tensione sottolineata dall’eyeliner. Le giovani vergini, con la sensuale naturalezza di una femminilità raggiunta precocemente, schierate a spalle scoperte esibiscono sguardi languidi colmi di mascara. I due gruppi si scambiano occhiate rubate. Parecchi bambini si agitano in attesa di aprire, con il coraggio dell’innocenza, la lotta a colpi di foglie di pandano dalle spine laceranti, simbolo del rinnovo del patto di sangue che lega alla terra. Ai gesti millenari dei riti di passaggio, questi giovani adulti mescolano orpelli moderni maneggiati con consapevole noncuranza. Rimarcano la loro attualità mentre rinnovano il patto con l’antico.



A Munggu, nel cuore dell’ortodossia agricola della cintura verde di Tabanan, il velo dell’adolescenza è squarciato da squadre di giovani maschi che, con aria sorridente ma decisa, si fronteggiano muniti di fasci di alte picche di legno scortecciato. Le schermaglie iniziali a colpi di spintoni tra squadre urlanti per accaparrarsi le posizioni migliori, presto lasciano spazio alla vera prova di coraggio: scalare da soli la liscia piramide formata dalle aste affastellate. Ci vuole il giusto mix di fegato, agilità e soprattutto fiducia nella salda presa offerta dall'azione congiunta della propria squadra. Doti di cui i giovani adulti dovranno dare prova nella comune gestione delle faccende del villaggio. Alcuni adulti offrono consigli e raffreddano rapidamente animi troppo accesi. Nessuno dei giovani del circondario si sottrae alla sfida che conserva il significato millenario del rito di passaggio, ma vi partecipa con il personale e moderno segno di distinzione degli occhiali da sole e delle t-shirt con scritte che esortano a partecipare alla cerimonia (mekotekan) che accomuna.







martedì 12 aprile 2016

Il baratto a Lamalera è un affare femminile


A Lamalera il mercato del baratto si tiene con due modalità distinte: Fule e Pnete o Penete. Il fule si svolge in uno spazio dedicato e secondo una scadenza consueta, di solito una volta alla settimana. Il Penete avviene nell’ entroterra, di casa in casa, tutti i giorni esclusa la domenica.

Il Fule si svolge tra le genti della costa e quelle dell'entroterra, che si incontrano in un luogo prestabilito, esattamente come uno dei tanti mercati locali. Nella costa meridionale di Lembata lì fule è a Wulandoni il Sabato e a Lebala il Mercoledì. In questo periodo di accese discussioni tra le comunità, il fule si è spostato a Lamalera il Giovedì. Mentre il Pnete (almeno nell’area costiera di Lamalera) si svolge nelle campagne e comporta uno scambio di merci porta a porta.

Nessun abitante dell’interno può scendere verso la costa per svolgere il Pnete, perché questo commercio è assegnato tradizionalmente solo alle donne delle comunità costiere. Nell’isola di Lembata è svolto solo dalle comunità femminili di Lamalera e Ile Ape (area costiera attorno al vulcano nel nord di Lembata). Nel caso di Ile Ape il mercato fule è limitato al villaggio di Bao. 
Le donne di Lamalera, per raggiungere i villaggi dove avviene il baratto, si muovono oramai solo con mezzi moderni, gli oto, grossi camion scoperti, o i Jonson, nome generico per una barca con fuoribordo. Il costo del biglietto si paga con denaro. Poche sono le persone che vanno a piedi, come una volta.

Nell’isola vicina di Pantar, invece, solo le donne di Baranusa hanno ancora l’abitudine di andare verso l’interno a scambiare o vendere pesce. Tuttavia, perché a Pantar e Alor le località dedicate al baratto sono ancora molte, di solito si limitano allo scambio senza denaro. In alcuni luoghi, nello stesso giorno si tiene il mercato in più di una località. Le donne della costa possono portare pesce ed altri prodotti del mare in cambio di generi alimentari. Solo le donne di Lamalera scambiano kotekelema (la carne di capodoglio).
      
            Gli scambi nel fule durano 2-3 ore, di solito dalle 11 alle 13, anche se fin dalle 9 di mattina molti sono già arrivati dai villaggi vicini. Nelle isole di Alor e Pantar il mercato del baratto di solito inizia la mattina presto alle 6 e alcuni addirittura cominciano quando è ancora buio.
        Le donne che partecipano al fule, che vengano dalla costa o dall’interno, sono solitamente ragazze o giovani madri. Molte donne di Lamalera utilizzano il mercato fule del sabato a Wulandoni anche per il pnete. Arrivano la mattina presto e subito vanno di casa in casa, vicino al mercato, ad offrire pesce, sale e altri prodotti. Così, quando alle 11 inizia il fule, la maggior parte del pesce è già stata venduta.
       
          I prodotti dell’agricoltura scambiati nel fule sono un po’ diversi da quelli barattati nel pnete. A Wulandoni e Lebala le merci che provengono dall'entroterra sono per lo più banane e altra frutta, verdura e patate. Mais e riso sono provengono invece dall'entroterra (pnete e non il fule di Wulandoni). Dalle aree rurali è normale vedere le ragazze di Lamalera trasportare sacchi di mais o di riso.
      Il Pnete ha tempi più rilassati, perché le donne hanno camminato di casa in casa, incontrato i proprietari degli orti e dei campi, intavolando talvolta lunghe contrattazioni. Nel fule, oltre ai tempi stretti per le contrattazioni, c’è la competizione serrata tra venditrici vicine.  Donne di Lamalera che vendono pesce possono competere con altre dell'entroterra che vendono banane o patate dolci. La concorrenza nel fule è più stringente che nel pnete.
A Wulandoni, da quando è diventato capitale di kecamatan si respira un'atmosfera più vivace, piena di mercanti che convergono al capoluogo.
        L’atmosfera del fule è tipicamente femminile, perché è gestito per lo più da donne. I maschi intervengono nel ruolo di aiutanti, in genere autisti o accompagnatori che portano le mercanzie.

Ai giorni nostri, i mercati del baratto di Wulandoni e Lebala sono cambiati nel senso che in vendita non ci sono solo generi alimentari ma anche prodotti per la casa che si pagano con denaro a commercianti provenienti da altre zone dell’isola. Si trovano utensili da cucina, vestiti, materiale scolastico, medicine tradizionali e CD. Il denaro che compra beni per la famiglia si mescola allo scambio di prodotti agricoli e della pesca e non è raro che un acquirente acquisti qualcosa con denaro e scambi qualcos’altro con generi vari.


Il baratto rimane il mezzo principale per ottenere il kotekelema o tranci di carne di altri pesci catturati da un Tèna (la lunga barca da pesca di Lamalera).

(con lamalerakoteklema.blogspot.co.id)

mercoledì 2 marzo 2016

E se avessi trovato il paradiso?


La via per il paradiso richiede un veicolo straordinario. La moto di Mikel, nipote di pak Alfons, detto Ardi, manco a dirlo, è scassata, tenuta assieme da fil di ferro, nastro adesivo e mani del guidatore. I poggiapiedi troppo inclinati, la sella dura e le sospensioni finite rendono precaria e scomoda la vita del trasportato. Che deve, per l’appunto, entrare in uno stato di alterazione psichica per affrontare il lungo tragitto, colmo di ostacoli e insidie.
Il veicolo per il paradiso non ci abbandonerà mai, guidato da mani supremamente abili.
Sono entrato in paradiso dopo la svolta a destra, in fondo alla stradina che esce dal villaggio di Werang, passata la valletta ricolma di alti alberi di kemiri e superato un ultimo dosso.


Il paradiso è in riva al lago di Sano Nggoang, le cui acque cambiano da verde scuro a smeraldo quando il vento sposta le nubi a suo piacimento. Intorno c’è la foresta, con liane, ara, ficus giganti. Ovunque, anche dietro le poche case del villaggio, volano liberi centinaia di uccelli. Sì, ci sono anche case e persone, in paradiso, ma vivono con ritmi arcani, sciolte da ogni tensione.
Hendrik e Maria sono tra questi, in possesso delle chiavi di questo empireo, conservate avvolte nel loro grazioso e luminoso sorriso. Le offrono volentieri al viandante che si avventura fin qui con l’idea di partecipare ad una serenità che non gli appartiene più. Maria e Hendrik ti regalano una porzione di questa realtà e, per un lungo momento di intensa estasi, credi di poter lasciare il paradiso portandola con te per trapiantarla con successo là dove vivi. Ma la piantina quasi sempre muore.
Loro due, incuranti dei tuoi pensieri, usano a piene mani semplicità e sorriso, disponibilità e calore, abilità e saggezza e si presentano così ai tanti ornitologi, ricercatori e semplici viaggianti che si presentano alla loro porta.
Qui in paradiso, la casa di M & H è la più semplice ed accogliente. Hanno deciso di costruirla usando solo legni della foresta e bambù. Qui in paradiso, l’unica grande veranda è quella che corre lungo la facciata della loro casa, alta sulla strada così da arrivare alle calme acque del lago. Sotto la veranda, su sedili e panche massicci che ricordano le forme della foresta, si chiacchiera, si beve il caffè appena tostato e pestato di fresco da Maria, si leggono libri di ornitologia e di architettura. 

In paradiso si dorme su una bassa piattaforma di bambù, rialzata sul pavimento di fango. Si mangia bene, in paradiso, il riso bollito, le verdure e i pezzetti minuscoli di pollo fritto hanno un sapore diverso. Anche il peperoncino, abbondante, ha un sapore diverso. Sarà che in paradiso tutto è così sapido e pungente.
Qui in paradiso c’è un luogo, peraltro un po’ sulfureo, dove ci si lava attingendo acqua termale con tre diverse temperature.

Una serie di beringin di proporzioni colossali sorveglia la riva del lago e offre riparo a intere comunità di formiche, ragni, lucertole, tokay ed uccelli, miriadi di uccelli. Impossibile ricordare tutte le specie incontrate, ma sono molte.


Il krik krik dalla coda a punta e piume giallo arancio verdi. L’inconfondibile richiamo del watik kembang. L’oriola gialla e nera, becco affilato, volatrice irrequieta e inafferrabile. Il giallo grigio verde chiaro del piccolo kacamata wallacea. Il gracchiare lontano del gacak, il corvo di Flores.
Le larghe e nodose fronde del beringin chiamano a gran voce il viandante e lo invitano a sedersi sotto la propria ombra. Se si accetta l’invito, dopo qualche tempo inizia il coro polifonico degli abitanti alati, che incuranti dell’estraneo, riprendono l’intreccio di richiami e avvisi. Il canto fluisce ininterrotto.
Il paradiso è musica, che avvince e allontana.