Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

venerdì 29 aprile 2011

L'allenamento

Sul camion gli uomini sono sballottati contro i larghi fianchi dei due bufali, uno bianco ed uno color sabbia. Dalla sponda pendono i pezzi di un carro da corsa smontato. Il giogo leggero termina con sinuosi serpenti policromi dalla testa coronata. Gli occhi di uomini e bestie ancora riflettono gli sforzi e l’eccitazione della corsa appena terminata…

…zampe poderose percuotono affannate la sabbia. La coppia di bufali scatta sul sentiero di gara. Il fantino sottolinea le urla di incitamento con pesanti scudisciate sui quarti posteriori. Schizzi di sangue presto imbrattano il corto pelame, i chiodi si fanno strada attraverso il cuoio del dorso, che non sembra più così spesso. I pochi spettatori aggiungono le loro frustate a quelle del pilota, eccitati dal rischio della scommessa. Urla, commenti salaci, fumo nervoso di sigaretta, lo scudiscio dalle punte ferine appoggiato mollemente al gomito. Parte un’altra coppia, attenti! devia verso la risaia, il carro s’inclina su una ruota e ricade con un tonfo che si perde tra le grida…

Il campo di gara di Delod Berawah si allunga per quasi due chilometri attorno a piccole risaie. Viene percorso due volte in senso opposto e mette a dura prova la vita altrimenti tranquilla di questi bestioni.

L’allenamento è finito e uomini ed animali, stretti sul camion, sia avviano verso casa attraverso verdi campi di riso, orti e ciuffi di banani. I bufali salgono e scendono dal cassone con insospettata agilità, senza alcuna pedana e poco incitamento. Le grandi narici forate dalla corda s’aprono ancor di più, sotto gli occhi spalancati e bianchi di paura. Nonostante l’abitudine e la pratica settimanale i due animali, ancora giovani, sono agitati per il tragitto in camion e stanchi e infastiditi dalla pesante esercitazione. I fianchi si gonfiano d’un respiro caldo e rapido e qualche goccia di sangue cola ancora dalle larghe ferite inferte dal pungolo d’acciaio.

I bufali d’acqua asiatici sono d’indole tranquilla e docile, poco inclini ai rapidi e travolgenti movimenti dei loro cugini d’Africa. Farli correre a comando in gare in cui velocità, resistenza e obbedienza sono i criteri di giudizio non è impresa facile. E la frusta uncinata, nonostante lo spesso cuoio che ricopre i fianchi, fa male.

Solo i giovani vitelli che si rivelano sufficientemente pronti alla corsa e docili sono scelti ed avviati ad una esistenza per la maggior parte del tempo sedentaria. Legati sotto un grande albero di mango, protetti dalla feroce calura, nutriti con tenere erbe di campo, sono accompagnati al fiume due volte al giorno per le abluzioni.

Niente lavoro nelle risaie a tirare l’aratro immersi nel fango fino al ventre. Nessun carico da trasportare, tanto pesante da piegare anche le loro schiene possenti. Un altro fardello li attende, ben altri sforzi e dolori. Una corsa settimanale per abituarli alla sollecitazione intensa e disciplinarli al terreno di gara ed ai comandi del pilota. Le sferzate si fanno sempre più pesanti fino ai colpi a ripetizione di fine gara, che traggono fiotti di sangue e ogni goccia d’energia, uno scoppio di potenza e sovrumana resistenza.
Un giro vertiginoso di scommesse, a stento arginate dalle autorità, segue le prestazioni dei bufali. I migliori moltiplicano il loro valore nel giro di pochi anni e assicurano un comodo reddito al loro padrone.

Wayan, il proprietario dei due bufali latte e miele, assicura che non usa doparli, con un tono tale da far capire non più. Afferma che un bufalo drogato ha un’affidabilità e prontezza troppo aleatorie. Molto meglio ripiegare sulla sicura erba di campo, magari arricchita con le foglie giovani di certi cespugli che mi indica col capo.

Mi offre una noce di cocco e mi confida di aver venduto un bel po’ di mucche per acquistare i due giovani vitellini a 350 euro l’uno. Ora, già in grado di vincere gare, valgono cinque volte tanto.
Mi da appuntamento a settembre, c’è la coppa del governatore. E gli occhi brillano maliziosamente.

giovedì 24 marzo 2011

la padrona di casa

E’ balinese asli, cioè autenticamente indigena. Entrato in casa, la prima volta, la trovo lì ad aspettarmi dove non me l’aspettavo. In realtà non ci pensavo proprio di trovarla lì, con le sue amiche. Tutte balinesi. Non mi aveva avvisato, capite.
Non sono abituato, e chi lo è, alla presenza costante, insistente, alla fine, diciamolo pure, fastidiosa della padrona di casa. Per quanto alto sia l’affitto, per quanto in anticipo sia stato tutto saldato, lei non mostra segni di soddisfazione e raramente ti lascia in pace.
Dal giorno in cui abbiamo messo piede in casa, lei è presente, sempre. Di giorno farebbe, al limite, anche piacere vederla gironzolare, sempre indaffarata, per casa. Ma di notte, no. Di notte proprio non la sopporto. Di notte, quando ti viene a cercare o le capiti a tiro, ecco, son dolori. Un’insidia continua e irritante. E le sue amiche, che palle!

A Bali, ma immagino in ogni luogo tropicale, è la vera padrona di casa. Occupa i luoghi e le abitazioni da sempre, già da prima che venga costruito un edificio. Non appena l’ambiente viene inaugurato, lei partecipa all’evento in forze. E’ ubiquitaria, con le sue amiche occupa ogni angolo, ogni muro, risiede in ogni anfratto. Per quanto piccolo sia il giardino, è sotto ogni foglia, su ogni tronco, attorno ad ogni fiore.

Per di più detta le sue regole di convivenza, con la sua sfacciataggine senza freni modella i comportamenti. In cucina la disposizione delle stoviglie e dei cibi è obbligata, ogni allontanamento della regola, ogni tentativo di originalità,  ogni abbandono anarchico di un pezzo di frutta è massicciamente punito. In camera da letto, a suo piacimento entra tra le coltri, e son dolori acuti. In bagno s’appropria degli asciugamani, del lavello, del sapone al mango. In doccia, per quanto ampia sia, ti lascia poco spazio. Le immondizie, poi, ahinoi!

Arrivi ad un certo punto che tira fuori il peggio che c’è in te. Torni alle origini, ridiventi cacciatore e ti armi di aggressività e stizzoso veleno. Il massacro, visto poi, è deludente e lascia un senso di “eccessivo uso della reazione violenta”. In realtà presto s’impara che questo è un conflitto che non finisce ma si sfalda in innumerevoli scaramucce.

La guerra, se vuoi la guerra, non la vincerai mai. Ma la convivenza, se cerchi un compromesso adeguato, se apprendi le esigenze della tua padrona di casa e ne contieni l’esuberanza, quella è possibile. Il dialogo, l’apprendimento di usi e necessità dell’altro da te, è ancora credibile, e la durezza può essere dosata quando sia assolutamente inevitabile.

Oggi ho fatto la doccia con la mia padrona di casa, ho innaffiato il giardino con la mia padrona di casa, ho nuotato in piscina con la mia padrona di casa, ho piantato due ibischi ed ero assieme alla mia padrona di casa. Ma quando ha voluto mettere il naso in frigorifero, l’ho allontanata. Quando ha infierito su mia moglie, l’ho uccisa.

La mia padrona di casa, la formica.

domenica 20 marzo 2011

Il mercato

In Indonesia decine di migliaia di mercatini rionali, pasar, a Bali legati al banjar, unità sociale simile al quartiere, forniscono la popolazione di merci e generi alimentari. Qui si trova di che far vivere una famiglia, cibi, vestiti, detersivi, attrezzi per la pulizia della casa, DVD con karaoke e piatti pronti per i pasti fuori, o dentro, casa.

Quello più vicino a noi è nel banjar di Basangkasa, proprio sulla curva di Seminyak. E’ uno spazio stretto, pieno di buche perennemente colme d’acqua e fanghiglia, tra le quali sono parcheggiati alla rinfusa diversi motorini. Foglie di banano, brik vuoti di teh al gelsomino, bicchieri di plastica e bucce di frutta popolano allegramente il suolo parte di terra parte di sassi e asfalto sbrecciato, prima della pulizia notturna.

I banchi di frutta e verdura e generi vari, allineati in tre file, lasciano stretti corridoi per il passaggio della gente. Il concetto di mercato in spazi limitati sembra rispondere ad un bisogno di contatto oltre che alle necessità quotidiane. Pare quasi che, nell’ansia di vivere, anche all’esterno degli spazi domestici, relazioni “fisiche” tra le persone, si costringa tutti a strusciamenti, toccamenti, carezze. E’ un rito di rafforzamento della convivenza che, in fondo, privilegia le genti del “quartiere” che poi si conoscono tutte. Qui a Bali spiccano i colori dei fiori usati per la confezione delle offerte rituali da compiere ogni giorno. Frangipani, la magnolia cempaka, tagete e campanule azzurre si vedono a mucchi tra i frutti e le insalate. Giovanette, in un canto, compongono pazientemente i vassoi di foglia di palma, miscelando con estetica antica colori e forme. Poi ognuno, a casa propria, arricchirà l’offerta con un biscotto, una sigaretta, un biglietto da mille rupie.

Gli acquisti sono estremamente economici e i piatti pronti apparecchiano un pasto gustoso con poco più di un euro. Gli odori, la confusione, i dialetti parlati, le immondizie ed il fango tengono convenientemente lontana la grande maggioranza di visi pallidi. Solo pochissimi si godono verdure e frutta fresche ogni giorno, anatra fritta croccante o il gorengan, il fritto misto all’indonesiana. Devo confessare che è stato quest’ultimo, assieme alla papaya sempre a giusta maturazione, ad attirarmi qui.

Dopo le 17 il banchetto del fritto s’avvolge nell’odore penetrante del calderone d’olio bollente da cui Ayu sforna a ciclo continuo fette sottili di tempeh croccante, cubetti di tofu ripieni di verdure,  tranci tondi di tapioca e banane kapok. Tutte pastellate e da gustare calde e ben scolate. Il tempeh è tanto croccante da sembrare una patatina fritta e il tofu ripieno è molto più piccolo che in altre friggitorie e si consuma più agevolmente. Ogni tanto compare anche il bakwan, piccola frittella di verdure miste, in cui prevalgono le note dolci della carota e del cappuccio. L’accompagnamento tradizionale è un mucchietto di peperoncini verdi, da sgranocchiare tra un fritto e l’altro, consegnandosi totalmente all’ardore del palato locale .

I banchi di cibi cotti confinano con la strada, separati da un muro basso. E’ la zona del drive in, dove passanti e motorini si fermano, ordinano il necessario, pagano e ripartono. Ho preso l’abitudine di appoggiarmi proprio qui, sul lato strada del muro: osservo i cuochi che tagliano le banane per il lungo ricavandone fette sottili che poi ricompongono due a due, stringendole brevemente tra le dite (in questo modo si mantiene un cuore morbido al centro della frittella croccante). Altri saltano nel wok un riso con verdure o riempiono di zuppa di pollo piccoli sacchetti trasparenti. Proprio in fondo alla fila c’è il banco che frigge pollo e anatra. Qui di domenica si trovano i cibi pronti per il picnic, involtini di banano cotti alla brace, con dentro una polpetta di pesce e spezie o il nasi kotak, pasto completo con riso, pollo, tempeh e vermicelli, il tutto avvolto in una foglia acconciata in una caratteristica forma a tetraedro, ottimo per una mattinata passata in spiaggia a spiare i visi pallidi. C’è serietà nei volti, intenti nel lavoro, ma basta la presenza ancora insolita dello straniero e volano i commenti sagaci, le battutine che lasciano spazio agli ampi sorrisi che accompagnano i piatti ordinati. Se non mi trattengo e sgranocchio con avidità la prima frittella, il sorriso si allarga e s’accompagna ad un cenno di compiacimento e di consenso.




venerdì 4 marzo 2011

l'isola

Silenzi
milioni di silenzi.
Il respiro dell'isola
è un fragore silenzioso.
Silenzio violato
da una marmaglia
che schiamazza,
che non vuol conoscere.
Che non comprende
la saggezza di chi vede
nella nuova luna
un nuovo anno
nascere in silenzio.






una giornata particolare

Mi sveglia, all’alba, lo sciabordio sempre più forte dell’acquazzone. Ondate d’acqua s’abbattono sulle tegole del tetto e, come sempre, mi chiedo se qualcosa  attraverserà il graticcio di bambù.

E’ il primo suono che sento nel giorno del silenzio, il Nyepi.
Bali dedica un giorno all’anno, l’ultimo giorno dell’anno lunare, Isakawarsa , al silenzio. Che formidabile modo per rinsaldare il legame con la natura e gli dei che la popolano e risiedono dentro gli esseri umani. Un giorno dedicato ad ascoltare l’universo che ci circonda, e l’infinito dentro sé, togliendo di mezzo la barriera che suoni e rumori hanno eretto. Un “faccio rumore di meno” applicato a tutti coloro che vivono sull’isola, stranieri compresi. Poche eccezioni, i servizi vitali, le emergenze sanitarie e, dopo lunghi dibattiti, i turisti che stanno in hotel. Non possono uscire, devono tenere un comportamento composto, ma possono usare le amenità della villeggiatura.

Nessuno lavora, né viaggia, anche l’aeroporto è chiuso. I più osservanti non parlano e digiunano. Un’isola con 4 milioni di abitanti che stanno in silenzio per 24 ore. Che spettacolo magnifico, se solo lo si potesse testimoniare. Ma vige la regola del restare al chiuso nel proprio luogo di residenza. Non si può uscire, non si possono usare macchinari di alcun genere, non si possono accendere luci o fuochi dal tramonto all’alba. Ognuno, quindi, deve testimoniarlo dentro di sé, nel proprio intimo che è il luogo elettivo di questa quiete.

Ne esce fuori un mondo non ovattato ma restituito ai suoni originali, agli uccelli, agli insetti, ai latrati dei cani, al canto schioccante del gallo, al vento che agita le palme e scuote i croton, alla pioggia libera di rotolare sul tetto con la propria voce scrosciante, ai cavalloni che si spingono a riva con un accento cupo.

Un tempo dedicato ad ascoltare. Un lungo momento di introspezione, da dedicare a lisciare pieghe mentali  che il rumore del mondo ha stropicciato. Un’ attenzione a timbri che normalmente sono spenti dai rumori delle macchine.

Un silenzio non scalfito, immenso, che si nutre dei propri suoni, che ammalia tanto da desiderarlo infinito. Siamo immersi nei rumori che provochiamo e il solo pensiero di staccare la spina per un giorno fa desiderare di provare ancora e ancora questa immensa libertà.

Qui, oggi, giorno del Nyepi nell’isola tropicale, si prova ciò che gli alpinisti, i sommozzatori, gli speleologi, gli esploratori della foresta amano più d’ogni altra cosa. L’assenza di rumore. E’ inebriante, è come cantare sotto la pioggia, è un’esperienza di grande empatia col nostro pianeta. E’ questo il significato profondo di un rito millenario che ci porta a trovare contenuti modernissimi nella privazione dell’azione, in questa giornata della decrescita.