Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

lunedì 28 novembre 2011

Le case sotto le stelle



Una fila di uomini, camicia candida, sarong neri con ricami multicolori, si snoda sul sentiero. Scendono dalla montagna, seri, sciarpe gialle o rosse attorno al collo. Mi vedono, sotto l’arco di foglie intrecciate che segna l’ingresso al villaggio e, uno dopo l’altro, s’avvicinano e mi stringono a mano in segno di benvenuto, presentandosi. Tutti. Poi rimangono lì, attorno a me, in attesa di qualcosa che non capisco. E’ un benvenuto speciale. Un’emozione inattesa, dopo l’ascesa così faticosa. La stanchezza viene presto dimenticata, svanisce sotto l’eccitazione, la curiosità reciproca. Racconto in breve la mia storia al primo che si è avvicinato e subito la voce si sparge. Tutti, in pochi momenti, sanno il mio nome e da dove vengo, della lettera che porto con me, mandata dalla loro Catherine, enu Kata la loro figlia adottiva che vive a Londra.

E’ una sorta di passaporto che mi apre le porte della comunità di Wae Rebo, un villaggio annidato tra le montagne di Todo Repok nel Manggarai occidentale, la regione più ad ovest dell’isola di Flores, ancorato alle tradizioni del culto degli antenati e dell’animismo millenario. Il cattolicesimo, introdotto secoli fa dai primi colonizzatori portoghesi, convive con i riti animistici, mantenuto entro confini ben precisi dai fieri abitanti del villaggio.

Il gruppo di uomini ora si muove lentamente e, cantando, scende verso il paese. Le sette case, o Mbaru Niang, disposte ad arco attorno ad una radura, accolgono gli uomini come in un abbraccio. Il coro maschile risponde con bassi vocalizzi alla chiamata della voce solista. I piedi percuotono il suolo, lo svegliano, lo incitano a prendere nuove semenze, nuovi germogli. Gli uomini ondeggiano all'unisono. Si muovono compatti verso la Mbaru Gendang, la Casa dei Tamburi. Sulla piattaforma di pietra circolare, antistante la grande capanna, ha luogo il sacrificio principale. Gli antenati, invocati a favorire il buon esito del trapianto dei nuovi germogli di riso e altri vegetali, vengono ingraziati con l’offerta di sangue animale. In mattinata il sangue è quello tratto dalle carni dei giovani del villaggio che, durante il Caci, una singolare sfida a colpi di frusta di rattan, affermano in modo rituale la competizione coi villaggi vicini. A fine giornata il sangue è quello delle giugulari di polli e maialini inconsapevoli. Nati per il sacrificio, danno carne e sangue a eternare la buona sorte della comunità dei Manggarai.

Ora, davanti alla grande casa, si forma un circolo di figure ondeggianti che intrattengono gli antenati col loro lento danzare, mentre lì vicino si spicca il sangue e si cercano vaticini nelle interiora. Il maestro di cerimonie, il Tu’a Gendang, e il capo villaggio, il Tu’a Golo, accompagna il gruppo dentro la casa, per la discussione collettiva. C’è una coreografia da gospel, i movimenti sincronizzati, misurati, sottolineati dalle lunghe vocali strisciate del coro. Al centro un singolo solista che dirige danza e canto. Le basse vibrazioni corrono tra una capanna e l’altra. Cani, gatti e bambini ascoltano rapiti. I giovani, vestiti in modo ordinario, lanciano sguardi annoiati e commentano con battutine l’esibizione dei loro padri, ma non possono fare a meno di unirsi al coro, di tanto in tanto. Le donne s’affacciano appena dalle basse porte in legno. Osservano un po’ discoste da sotto i tetti di alang-alang, escluse da questi momenti della cerimonia.

Le case, viste da vicino, s’alzano alte sulla spianata. Sette forme incappucciate, austere, immote, dal profilo antico, vegliano sui riti e sulle loro genti. Attorno incombono le cime dei monti, e la foresta invia i sui suoni ad unirsi al canto.

Negli orti attorno al villaggio si coltivano caffè, granturco, manioca, patate dolci, marquisa, vaniglia. I germogli di cannella sono trapiantati dal folto della foresta fino ai suoi margini. Così la giungla rimane pressoché intatta. Nella selva è raccolto anche il rattan da cui si ricavano fibre che le donne intrecciano in larghe ceste da “testa” con motivi bianchi e neri. Tre dei cinque piani interni alle Mbaru Niang sono destinati alla conservazione di questi prodotti, in attesa del consumo o della vendita ai mercati dei villaggi vicini.

Cala la notte e le stelle, mai così vivide, coprono la radura con un manto che s’appoggia lieve sulle spalle delle grandi abitazioni. D’improvviso mi accorgo che il nero dei sarong, i lipa songkè, tessuti dalle donne e ricamati con piccoli asterischi multicolori, non è altro che il tributo alla nera coperta del cielo notturno. Materializza il bisogno di sentire sempre su di sé, attraverso il caldo abbraccio del tessuto stellato, la presenza rassicurante e nitida di un tetto ricolmo di astri.

Con questa nuova comprensione mi aggiro tra figure avvolte dal fulgore delle stelle e mi fermo ad ascoltare il canto notturno ininterrotto che si alza limpido dalla “casa dei tamburi”. Il gruppo di sei uomini si scambia rime improvvisate e ne sottolinea i significati con accelerazioni del ritmo dei tamburi, addensato dal coro di toni bassi e lenti.
E’ la voce dei miei sogni in questa lunga notte a Wae Rebo.


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