Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

lunedì 14 dicembre 2015

I villaggi di Timor occidentale


 Il Bombardier si alza leggero e silenzioso, spinto dalle turbine gemelle di coda, versione moderna delle possenti ali di Garuda, il veloce uccello sacro a Vishnu. Passano all’orizzonte i grandi vulcani e presto sfilano le azzurre alture di Sumbawa.  A bordo solo un caffè acquoso e bollente tiene lontana la scatola tristissima dello snack.
Il gigante decollato del Tambora si erge lontano sopra coorti di nuvole a fiocchi. Il profondo fiordo di Hu’u sembra una ferita aperta al centro del corpo dell’isola di Sumbawa. Lontano, verso nord, spicca la vetta tronca del Sangeang, vulcano che non cessa mai di elargire la sua materia fumante.
La pianura arida di Kupang si apre sotto di noi. Timor sfila veloce, ora al ritmo di un’auto in corsa. Ampi tratti di sterpaglie, rare boscaglie di alberelli privi di foglie. Il monsone del sudest soffia ancora caldo e secco dalle pianure australi e condiziona un clima aspro e una popolazione spigolosa e ruvida che pare nata dai rami nodosi dell’eucalipto.

Sipri, la mia guida, ha un bel sorriso ampio e sincero. Voce profonda, arrocchita dal fumo. Rughe gentili incorniciate da folti capelli scuri, con ciuffo lasciato libero. Il suo cognome, Da Silva, richiama i pochi coraggiosi portoghesi che, nel cinquecento, “scoprirono” queste terre e imposero la loro religione, i loro nomi e perfino i loro tratti. Un Topasse, come erano conosciuti i sangue misto frutto del radicamento in queste terre dei fieri portoghesi, abili nel commercio del legno di sandalo.
Attraversiamo i due grandi fiumi che scolpiscono la parte centrale di Timor, il Noelmina e il Benanain. Vasti letti sassosi che ricordano il Piave, profondi canyon tagliati nella friabile roccia sedimentaria. Poi la strade sale fino agli altopiani collinosi e brulli a ridosso della frontiera con l’est.

Temkesi – oltre la strada asfaltata si entra in una terra sospesa popolata da rifugiati da Timor Est. Hanno tagliato tutti gli eucalipti, per farne legna da ardere e da carpenteria, e ora la terra brulla e rossa rimane calcinata dal sole. Gli ultimi chilometri sono lungo i bordi arrotondati di basse colline, rivestite da una coltre di rigida peluria marrone che avvolge coriacea grossi affioramenti basaltici. Il villaggio risale al 17° secolo ed è stato fondato da un principe di etnia Biboki.  Si trova in cima ad una ripida salita rocciosa, annidato tra due pinnacoli di pietra che sembrano due guardie armate. Ci sono varie Lopo, una ampia casa del rajah, abitata solo in occasione delle grandi cerimonie per il raccolto. Ogni capanna ha davanti un bastone, che rappresenta il potere maschile.



Oelolok – in fondo ad una strada alberata, un grande palazzo di stile coloniale eretto i primi del novecento. Cadente, muri sbrecciati, giardino arso e incolto, infissi sfondati. A fianco una enorme lopo sostenuta da 9 colonne lignee, ciascuna intagliata con un proprio motivo geometrico. Il tetto, in origine rivestito di strati di foglie secche, è ora di lamiera arrugginita, il che non fa che accrescere l’aria di mesto abbandono e di lontananza da alcunché di culturale locale. Triste.

Maubesi – un paesotto lungo la strada grande. Ogni famiglia possiede più capanne, le moderne sulla strada, le tradizionali ume kebubu e lopo, più indietro. Anton Naikofi mi apre orgoglioso il suo “art shop”, l’unico negozio dove trovare oggetti di artigianato. E’ una specie di retrobottega polveroso, dove tessuti, statue, portali intagliati, maschere sono messi alla rinfusa, accostati in modo casuale a sedie, tavoli e poltrone sfondate. Ma è una grotta di Ali Babà e alcuni pezzi del tesoro sono pregevoli.

Boti – dal bivio di Niki Niki, la strada si inerpica sulle colline e abbandona presto la asfaltatura per la sua vera natura di sterrato pietroso. In cima ad una salita, sotto un albero ampio e frondoso, si appoggia un misero recinto con cancello metallico. Alcune famiglie, riunite attorno al giovane figlio di un vecchio rajah, vivono nell'ortodossia animista. In realtà, si coglie  una certa elasticità verso il compromesso, visto il generatore di corrente e la larga parabola per la televisione che stanno dietro la casa padronale. L’accoglienza del viandante si dipana secondo una cortesia rituale che non manca di lasciare il segno. Sotto l’ampia veranda, al riparo del sole che cuoce le cime delle colline, sono immediatamente serviti teh, caffè dolci e banane bollite. Il visitatore offre una modesta donazione e il sirih-pinang e, a sua volta, ne prende un pizzico per cortesia. Gli sguardi indagatori sono scambiati come i doni, avvolti da lunghi silenzi. I maschi, fratelli o cugini, si assomigliano tutti. 


Sguardi profondi come laghi di montagna, sorrisi accennati da budda risvegliati. La sensazione di pace avvolge l'intensità dell’accoglienza, solleticata dai giochi che faccio con un figlio piccolo e la macchina fotografica. Ma l’emozione fa venire le foto tutte mosse. Il bimbo ride, e gli adulti, rilassati, masticano betel. Solo la matriarca, vedova del vecchio rajah, conserva uno sguardo indagatore e severo, da patrizia.


Non permettono che si violi l’intimità delle ume kebubu, dove i riti domestici s’intrecciano ad antiche consuetudini. Nemmeno posso vedere dove tengono i preziosi gong e gli oggetti legati agli antenati, racchiusi in contenitori intrecciati e appesi al soffitto.
La volontà del rajah, di condividere alcune parti del loro vivere quotidiano, si vede nelle donne che mostrano ai visitatori l’intero processo di tessitura. Dalla cardatura del cotone, coltivato in loco, alla pre-filatura con l’archetto, alla filatura col fuso. Altre due donne sono intente alla tessitura di sciarpe. Il tutto viene messo a disposizione, in modo discreto, in un negozietto lì al lato.

Benteng None – pochi km dopo Niki Niki, si percorre un breve sentiero di terra rossa e pietre. Alcune lopo e capanne, costruite su un affioramento roccioso protetto da precipizi su tre lati e un basso muretto a secco di pietre e coralli. Le donne arrivano in fretta e mettono in mostra, sulla piattaforma di una lopo, decine di oggetti intagliati, scatole rivestite di perline, piccole maschere, bracciali di ottone e argento, fionde. Appare un uomo, trafelato, masticando betel, vestito con costume tradizionale. E’ l’ultimo discendente dei fieri cacciatori di teste della tribù Amanuban. Si presenta come “l’addetto culturale” del villaggio. Con fare deciso, spiega il significato di quello che è in realtà da secoli un fortino, un luogo dal quale gli uomini si preparavano alla battaglia con le tribù confinanti dei Mollo e dei Amenatun. Si mette in posa, orgoglioso, sguardo febbrile e carico di responsabilità, in ognuno dei luoghi specifici della spianata da cui, in modo ritualizzato, si decidevano le sorti dell’eventuale battaglia. La sua narrazione è sicura, dettagliata. Prima il consiglio del villaggio si riuniva al luogo chiamato penè a discutere quale tribù attaccare, osservando le mosse dei nemici, giù nella valle (e lui si mette a terra, gambe intrecciate, masticando lentamente). 


Poi, con un secondo incontro, nel sito chiamato ote naus, si verificava il destino dell’imminente battaglia attraverso una divinazione. Si rompeva un uovo e eventuali tracce di sangue in esso erano considerate cattivo presagio. In caso invece positivo, la seconda prova comportava verificare l’abilità fisica dei guerrieri. Gli uomini, a turno, dovevano afferrare i due estremi di un manico di lancia, il none, spinto contro un grosso palo, allungando al massimo le braccia (lui si tende all’estremo, col pollice della mano destra sfiora il palo, il volto teso nello sforzo).  Se non potevano toccare il palo con un pollice mentre con l'altra mano a coppa tenevano l’estremità opposta del bastone, avrebbero sicuramente trovato la morte. La procedura dava la previsione cruciale 'vivremo' o 'moriremo' a seguito della scorreria. In caso negativo, naturalmente, il raid veniva sospeso e si doveva ricominciare dal principio, con una nuova decisione collettiva al penè per deciderne la necessità.


L’uomo si aiuta con una lancia spuntata, spara dalle feritoie ai lati del muro con un moschetto di legno, fende l’aria minaccioso con un vero parang.  Ora sudato per la prestazione, s’infervora alle richieste di chiarimento, sputa risoluto la sua morchia vermiglia, che si confonde presto con la polvere rossastra del terreno. Esauriente, conciso, efficace.
Al tramonto, la luce esalta i toni rossi, rosa e oro della terra, delle pietre e del fogliame dei tetti. Coinvolgente, fondamentale, imperdibile.

Il popolo Dawan, a Timor Ovest, tradizionalmente costruisce tre tipi di abitazioni, chiamate Lopo le'u (casa sacra), Lopo (casa) e ume kebubu (casa rotonda). La Lopo le'u è un luogo sacro in cui sono custodite reliquie ancestrali e si tengono le cerimonie rituali. Lopo e ume kebubu sono invece i luoghi dove la gente vive, in cui si svolgono le attività di tutti i giorni, siano esse private, sociali o comuni. Mentre la ume kbubu è lo spazio più propriamente privato della famiglia, dove si cucina e si dorme, la Lopo è associato alle relazioni sociali all’interno della comunità. Questa tettoia a cupola, rivestita di paglia, ricorda un mezzo alveare. E’ sostenuta da quattro grandi tronchi d'albero che hanno, a mo’ di capitello, grandi dischi di pietra o di legno per evitare ai ratti di salire nel sottotetto. Il pavimento è una rotonda piattaforma sopraelevata di pietra e fango. La Lopo è un luogo di riparo dal gran caldo; un luogo dove tessere e scolpire, o per sedersi a chiacchierare, masticando betel. Il sottotetto è a un tempo granaio e dispensa dove raccogliere e conservare il mais raccolto, spesso assieme agli oggetti preziosi tramandati da generazioni, i tessuti, le statue degli antenati, i gioielli.


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