Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

domenica 6 novembre 2011

Tumpek Wayang, il banjar fa festa




Mai come questo giorno ho capito il significato vero della cerimonia balinese. Il senso che i balinesi danno al ritrovarsi così spesso, riuniti nei luoghi comuni del banjar, la loro parrocchia, o del tempio, a celebrare una ricorrenza.
E’ il puro piacere di incontrarsi, di sedersi uno accanto all’altra, di compiacersi in pubblico dei propri figli, mostrare a tutti il nuovo sarong, ancheggiare davanti ai ragazzi fino a sedersi proprio là in fondo, commentare a bassa voce le movenze di quel danzatore. Ridere ed applaudire le proprie figlie impegnate, ma non troppo, in una danza collettiva. Vestire con lentezza e serietà il bambino che aprirà, in un assolo, le celebrazioni; agghindato da sembrare più grande dei suoi 8 anni, si trasfigura nella danza, aiutato dalla leggera trance che ispira ogni maschera, topeng, indossata da un balinese davanti agli dei.

Naturalmente il tutto è permeato dalla sostanza religiosa, che fa danzare, pregare, ridere e scherzare, muovere le marionette e suonare uno strumento per onorare il dio. Che guarda tutti dalle sue effigi, a sua volta quasi delle marionette di foglia di palma, rivestite d’arancio e viola.

Oggi ho capito che l’osservanza religiosa è la regola data al forte bisogno comunitario che hanno gli abitanti di questa isola. Si stringono assieme per semplice bisogno di contatto sociale, e il cemento è il ringraziamento agli dei per ciò che hanno.

La genialità che rende questa società così affascinante è che la forma della celebrazione trascende la sostanza e l’estetica vince sul canone religioso. Dalle mura, portali, torri fiorite dei templi, dove la pietra viene piegata fino a rincorrere la fantasia dei muratori-scultori, si arriva alle maschere colorate intagliate nel legno dolce, ai costumi e manti cuciti di arcobaleni e ori, ai volti disegnati dal belletto, ai sarong fioriti di raso e seta, ai vassoi carichi di tinte pastello, ai drappi, ghirlande, disegni, intagli dorati degli strumenti musicali. Perfino il fiore tenuto sopra la testa a mani giunte, lievemente ondeggianti al tintinnio limpido della campanella, perfino questo gesto è pura estetica. Tanto che è ripetuto più volte, variando il fiore, la foglia piegata, l’intreccio di rametti. Il piacere assoluto per il bello trasforma il dettato religioso in una immensa rappresentazione, una scenografia grande come l’isola, una tela di un artista sublime che rende ogni tratto di vita un’arte.

Qui, oggi, la socialità è prorompente e l’agitazione è massima. La piazza erompe di movimenti erratici, di grida, lazzi, facce serie, suoni, odori pungenti di incensi e fiori, sudore, cani, pianti di neonati. Su tutto, come uno scroscio di piaggia, la musica dei gong e dei timpani risuona fortissima, sovrasta e cementa ogni cosa, sottolinea gli slanci del ballerino, gli scatti del capo, il roteare degli occhi, il tremito delle mani artigliate.

La coreografia si sfilaccia presto dal programma rigido e si perde in una cacofonia. I ballerini sono in ritardo o forse i sacerdoti percorrono la folla in anticipo, aspergendo acqua santa a tutti. Il personaggio del vecchio viene frettolosamente fatto rientrare per dar spazio alla serie di preghiere. Ora c’è chi danza e si agita, anziché in un palcoscenico vuoto davanti a volti rapiti, in mezzo a gente che cammina, donne che ritirano mezzi polli arrostiti dai vassoi votivi, bambini che corrono, cani che si spulciano, getti di acqua sacra, fiori che volteggiano in improvvisi turbini di vento.
D’improvviso tutto si calma e il lento suono dei flauti sottolinea le ultime battute delle due maschere ancora in scena. Attorno, finalmente, il rispetto per la fatica degli artisti, che declamano nel silenzio. Ma l’impazienza ha il sopravvento e gli applausi poco convinti sono presto dimenticati dalla folla che si muove per tornare a casa.

Ritirandosi, questa marea umana meravigliosamente anarchica, lascia un selciato ricoperto di fiori di chempaka, frangipani e buganvillea, immersi nei bagliori dolci di un tramonto rosa e porpora.

mercoledì 19 ottobre 2011

Stregoni in paradiso

Andiamo spesso da Guerrino, nel suo negozio d’antiquario Kharisma. Per il caffè, s’intende, ma anche per ammirare le belle statue che ha in casa. L’altro giorno, dopo il rito dell’espresso, addolcito con fette di torta alla carota, lo sguardo s’è posato su una piccola statua di Rangda. 
Il legno, rovinato dagli anni e dalle intemperie, lasciava trasparire il pallore cadaverico, il seno cadente e la posa a metà tra il lascivo e il sostenuto. Ecco, mi ha colpito il tocco dello scultore che ha reso perfettamente le movenze tipiche del carattere, come viene rappresentato nelle danze cerimoniali a Bali. Un gesto della mano destra sul capo, la testa leggermente piegata, le gambe divaricate da un traballante passo di danza e, su tutto, il ghigno beffardo del predatore, l’ululato roco che spaventa ogni fanciullo balinese. 
La storia della statua è presto detta, proviene da un Tempio dei Morti, un Pura Dalem, dalle parti di Singaraja, lungo la costa Nord di Bali. Terra di misteri, a poche decine di chilometri dal sud brulicante di turisti, ma lontana anni luce. Terra di leggende, e di stregoni. 
Rangda, appunto, è la strega par excellance. La perfetta incarnazione della malvagità, con il suo alter-ego Calonarang. Entrambe sono una sorta di reincarnazione di Durga, il braccio armato degli dei, nella sua funzione di potenza femminile distruttrice. A Rangda/Durga sono consacrati, a Bali, i pura Dalem, i luoghi dei morti. La sua potenza è tale che non può essere sconfitta, nemmeno dalle benefiche forze della luce. Come ogni lato oscuro, essa risorge dalle proprie ceneri, e la lotta è senza fine. 
Da qui, dal dualismo alla base dell’universo indigeno, nascono i miti e le leggende che a Bali danno vita ai servitori del lato oscuro della forza, come direbbe Obi Wan Kenobi. Ma qui, sulle verdi risaie, tra i vulcani azzurrini, tra i marosi che si frangono sulle spiagge coralline, non c’è lieto fine e il male non si fa schiacciare dal bene senza ribattere colpo su colpo. 
L’eternità della lotta fa immaginare all’uomo l’esistenza di esseri ambigui, i leak come sono chiamati qui. In essi si incarnano forze benigne e maligne, sono dispensatori di azioni benefiche e di altrettanti dispetti o, peggio, omicidi. Il tratto sfuggente e impenetrabile, l’incertezza dell’approccio, causano la diffidenza, il fastidio, il tabù che li accompagna. Somigliano ai nostri maghi che, se cedono alla magia nera, diventano potenti e insidiosi, capaci delle malefatte più bieche e dediti ai riti cannibalici più rivoltanti. 
Di loro si raccontano soprattutto le storie truci che non le azioni benevole e sono i risvolti più sanguinosi e corrotti quelli che maggiormente stuzzicano la superstiziosa e terrificata attenzione del popolino.

mercoledì 5 ottobre 2011

Tumpek Kandang, l’ecologia stile balinese


          Una giornata di cerimonie singolari, qualche giorno fa, in tutta Bali. Era il giorno del tumpek kandang, che si potrebbe rendere con il sabato nel recinto (da tempak , sabato in javanese antico, e kandang, gabbia o recinto in balinese).  E’ un’occasione importante, un abbraccio consapevole e rispettoso al Signore Yang Maha Esa, il dio onnipotente, nelle manifestazioni di Siva e Puspati, che ha creato la vita sulla terra e, attraverso le piante e gli animali, sostiene le popolazioni umane. Il "Signore del bestiame" pre-ario (Paśupati), diviene nei Veda "Urlatore" (Rudra) e dio degli animali sacrificati, riverito poi col nome di Shiva. Armato di arco vaga da solo tra le montagne, custodendo le greggi.
                Soprattutto gli animali sono onorati durante questo sabato, per il ruolo di sostenitori del lavoro nei campi e dall’intera comunità, come fonte pregiata di cibo. Non c’è ipocrisia nell’amore, rispetto e devozione che i balinesi riservano ai loro animali e, attraverso essi, al dio. Qui gli animali sono fatti per essere addomesticati e fornire cibo e sicurezza, lavoro e sacrificio, senza indulgere in falsi tabù o reclamare animalismi innaturali. E’ un rispetto verso il creato, uno stimolo a ricordare il ruolo che gioca la natura nel sostenere l’uomo che, a sua volta, deve tenerla nella giusta considerazione.

                Potremmo definirle delle pie illusioni, visto come il balinese medio si comporta nei confronti dell’ambiente naturale  che lo circonda. Influenza aviaria, rabbia, scarse iniziative in capo al riciclaggio dei rifiuti, l’acqua sperperata senza ritegno (più di 70 torrenti in secca negli ultimi anni), la dengue che si diffonde senza nessuna contromisura in campo, la cementificazione dispensata a piene mani sacrifica al potente dio del turismo migliaia di ettari di risaie. E’ un bollettino di guerra che parla più degli effetti devastanti di uno sviluppo economico e turistico impetuoso e senza argini, che di un’armonia ricercata con devozione tra uomo e natura, uomo e mondo animale.

                Sembra proprio che il motto cardine della filosofia sociale balinese, Tri Hita Karana, cioè la triplice relazione su cui si basa la società agricola isolana, il rapporto col dio, col prossimo e con la natura, stia perdendo uno dei cardini, fiaccato da siccità, epidemie, e menti inaridita perché corrotte dal denaro. La coesione sociale è stata per secoli favorita da una colla potente, la proprietà comune della terra, una sorta di socialismo ante litteram, perfettamente funzionante in una nazione di contadini ed elite politico religiose, rigidamente suddivise in caste.

                Ora i capitali stranieri sono riusciti a spezzare i legami ancestrali, immettendo velocità inusuale nelle lente decisioni di un popolo non uso a risolvere in fretta le questioni. Molti complessi alberghieri sono costruiti violando leggi precise, ma i governanti balinesi non riescono mai a prendere una decisione drastica e porre fine alla cementificazione della loro terra.
                Però i contadini continuano, in questo giorno di devozione, ad agghindare il loro maiali con sarong colorati e le corna del bestiame con coni di foglie di palma intrecciate, ma lo spirito appare sempre più cristallizzato, sempre più una manifestazione di un grande museo antropologico all’aria aperta, mantenuto affinchè attiri sempre più curiosi e visitatori. Così, a poco a poco, sparirà anche Puspati e Shiva si ritirerà, sdegnato, ben più lontano dell’Olimpo.

mercoledì 21 settembre 2011

Due anime

Dolcezza, signorilità,
cultura profonda
e ascolto.
Una casa da ammirare
e sospirare,
l'eleganza del poeta,
l'amore per la madre.
Fuggire, cambiare,
il candore di spiriti liberi.
vorrei che le due anime
migrassero,
per averle amiche
anche la prossima vita.

sabato 17 settembre 2011

un nuovo inizio

Ricominciamo.
Molte cose sono accadute dal 29 aprile. Un lungo periodo in Italia per rincorrere un sole estivo che s'è visto solo a tratti. Abituati al clima caldo umido della stagione delle piogge, siamo stati traditi, appena rientrati, da una stagione improvvisamente autunnale e la bronchite ha avuto il sopravvento.

Gli amici ritrovati hanno confortato le lunghe giornate di un'estate diversa. Cyclette e jogging, gelati e pizze, kebab e pesce. Un nuovo autore, Henning Mankell, mi ha accompagnato questi mesi italiani. Uno scrittore straordinariamente realista, capace di creare un ambiente convincente con dei personaggi efficaci. La vita di un commissario di polizia metodico, con lampi di intuito che si sollevano dalla piattezza delle indagini di routine, come corvi da un campo di grano. Lo sfondo di una Svezia che cambia in peggio, negli anni 90 e nel nuovo secolo, il welfare socildemocratico sconfitto dalle crisi economiche, dal razzismo figlio illegittimo dell'immigrazione, dalla fine dei valori sociali consolidati. Alcune pagine sono perfette. Lo consiglio.

Sono di nuovo a Bali, con i capelli lunghi in attesa del taglio magico del barbiere di Jalan Plawa.
Due cose sono aumentate: il prezzo del riso, del 30%, e il numero di edifici, ville, negozi. E' una società che vive della bolla immobiliare e molti temono gli effetti che la crisi del mondo occidentale, già evidenti nel calo di presenza estive.

La villa La Drupadiana è come l'abbiamo lasciata, con in più un muro ancor più alto. Il giardino assume sempre più i toni e le dimensioni del lussureggiare tropicale. La coppia di culgialli si rincorre tra le foglie di palma, libisco è diventato un alberello, punteggiato di rotonde macchie purpuree.
Naturalmente la casa è rimasta in mano alle formiche, che ci hanno accolto festose e numerose, ricoprendo lo zucchero e la marmellata e insinuandosi tra i vestiti che riempiono l'armadio.

Solo Sri Ganesh ha sofferto gli ospiti estivi e ha lasciato...una mano sul terreno. Anche gli dei si piegano, a Bali, ai giochi dei fanciulli.