Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

mercoledì 3 ottobre 2012

Mecaru o del bilanciamento

 

 Made e suo marito Gede ci hanno invitato alla cerimonia di purificazione che si tiene ogni dieci anni in una casa balinese. L’occasione è unica per vedere come una religione permea la vita di una famiglia. I genitori di Gede hanno potuto costruire una grande casa in riva al mare, al centro del loro grande terreno piantato a palme da cocco, con i proventi della vendita di una sua parte a una coppia di olandesi. Il mare è lì, a due passi, una stretta spiaggia di arena nera mista a sassolini, che piega dolcemente verso sud, verso le piccole calette di Amed, nuova terra di turisti solitari.

Sotto le palme la terra è polverosa, sfinita dalla lunga estate secca che, da questa parte di Bali, sembra non finire mai. Le nubi piene di pioggia sono trattenute dalle montagne qui dietro, si accontentano delle alte pendici del vulcano.
La cerimonia è una purificazione e un ribilanciamento. Ogni tanti anni i balinesi credono che sia necessario ribilanciare il rapporto tra uomo e dio, uomo e uomo e uomo e natura. Su questi rapporti, il Tri Hita Karana, si basa tutta la società hindu balinese. Lo spirito della natura, Bhuta, rimane tranquillo finché viene rispettato e onorato con una condotta non riprovevole. Realisticamente, visto che nessuno riesce a seguire alla perfezione la regola, i balinesi si ritrovano a poco a poco sbilanciati, sconnessi in un modo non eticamente sostenibile verso il dio. Insomma il balinese osservante ci prova, a comportarsi onorevolmente, ma non ce la fa. Tratta male la moglie, beve, va a donne, sperpera i soldi col gioco d’azzardo, tratta male i subordinati, non cura il giardino, inquina, non cura i figli. Gli spiriti della natura, normalmente benevoli e indifferenti, a questo punto s’indignano e assumono atteggiamenti anche apertamente aggressivi. Per fortuna arriva in soccorso la saggezza degli antenati, che avevano già previsto tutte queste difficoltà ed hanno istituito una sorta di ricostruzione d’immagine, un lifting, un’indulgenza plenaria, che qui si chiama Mecaru. Il Mecaru è la via per riconquistarsi credibilità agli occhi degli dei e placarli attraverso il sacrificio. Il sacrificio piace agli dei, il sacrificio costa caro e questo deve servire da lezione per il futuro. E’ questa un’occasione anche per rinsaldare i legami interni alla famiglia e verso i vicini di casa, di banjar e di villaggio.

Da Gede, nel villaggio di Tianyar, la cerimonia è di quelle più intense e costose (2000 €). Ci sono 270 persone, hanno sacrificato 4 maiali e svariate anatre e polli. Gli uomini hanno tagliuzzato chili di lawar e ares, pietanze a base di frattaglie e sangue di maiale l’uno e di fiore di banana bollito l’altro. Le donne hanno preparato il thun, un pugno di sanguinacci e grasso di maiale, bolliti dentro un cartoccio di foglia da banana (una leccornia). Nei cesti di offerte sugli altari del tempietto di casa, ci sono preziose mele, cibi conditi con terasi, la pasta di gamberetti fermentati dall’aroma pungente e aspro, ginger, cipolla, carne cruda. Alcool di riso, brem e arak, è stato versato per compiacere al dio Bhuta, che rappresenta l’essenza della natura malevola, da placare e assecondare. Un’orchestra gamelan di 28 elementi ha suonato in modo assordante e quasi senza pause per tutta la mattina e due enormi cestoni di bambù intrecciato spillavano come acqua da una fonte, spiedini di carne di maiale a decine ad ogni momento.

Non hanno badato a spese i genitori di Gede per questo Mecaru. Per l’occasione ad officiare è stato chiamato un pedanda, prete d’alta casta. In realtà è arrivata la moglie, la pretessa, visto che il marito era occupato in un’altra incombenza propiziatoria. Il giorno di luna piena è dura trovare un prete libero a Bali.

La pretessa arriva per ultima, con calma, accompagnata da una serie di inservienti e assistenti, ciascuno con un involto colmo di attrezzi, pentole, cocci, vasi, una tanica di acqua benedetta, presa da una qualche fonte sacra i paramenti consacrati, campanelle bronzee, la nera tiara bombata dei pedanda. Nel frattempo tutti noi  s’è già mangiato almeno due volte, oltre ai dolcetti di benvenuto, il sole è alto in cielo, le zone senz'ombra sono evitate accuratamente e sotto la tettoia si cuoce. Le figlie più ispirate hanno già danzato coreografie sinuose alla melodia di gong e cimbali, vestite di costumi fantasiosi e fioriti, strette gonne viola e carminio, bracciali dorati e capelli corvini intrecciati in stretti chignon e diademi di fiori di frangipani e ibischi.
I maschi forti bevitori sono riuniti fuori, sotto le palme, accosciati in cerchio a ingurgitare sistematicamente mezzi bicchieri di liquido lattescente conditi di chiacchiere vuote. Dentro nel cortile cucina e sedute sotto le tettoie a gruppi le donne si guardano, si misurano, spettegolano. Un signore vestito di rosso entra, saluta e chiede come mai ci sono solo due stranieri, noi. Sembra che la solennità e il successo della cerimonia si misurino in forestieri partecipanti. Compare anche la coppia di olandesi che s’è costruita casa qui a fianco, sui terreni della famiglia. Ci scambiamo due occhiate e un cenno, nessuna parola circola, lei sbuffa in continuazioni nubi puzzolenti di tabacco mediocre.

Finalmente la pedanda è pronta a officiare, s’è rivestita con un’ampia tunica candida, ha indossato le collane, gli orecchini, la tiara e, assisa su una piccolo tavolo ingombro dei suoi attrezzi, benedice ogni cosa. Muove le mani a creare nell’aria simboli esoterici, mentre abilmente fa tintinnare la campanella traendo una melodia ipnotica e penetrante. Su tutto aleggia il sottofondo del coro, qui rappresentato da tre signori accosciati sotto la tettoia, intenti da ore a fraseggiare strofe in balinese alto e giavanese antico. Formano l’ossatura concettuale su cui s’intreccia il tessuto arcano dell’offertorio del pedanda, in una giornata dedicata alla riqualificazione attiva del rapporto uomo natura in una famiglia balinese.




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