Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

mercoledì 19 ottobre 2011

Stregoni in paradiso

Andiamo spesso da Guerrino, nel suo negozio d’antiquario Kharisma. Per il caffè, s’intende, ma anche per ammirare le belle statue che ha in casa. L’altro giorno, dopo il rito dell’espresso, addolcito con fette di torta alla carota, lo sguardo s’è posato su una piccola statua di Rangda. 
Il legno, rovinato dagli anni e dalle intemperie, lasciava trasparire il pallore cadaverico, il seno cadente e la posa a metà tra il lascivo e il sostenuto. Ecco, mi ha colpito il tocco dello scultore che ha reso perfettamente le movenze tipiche del carattere, come viene rappresentato nelle danze cerimoniali a Bali. Un gesto della mano destra sul capo, la testa leggermente piegata, le gambe divaricate da un traballante passo di danza e, su tutto, il ghigno beffardo del predatore, l’ululato roco che spaventa ogni fanciullo balinese. 
La storia della statua è presto detta, proviene da un Tempio dei Morti, un Pura Dalem, dalle parti di Singaraja, lungo la costa Nord di Bali. Terra di misteri, a poche decine di chilometri dal sud brulicante di turisti, ma lontana anni luce. Terra di leggende, e di stregoni. 
Rangda, appunto, è la strega par excellance. La perfetta incarnazione della malvagità, con il suo alter-ego Calonarang. Entrambe sono una sorta di reincarnazione di Durga, il braccio armato degli dei, nella sua funzione di potenza femminile distruttrice. A Rangda/Durga sono consacrati, a Bali, i pura Dalem, i luoghi dei morti. La sua potenza è tale che non può essere sconfitta, nemmeno dalle benefiche forze della luce. Come ogni lato oscuro, essa risorge dalle proprie ceneri, e la lotta è senza fine. 
Da qui, dal dualismo alla base dell’universo indigeno, nascono i miti e le leggende che a Bali danno vita ai servitori del lato oscuro della forza, come direbbe Obi Wan Kenobi. Ma qui, sulle verdi risaie, tra i vulcani azzurrini, tra i marosi che si frangono sulle spiagge coralline, non c’è lieto fine e il male non si fa schiacciare dal bene senza ribattere colpo su colpo. 
L’eternità della lotta fa immaginare all’uomo l’esistenza di esseri ambigui, i leak come sono chiamati qui. In essi si incarnano forze benigne e maligne, sono dispensatori di azioni benefiche e di altrettanti dispetti o, peggio, omicidi. Il tratto sfuggente e impenetrabile, l’incertezza dell’approccio, causano la diffidenza, il fastidio, il tabù che li accompagna. Somigliano ai nostri maghi che, se cedono alla magia nera, diventano potenti e insidiosi, capaci delle malefatte più bieche e dediti ai riti cannibalici più rivoltanti. 
Di loro si raccontano soprattutto le storie truci che non le azioni benevole e sono i risvolti più sanguinosi e corrotti quelli che maggiormente stuzzicano la superstiziosa e terrificata attenzione del popolino.

mercoledì 5 ottobre 2011

Tumpek Kandang, l’ecologia stile balinese


          Una giornata di cerimonie singolari, qualche giorno fa, in tutta Bali. Era il giorno del tumpek kandang, che si potrebbe rendere con il sabato nel recinto (da tempak , sabato in javanese antico, e kandang, gabbia o recinto in balinese).  E’ un’occasione importante, un abbraccio consapevole e rispettoso al Signore Yang Maha Esa, il dio onnipotente, nelle manifestazioni di Siva e Puspati, che ha creato la vita sulla terra e, attraverso le piante e gli animali, sostiene le popolazioni umane. Il "Signore del bestiame" pre-ario (Paśupati), diviene nei Veda "Urlatore" (Rudra) e dio degli animali sacrificati, riverito poi col nome di Shiva. Armato di arco vaga da solo tra le montagne, custodendo le greggi.
                Soprattutto gli animali sono onorati durante questo sabato, per il ruolo di sostenitori del lavoro nei campi e dall’intera comunità, come fonte pregiata di cibo. Non c’è ipocrisia nell’amore, rispetto e devozione che i balinesi riservano ai loro animali e, attraverso essi, al dio. Qui gli animali sono fatti per essere addomesticati e fornire cibo e sicurezza, lavoro e sacrificio, senza indulgere in falsi tabù o reclamare animalismi innaturali. E’ un rispetto verso il creato, uno stimolo a ricordare il ruolo che gioca la natura nel sostenere l’uomo che, a sua volta, deve tenerla nella giusta considerazione.

                Potremmo definirle delle pie illusioni, visto come il balinese medio si comporta nei confronti dell’ambiente naturale  che lo circonda. Influenza aviaria, rabbia, scarse iniziative in capo al riciclaggio dei rifiuti, l’acqua sperperata senza ritegno (più di 70 torrenti in secca negli ultimi anni), la dengue che si diffonde senza nessuna contromisura in campo, la cementificazione dispensata a piene mani sacrifica al potente dio del turismo migliaia di ettari di risaie. E’ un bollettino di guerra che parla più degli effetti devastanti di uno sviluppo economico e turistico impetuoso e senza argini, che di un’armonia ricercata con devozione tra uomo e natura, uomo e mondo animale.

                Sembra proprio che il motto cardine della filosofia sociale balinese, Tri Hita Karana, cioè la triplice relazione su cui si basa la società agricola isolana, il rapporto col dio, col prossimo e con la natura, stia perdendo uno dei cardini, fiaccato da siccità, epidemie, e menti inaridita perché corrotte dal denaro. La coesione sociale è stata per secoli favorita da una colla potente, la proprietà comune della terra, una sorta di socialismo ante litteram, perfettamente funzionante in una nazione di contadini ed elite politico religiose, rigidamente suddivise in caste.

                Ora i capitali stranieri sono riusciti a spezzare i legami ancestrali, immettendo velocità inusuale nelle lente decisioni di un popolo non uso a risolvere in fretta le questioni. Molti complessi alberghieri sono costruiti violando leggi precise, ma i governanti balinesi non riescono mai a prendere una decisione drastica e porre fine alla cementificazione della loro terra.
                Però i contadini continuano, in questo giorno di devozione, ad agghindare il loro maiali con sarong colorati e le corna del bestiame con coni di foglie di palma intrecciate, ma lo spirito appare sempre più cristallizzato, sempre più una manifestazione di un grande museo antropologico all’aria aperta, mantenuto affinchè attiri sempre più curiosi e visitatori. Così, a poco a poco, sparirà anche Puspati e Shiva si ritirerà, sdegnato, ben più lontano dell’Olimpo.