Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

venerdì 21 gennaio 2011

la casa

Muri perimetrali verdi, nel senso di svariati verdi diversi combinati assieme come solo degli stanchi imbianchini balinesi, infiacchiti del sole incombente, possono fare.
Avete presente quegli impressionisti che lasciano il segno della pennellata sulla tela, ecco, anche qui gli imbianchini usano una tecnica au plain air per coprire i muri grigi d’intonaco. Larghe pennellate puntano in ogni direzione, l’importante è che la densità del colore sia invariabilmente insufficiente a coprire uniformemente lo sfondo. Se a questa pittura affrettata s’aggiunge un intonaco sbeccato e non riparato o strisce di cemento in rilievo su lunghe crepe irregolari, allora sì che l’opera d’arte si delinea in tutta la sua complessità. Ed ecco spiegati “i” verdi del muro.
Questo è stato il primo contatto visivo con la casa. Un piccolo scrigno immerso nei verdi di alte pareti. Poi il celeste carico della piscina, in stupenda accoppiata coi verdi, chiaramente non voluta. E il bianco della pietra calcarea che contorna quel cielo sott’acqua. Poco oltre le candide mattonelle dei pavimenti e la seriosa tinta crema delle pareti. Tutt’intorno altro verde, chiazzato dei colori vivi delle piante tropicali che popolano il giardino: heliconia, dracena, ibischi, frangipani, bambù.
Eccola, la nostra nuova casa, una tavolozza nelle mani del più spirituale dei pittori. Non potrà che essere dedicata alla dea Saraswati, protettrice d’ogni forma d’arte.

Abbiamo subito ottenuto di allargare le pareti color crema per limitare la prepotenza dei verdi. All’esterno, ora, il muro si presenta cremoso alla vaniglia, e lascia i verdi alla sorpresa di chi entra in giardino. Poi, al verde impressionista sovrapporremo il verde vellutato del ficus rampicante e, chissà, alcune statue bianche dialogheranno col temperamento imperioso della tinta erba della parete di fondo, oltre la piscina.

Palme ancora piccole lasciano intendere future zone d’ombra e il solario in stanghe di legno, che avvolge la piscina, s’accende d’una nota cioccolato al raro sole di gennaio.

Cucina e salotto s’aprono generose sulla piscina e non fatichiamo ad immaginarci stravaccati su un sofà di teak giavanese affaccendati a rimirare con aria sognante statue, acque gorgoglianti e verzura lussureggiante.

I bagni sono in parte all’aperto, come usa qui. Le forti tempeste tropicali, che talvolta battono i cieli invernali di Bali, ci hanno indotto a porre una tettoia per evitare spiacevoli accumuli d’acqua sui pavimenti. Lo scarico unico dell’acqua mena all’aperto, tra la ghiaia della strada. E’ una autostrada per i topi che brameranno visitarci: vorrà dire che metteremo un casello.

Made Mirta, il proprietario, ha nelle mani solo il ricordo dei calli forgiati lavorando nelle risaie che gli appartenevano, ora ben al di sotto delle ville che possiede al loro posto. La stretta è esile, come quella dei nostri contadini, timorosi di far del male a dispiegare tutta la loro potenza muscolare. Le gambe, ancora muscolose, rimandano a quando avanzava con fatica nel fango fino alle ginocchia, spingendo l’aratro dietro al suo bufalo preferito.

Il colmo del tetto ospita una fila ininterrotta di galli in terracotta, in atteggiamento vigile verso il sole che nasce. Spero non cantino ogni mattina tutti assieme.
Sarà uno spasso.

sabato 15 gennaio 2011

i nostri fantasmi

E’ fuori dubbio, lo vedo. L’ospedale ti trasforma, cambia il tuo corpo. Anche solo poche ore e la metamorfosi ha inizio. La pelle impallidisce, diventa diafana. La voce s’affievolisce, un poco roca. I gesti rallentano, le mani tremano leggermente. Il corpo s’appiattisce, i rilievi a poco a poco scompaiono sotto le lenzuola candide, come un campo dopo un’intensa nevicata.
Anche il lume della ragione s’appassisce e una curiosità di solito viva si trasforma nel suo ricordo. Le domande che dovresti porre nascono già stanche e in ritardo.
Ti nutri di liquidi incolori, pappe opalescenti. La luce è fievole, i suoni smorzati, scivoli in un limbo esangue.
Uno spettro.
Gli spettri non sono i morti che ritornano, sono vivi, ancora carne e ossa, solo trasformati, ecco.
Sono i malati, gente irrisolta, sono i prigionieri di questo melmoso candore che riempie le stanze di un ospedale. E’ la loro esistenza non ancora definita che ci spiazza, ci agita, si insinua nei nostri pensieri e genera paure. Sono loro le nostre paure profonde che evochiamo quando, coi peli ritti, crediamo di sentire un rumore nel buio. O un brivido freddo in una giornata di sole.
Sono i malati, la cui condizione sospesa ci mette a disagio, s’insinua malevola nelle nostre esistenze ben definite. Non sappiamo come gestirli, i nostri fantasmi.
Molti riprendono il loro colore e la loro corporalità, altri non ce la fanno e spariscono diventando invisibili. Una volta concluso e risolto il loro percorso nella malattia, nella “spettralità”, o sono o non sono più. Comunque cessano di essere ombre. Eccoli i nostri fantasmi, e di essi abbiamo terrore. Non della morte, che è nostra amica sincera, schietta, risolutrice. Né della vita, che non ci da tregua, che cavalchiamo a spron battuto.
E’ del limbo che abbiamo timore, e del popolo diafano che ne occupa le stanze.

occhi

"Your passport, please", ma il cervello non registra questa semplice domanda, intrappolato nell'identificare una incredibile serie di turchesi smeraldini. Sono gli occhi dell'infermiera che mi si rivolge, posati sopra un sorriso che spero non di circostanza, tanto bene si sposa con i loro toni cangianti. Sembrano schegge di una conchiglia che s'è appropriata dello smeraldo del mare equatoriale, fuso con gli aloni turchesi di una piuma di pavone.

Capisco ora come gli occhi possano parlare. Trattengo il respiro: un incanto.

domenica 2 gennaio 2011

la strada

L’asfalto è un inganno, è la falsa promessa di un ordine inviolabile. E’ una certezza ingannevole. In Indonesia la strada nasce per essere violata. E’ permeabile, è rete a maglie larghe, che lascia passare tutti i pesci. Non è nemmeno “nastro d’asfalto”, perché la striscia è sfilacciata, s’interrompe, si restringe, s’allarga a servire la necessità di chi sta sul suo bordo. Tanto meno è l’asfalto la materia che la distingue. Se c’è pietra, è di pietra, se c’è polvere, è di polvere. Ma può essere fatta dell’acqua di un fiume, come del pietrisco rotondo e mobile del letto secco di un torrente, che ormai da anni ha distrutto il ponte che lo attraversa, in un impeto di pienezza. L’entropia dei sassi è più solida di un ponte che, prima o poi, crollerebbe di nuovo. Comunque, se d’asfalto è fatta, è un bitume cagionevole, si slabbra, si deprime, si sfonda. Emerge da sotto la sua sostanza grossolana, come ferite grigie che spurgano sabbia e pietrisco.

La strada è un’idea nata per percorrenze longitudinali, nette, senza esitazioni. Qui l’idea è corrotta da una natura imperiosa e da un senso della vita evanescente, confuso, incerto, ma abile nell’adattarsi a percorsi alternativi, deviazioni necessarie. Le genti equatoriali s’appropriano della malleabilità acquisita da quest’idea perfetta e la impastano come pongo, rendendola altra cosa, imperfezione indispensabile, mutazione.

Ecco, la strada indonesiana è l’evoluzione della specie strada, che ha inglobato le tante variazioni di forma e funzione, per dare origine ad un nuovo endemismo. Un poliforme miscuglio perfettamente adattato. Un percorso senza direzione.

Nessuno, qui, usa la strada come indicatrice di direzione e superflue sono le numerazioni. Poiché la strada è tragitto, valgono solo le indicazioni cardinali, oriente, settentrione. E la relatività: qui vicino, da questo lato, non lontano.

A Bali, la situazione per il viaggiatore si complica per le undici direzioni che si sovrappongono ai punti cardinali. Qui vige il concetto di “verso la Grande Montagna”, (kaja) che talvolta è nord, talaltra è sudest, ma non è verso sù. All’opposto, ma in senso relativo, c’è “verso il mare”, (kelod) che mescola timori atavici, scorrere d’acque a valle, immensità esoterica dell’oceano.

“Dov’è il tempio?”. “Non lontano da qui, ad oriente, ma dall’altro lato e poi verso kaja”.