Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

sabato 30 ottobre 2010

Leggende di palazzo


Si narra di una fanciulla dai lunghi capelli neri, intrecciati i fiori profumati. Vaga di sera tra i padiglioni del palazzo, è vista danzare attorno all’albero di cempaka, che occupa da secoli il centro del cortile. Non è una donna della famiglia, non assomiglia a nessuna del villaggio. Non si  manifesta a tutti, si cela ai più. Il rajah, preoccupato che si tratti di un’apparizione malevola.  Consulta i sacerdoti che, dopo frenetici vaticini, giungono alla conclusione che si tratta dello spirito guida dell’albero. Si palesa per ricordare che il palazzo è sotto la sua protezione e sventura e malefici non possono toccarlo, fintantoché esso può trarre forza dall’antica foresta sacra che copre le pendici del monte Batukaru, cui l’albero è legato da vincoli soprannaturali. Da allora il rajah blandisce lo spirito-albero con cerimonie e sacrifici, e non mancano mai ornamenti e grandi luci che lo abbelliscono.
Si narra di una rappresentazione della danza sacra del Tektekan particolarmente intensa ed evocatrice. Un turista straniero vi assiste e, travolto dall’ardore coinvolgente dei personaggi della vicenda, cade inaspettatamente in una trance tanto profonda da spaventare moglie e spettatori. 
I sacerdoti si affollano intorno per svegliarlo, ma la sua possessione resiste ad ogni scongiuro e aspersione d’acqua sacra. 

D’improvviso si sveglia, immediatamente dopo che Rangda si copre la maschera col telo sacro.

Dal rajah di Tabanan

Il 7° rajah Anak Agung Ngurah Oka Silagunadha, Oka per gli amici, ci accoglie nel Puri Anyar, il palazzo reale, di Kerambitan, tra i padiglioni di uno dei cortili, riccamente ornato di alti penjor e colorati arabeschi di foglie di palma, ripiegate in infinite forme. Con bassa voce baritonale, questo signore ottantenne saluta con affabilità e cortesia gli ospiti e, subito, da buon promotore della cultura della sua terra, mi afferra la mano e mi porta a vedere l’opera di quattro ragazzi avviati alla pratica di amanuensi, in una riedizione dell’antica arte di scrittura su foglia di palma lontar.

Gli ampi portali del cortile esterno sono spalancati ad accogliere quanti più abitanti del villaggio possibile, e le strade attorno sono rigonfie di gente in attesa del passaggio degli artisti. Un signore compito, con entusiasmo misurato, si sbraccia ad invitare tutti i bambini accalcati in strada, in nome, dice, dello spirito democratico che segna questa manifestazione.

Costretta ad assistere a noiosi discorsi d’apertura, la gente si agita, partono brevi applausi, risate, i bimbi si rincorrono davanti a nobili e governanti, prendendo alla lettera l’understatement di queste occasioni.

Apre la parata di artisti locali un gruppo di adolescenti che suona un’orchestra di tamburi, campanacci di legno e sonagli di bamboo. L’intesa è perfetta ed il ritmo coinvolgente. Si scambiano cenni e sorrisi d’intesa, sotto la guida ritmata dei tamburini principali. La coreografia strappa applausi entusiasti e i famigliari, tra la folla, incitano i propri figli.

Seguono maestri di Baris, la danza marziale balinese, e coppie di ballerini che mimano il volo dei calabroni, fasciati di lunghi e svolazzanti sarong multicolori.

Si fanno avanti gruppi di donne che mostrano, al ritmo di una nenia struggente che parla di amori traditi, mazzi di spighe di riso, frutto del nuovo raccolto. Uomini le affiancano portando in spalla gli attrezzi del lavoro in risaia.
 
Sfilano gruppi di artisti che, provenienti da villaggi vicini, interpretano versioni diverse del Tektekan, una intensa rappresentazione dell’eterna lotta tra il bene e il male, incentrata nella figura di Rangda, personaggio potente e malefico. Villani a petto nudo, al suono scaramantico e ossessivo di strumenti di ogni tipo, chiudono ogni gruppo, mimando il tentativo di scacciare malattie e sventure sparse malignamente dalla strega.

Il gran finale è tutto giocato dalle carni generose e seriche di una ballerina di Joged. Strisce di tessuti multicolori sottolineano un corpo rigoglioso che movenze sinuose, ammiccamenti, cenni d’intesa e ondeggiamenti espliciti delle terga, rendono sensuale e festosamente erotico. La carica sessuale si riversa in platea, accolta da grida d’incitamento dei giovani uomini presenti, che sfogano i pensieri torbidi smossi da tanta grazia. La ballerina s’insinua languida tra le file di nobili, che la osservano apertamente con occhi velati e risatine compiacenti. Alcuni si lasciano coinvolgere in passi accennati, movenze allusive, deretani che si sfiorano, spalle che vibrano, occhi che sbirciano. Il rajah, cui l’età veneranda ed il titolo assicurano un alibi autorevole, s’intreccia alle ultime piroette, mimando passi birichini che nobili e volgo sottolineano uniti in un democratico battimani.

mercoledì 27 ottobre 2010

baby sitting

Un artigiano è chiamato per fare un lavoro in casa. Si presenta con gli attrezzi del mestiere, in moto con moglie e figlioletta. Nel tempo che svolge il lavoro la moglie gira per la casa e la figlia gioca da sola, tra il giardino e l’interno, in questo nuovo e fantastico parco giochi. Ecco risolta con grande semplicità e partecipazione  la necessità di tenere unita la famiglia e di sorvegliare il figlio mentre si lavora. La bimba non ha alcun timore degli altri adulti sconosciuti che la circondano, mentre si ritrae spaurita se il viso pallido le si avvicina con un sorriso ed un saluto. Gioca con i fiori e le erbe del prato, con i gatti che scappano stizziti, gira in tondo facendo gridolini eccitati tra le moto parcheggiate. Fissa pensosa la moglie del viso pallido che lavora all’uncinetto, seduta lì vicino. Grandi occhi scuri e perlacei. Poi un guizzo e saltella verso una farfalla bruna e rossa che plana placidamente su di lei. Ogni adulto la guarda benevolo e in qualche modo si fa carico della propria parte di baby sitting, secondo un modo di fare universalmente diffuso in Indonesia.
Il lavoro del padre dura qualche ora, la bimba si rifugia tra le braccia della madre, accosciata all’ombra di un albero, e qui s’addormenta, un braccio languidamente proteso a toccarla.

All’imbrunire l’uomo impacchetta le sue cose, tenute in bilico sull’avantreno della moto, la donna si siede dietro, tenendo in braccio la figlia ancora addormentata, un fagotto di colori tenui che avvolge une pelle color caffelatte. Un colpo d’acceleratore e la famiglia del muratore se ne va verso il proprio nido, una catapecchia incastrata tra cento altre.

domenica 24 ottobre 2010

un dio in ogni cosa

John (detto Ciòn) sta piastrellando lo spazio doccia. Confessa che mettere le piastrelle in verticale è piuttosto difficile. Compra scatole di mattonelle bianche, del cemento, cordino e filo a piombo. Imposta i contorni del rivestimento con chiodi e cordino, rende retti gli angoli e precise le linee verticali col filo a piombo. Il lavoro preparatorio procede lento e il reticolo di canapina si snoda geometrico sul muro.
L’applicazione la fa con un generoso strato di cemento puro (qui non usa la colla speciale per ceramiche) che rende la posa difficile e dura. Ogni piastrella viene distanziata dalle altre con semplici chiodi che fanno da spessore (lasciano però dei buchi profondi nel cemento, che non vengono riempiti). L’insieme mattonella più cemento pesa qualche chilo, sicché s’iniziano ad ampliare, appena percettibili, gli spazi  tra loro, le fughe.
Un giorno di lavoro per le prime 20 piastrelle, un altro giorno per le altre ed un terzo per la finitura. A fine giornata è immancabilmente ricoperto da cima a fondo di schizzi e strisci di cemento, sembra emerso da una miniera. Durante la notte, per la mancanza di finitura cementizia, l’acqua monsonica cola dietro le ultime forme posate e ne stacca una, che s’infrange al suolo con un suono che si confonde coi tuoni che scuotono i vetri.
Per stanchezza, comodo pensarla così, o forse per quell’iniziativa che in questo tropico possiedono anche le forme inanimate,  l’ultima mattonella mostra una linea decisamente divergente dalle altre e sormonta il preciso limite del filo a piombo.
La ragione non vince sulla superstizione, piuttosto trova modo di conviverci, in un lungo braccio di ferro senza vincitori né vinti. L’anima alberga ovunque nell’universo indù dei balinesi e a nulla vale la presunzione di poterla limitare, costringere, all’interno dei soli esseri umani,  con la sola forza del raziocinio. Comunque rispunterà libera in un sasso, un albero, un animale, o una mattonella. E chiederà a gran voce il proprio posto nel mondo, esigerà una sorta di tributo di fede, di accettazione, al diritto di muoversi a proprio piacimento, con regole proprie, trascendentali.
Qui, dove ogni sasso è un dio, ieri, luna piena, un dio, forse minore, è sceso per un momento nella nostra mattonella ed ora ci fissa ogni giorno, con sbieca aria di sfida.

martedì 19 ottobre 2010

Una casa da arredare

Una casa da arredare. Rimedio contro la malinconia e la depressione. Mobili solidi e vagamente retrò, linee severe da convento o casa di borghesia coloniale olandese. I fronzoli li ha aggiunti chi ha dipinto con tinte e svolazzi altoatesini alcuni di questi pezzi. In più, ad ornare i profili troppo seri, ci sono i merletti giavanesi, gli sbalzi, gli intagli e gli ornati con motivi floreali, sole, luna, il serpente della creazione, Naga, teste d’uccello, fili d’erba, loti.
Da una soffitta recuperiamo lunghi serpenti con spire lignee e ridicole criniere leonine. Fauci spalancate e corona d’oro in capo. Una madia con ante si trasforma in credenza con l’aggiunta di una alzata da tipografo. Compare una lunga lancia da pesca di una lontana isola della Sonda.  Una buffa e colorata ciabatta cinese in legno si colloca quasi da sola, su un piede solo?, sul marmo del muretto, sopravvissuta all’attacco dei tarli che hanno sconfitto la gemella.
Un artigiano di Kerobokan fornisce i bicchierini di vetro, luccicanti di colori e disegni, che occupano vezzosamente la sommità di un mobiletto dipinto. Un altro serpente, che stava allungato su un paravento che è ora testiera di un letto, sarà presto trasformato in attaccapanni con i pomelli di bronzo scovati in un negozietto, o meglio un rigattiere, di maniglie e affini. La donnina che me li vende pesca da un grosso barattolo una polvere color mattone e li strofina a mani nude, per darmi il piacere di un aspetto lucido, levati dalle scatole polverose che li contengono.
La zanzariera, che finalmente paluderà il grande baldacchino del letto, perfetto simbolo del clima tropicale, sarà pronta domani. Intanto lottiamo svogliatamente contro le zanzare a colpi di spruzzi chimici dolciastri.
La nuova abat-jour, invece, l’ho ritirata oggi. Dopo minuziose spiegazioni su forma, dimensione, lunghezze, altezze, mi consegnano un bell’oggetto, ma in parte lontano dal pattuito. Segna, anche questo episodio, il rapporto tra il viso pallido e gli artigiani locali, tra straniero e tropico, tra il rigoroso ed il perfettibile. Immancabilmente non c’è scusa, ma un semplice, disarmante, sorriso.

lunedì 18 ottobre 2010

bibi Das

Bibi, zietta. Una donna che si è dedicata alla governance della casa, devota a chi le da lavoro e sicurezza da 25 anni. Il suo regno è la cucina, i suoi sudditi i fornelli, che comanda con solida esperienza e fermezza. Sa manipolare i fantasmagorici ingredienti che offre il rigoglio dei mercati, fino a piegarli al proprio intento e trasformali in una meravigliosa mescolanza di sapori, profumi, sentori, pizzicori. Scenografie di scodelle che ospitano piccoli capolavori di acquerello. Come una vera artista, si dedica alla preparazione dei propri attrezzi e delle materie, che taglia, affetta, pela, trita, schiaccia e pesta. La casa si riempie prima di odori pungenti, grevi di olii e crepitii di fritti. A giorno inoltrato i miracolosi chimismi delle miscele si compiono, il naso apprezza sfumature dolciastre, pungenti, vellutate. Bibi Das, seduta su un gradino, gorgoglia serena con i camerieri che vengono a chiederle una porzione di quella manna. Al tramonto ha il suo momento di riposo, le semplici abluzioni e una piccola sosta prima delle ore serali, in cui distribuisce cene come una dea dalle cento braccia e poi, di nuovo, si mette a spezzare e sbucciare, in vista dei nuovi sapori di domani.

domenica 17 ottobre 2010

Ketupat

Un ventilatore muove l’aria che entra libera dalle porte a vetri, spalancate sul pomeriggio domenicale. Il vibrato basso delle motorette è lontano e non da fastidio. Un gorgheggio variato e squillante rimanda ad uccelli esotici e si sposta tra le foglie, perfetto per il sottofondo di flauti di legno e sulit. I camerieri, maschi e femmine, sciamano tra i tavoli e intrecciano ghirlande con nastri di foglia di palma. Le sedie, così addobbate, sembrano troni di favolosi regni perduti e le figure in sarong colorati eterei cortigiani dall’incedere solenne. I volti di questi ragazzi sono scolpiti nel legno, impassibili e dolci allo stesso tempo.
S’accendono i lumi in ogni tavolo, nelle alcove, nei soppalchi di teak e attorno alla piscina.Uno scoiattolo, spaventato, s'arrampica veloce sul tronco dritto di una papaya, agile tra i grossi frutti polposi, via via più piccoli, su fino in cima.  La magia e il mistero si rinnovano così ogni sera, in questo palazzo ligneo che ricorda una antica reggia giavanese, tra padiglioni intarsiati ed alcove ricolme di cuscini setosi. Statue rose dal tempo e crateri ricolmi di petali di fiori in decori geometrici.
Attesi, gli ospiti entrano esitanti, rapiti dall’incanto di un gustoso esotismo, un po’ demodé ma sempre misteriosamente attraente. Rimangono infine intrappolati dal menu sontuoso e sapido di spezie. Gli scoppi di risa non spezzano l’incantesimo, e il pensiero vola lontano, sulle note flautate di una melodia senza fine.

sabato 16 ottobre 2010

un altro mondo

Eccoci qui, ad un mondo di distanza dalla vecchia Europa.
Una fetta di pianeta già percorsa dai viaggi dei mercanti cinesi quando da noi il Medioevo addormentava ogni velleità di nuovi orizzonti.
Ora percorsa da puzzolenti veicoli che spostano merci, da miriadi di motorini rigorosamente acquistati a rate, da grossi SUV di ricchi indigeni e di pochi forestieri, smaniosi di mostrare l'opulenza.

Alloggiamo in una casa ampia e comoda, con a disposizione, a piano terra, una camera da letto, bagno, lungo salone, angolo pranzo e cucina. La cuoca tuttofare è devota e abilissima nella cucina, indonesiana naturalmente. Dobbiamo continuamente dirle di calare le quantità altrimenti faremo la fine delle oche all'ingrasso. Sono piatti a base di pesce fritto, verdure bollite o saltate con salse piccanti e saporite, fette ocra di soia fermentata, cubetti fritti di tofu, sontuose zuppe con carni, teste di pesce e verdure, radici bollite e riso in bianco. Il tutto condito dalle salse ardenti a base di peperoncino, aglio e scalogno.

Stiamo facendo modificare alcune parti della casa per renderla ancora più comoda ed agevole. Speriamo anche di rimettere in sesto le due stanze al piano superiore, cui mancano i mobili e gli accessori.

Appena avremo in mano i documenti necessari compreremo la motoretta, per ora in affitto. Laura è entrata in possesso di una macchina da cucire moderna e si è gettata a capofitto nele creazioni domestiche: tovaglioli, tovaglie, copri lampada, strofinacci. Si diverte un sacco e dimentica, per un po', i suoi guai.

Abbiamo riallacciato immediatamente i contatti con gli amici italiani più simpatici e alcuni ci vengono a trovare regolarmente, anche se qui, a Kuta, il traffico bestiale e la coda perenne sfiancano tutti.
La nostra padrona di casa, Lella, è in pieno delirio divorzista e, diosacome, trova il tempo per gestire con polso fermo il ristorante qui a fianco.

Ci sarà tempo per i progetti, ora accennati, di scritture di vario genere. La giornata è, ancora, troppo intensa e giocata in continue commissioni in giro, per poter dar spazio ad una scrittura concentrata e distaccata. Negli accenni, però, già si parla di articoli, di libri, di blog. Una stagione intensa si delinea, almeno nei pensieri che popolano queste notti tropicali.