Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

domenica 16 dicembre 2018

Simboli della cultura Nagekeo




In molte parti del mondo le società si basano su oggetti simbolici per ribadire l’origine e gli interessi comuni a quel gruppo omogeneo di persone.
Una comunità che si raccoglie attorno ad oggetti emblematici genera inclusione, appartenenza, stimola ad una vita condivisa, armoniosa e unificante. Per le genti Nagekeo costruire, rinnovare e rispettare i simboli di una tradizione secolare è considerato uno stimolo a sostenere i nobili valori di coesione ed unificazione tramandati dagli antenati. In omaggio alla loro eredità: su’u ta mbupu wangga ame uwa.


La diversità culturale esibita dalle genti di Flores si rinnova tra i Nagekeo, che hanno generato una serie di emblemi originali e distinti da quelli di etnie a loro confinanti. Attorno a questi oggetti si dipanano i momenti straordinari delle comunità, le cerimonie legate all’agricoltura, alla nascita e alla morte, al matrimonio, che si intrecciano e danno sostanza rinnovata alla loro vita ordinaria, di tutti i giorni.



PEO : un semplice palo in legno , bipartito, che si alza solitario in mezzo alle case tradizionali, proclama a tutti, quasi in un ampio abbraccio, indivisibilità e indipendenza del clan che ha fondato il villaggio, oltre alla supremazia della tradizione. Quasi sempre posizionato al centro di un piccolo cumulo di pietre.
Nei secoli passati le genti Nage e Keo si spostavano spesso per stabilirsi su terre vergini (tana ine mona, watu ame nggedhe). Le cause delle migrazioni erano guerre perdute, eventi naturali, ricerca di terre più fertili, ma anche il frazionamento di clan dovuto a matrimonio e allargamento delle famiglie. In tutti questi casi, non appena la comunità rendeva la terra produttiva e il bestiame abbondante, si innalzava un Peo.
Durante le cerimonie principali a questo tronco fatto di legno embu (Cassia fistula) sono legati i bufali che inonderanno la terra col loro sangue sacrificale. Per rendere la terra compatta e non disunita (mbasa ne’e la mo’o tana ma’e udhu adha) e la carne un pasto condiviso (pora tau pesa ka).
La forma a V indica il sesso femminile, è la madre, l'utero che da alla luce tutti i figli e l’amore che tiene insieme la famiglia. Sulla cima di ogni braccio del Peo sono collocate due figurine di uccelli, una di fronte all'altra, a memento della necessità di pace e fratellanza. Talvolta, in corrispondenza del becco degli uccelli, sono appese delle conchiglie, che rappresentano la ricchezza che scaturisce da concordia e solidarietà (un punto di vicinanza con gli intagli delle facciate delle case tradizionali Ngada). Inoltre, il tronco principale e i due rami sono spesso abbelliti da intagli geometrici e intarsi di madreperla.

Il Peo ha sempre un compagno, un simbolo che richiama il lato maschile del clan, o madhu.

MADHU: un corto palo di legno impiantato nel terreno ad una certa distanza dal Peo, con in cima una statua di un uomo nudo. La sua posizione ad un livello superiore (wawo) rispetto alla collocazione in basso (wena) del Peo, segue la simbologia di genere nella società Nagekeo. Qui sono legati provvisoriamente i bufali prima di essere spostati al Peo per il sacrificio durante un cerimonia chiamata para.


SA’O ENDA: una piccola palafitta senza pareti che rappresenta il focolare domestico. Si trova lungo lo stesso asse della coppia Peo/madhu, che corre lungo il centro della “piazza” del villaggio. Alla sa’o enda si accompagna una statua lignea di cavallo (jara), montata da una coppia di statuine nude di un uomo (che tiene le redini) ed una donna subito dietro. Il cavallo è il mezzo di trasporto della famiglia e l’insieme simboleggia la coppia idealizzata con adeguati mezzi di sussistenza.




Nella enda sono conservati vari oggetti tradizionali che richiamano i fondatori del clan e altri legati all’origine della comunità: una coppia di statue uomo/donna chiamate ana jeo; una pentola di coccio (anga); un piatto ricavato da una zucca (tora); attrezzi per lavorare il riso (kadho, idhe); un mestolo (kao). Talvolta si trovano strumenti musicali, come gong e tamburi.
La sa’o enda più famosa con jara e ana deo si trova a Boawae Pu’u (anche se è rimasta una sola statua). Altre si trovano a Lewa, Ngera e Nua Bolo.




SAO TUDU: è una piccola capanna innalzata al centro del villaggio, usata in occasione delle cerimonie principali. E la “cucina” nella quale i maschi cuociono cibi tradizionali intesi come offerte di ringraziamento agli antenati (pedhe teti, seo nga’e). Sao tudu è, quasi come il peo, un simbolo di unità e appartenenza ad un’origine comune. Infatti si trova sia nei villaggi capostipite sia negli insediamenti secondari, da quello originati e che con quello hanno in comune i costumi tradizionali.





martedì 11 dicembre 2018

Il popolo del tamarindo: origini e storia dei Nagekeo di Flores

     Flores ha avuto una sua storia molto prima che arrivassero i primi commercianti stranieri o missionari. Tuttavia, poiché gli antichi Florinesi tramandavano la loro storia solo oralmente, poco si sa sulle origini di molti di essi. I primi visitatori stranieri a Flores probabilmente incontrarono insediamenti dispersi e indipendenti costituiti da diversi clan discendenti da un antenato comune. I villaggi attuali hanno tutti una origine simile.

      Precedentemente all’arrivo a Flores dei primi europei, Makassaresi e Bugis, i popoli marittimi di Sulawesi meridionale, si spinsero fino a Flores per il commercio e le incursioni schiaviste e presero il controllo di alcune zone costiere. Mentre le aree costiere orientali di Flores erano sotto l'autorità dei raja di Ternate, nelle Molucche, Flores occidentale era dominato dai sultanati di Bima a Sumbawa e Goa a Sulawesi (come l’area pianeggiante attorno a Mbay, al nord della regione dei Nagekeo).  Con l’arrivo dei Portoghesi ci furono sicuramente contatti con le popolazioni degli altopiani di Flores Centrale, tanto che in alcune case antiche i clan ne tramandano alcuni oggetti, spade e colubrine in primis (come a Lambolewa e Tutubadha).
       Nage e Keo sono due regioni adiacenti, poste tra le terre Ngada e quelle Lio, nella parte centrale di Flores. Condividono cultura, lingua (pur con almeno 25 dialetti) e struttura sociale, e per questo furono riunite in un'unica entità amministrativa dalle autorità coloniali olandesi. Il moderno governo indonesiano ne mantenne la coesione che alla fine si trasformò in una fusione quasi completa. Durante il dominio coloniale olandese, il territorio del raja di Bo'a Wae (Boawae) si estendeva da una costa all'altra, includendo una varietà di popoli diversi tra cui la comunità islamica di Mbay nel nord e la comunità meridionale di Tonggo, popolata da coloni Endenesi imparentati da vincoli matrimoniali con i Keo.      

     Un tratto culturale in comune tra i due gruppi etnici sono i totem appartenenti al regno vegetale piuttosto che animale, come invece ha la maggior parte delle tribù dell'arcipelago, incluso i vicini Ngadha. A parte i totem specifici di un clan, tutti i clan rispettano un totem condiviso, l'albero di tamarindo, nage, che non possono usare né come materiale da costruzione né bruciare per il fuoco. Contravvenire a questi tabù si traduce in conseguenze nefaste come malattie o sfortuna per la casa e la famiglia.        

     La maggior parte delle regioni a nord della Trans-Flores, attorno al monte Kelilambo, è ricoperta di savana e alberi di palma lontar, tamarindo, cannella. Mbay, la capitale, sorge su una piana coltivata a riso, limitata a nord dal Mar di Flores. Nelle zone collinose attorno al vulcano Ebulobo, a sud della Trans-Flores, e fino al mare abbondano al contrario boschi di bambù, noce kemiri e chiodi di garofano. In generale l’aspetto è più verdeggiante per il maggiore apporto di pioggia. 

venerdì 26 ottobre 2018

Un mondo d'acque, di pesci e di galli


   Un mondo d’acque, di pesci e di galli. Questo è il Borneo Indonesiano, o Kalimantan, del grande bacino del Sentarum. Un complesso di depressioni collegate fra loro e periodicamente inondate dalle piene del fiume Kapuas e dei suoi tributari. La cadenza pioggia/secco detta le regole di vita da queste parti. Banjir e kemarau, come dicono qui. Con le piogge torrenziali tutto si inonda e l’acqua riporta fiumi, laghi, palafitte e zattere allo stesso livello. Spariscono i fusti di alberi e arbusti, spariscono gli argini dei fiumi e le scalette di legno pericolosamente vertiginose. E’ un mondo immoto, immerso, che si specchia di cielo.

   Ma ora, ora che fa un caldo atroce, che non piove da mesi, tutto sprofonda sotto sei metri di cielo. l’aria è tornata a conquistare uno spazio che l’acqua ha abbandonato e sembra spingerla giù, sempre più giù. 


   Le case e i camminamenti di legno appaiono appollaiati e precari su gracili palafitte. Il mondo dei viventi va conquistato montando su esili passerelle e salendo su per scalette infinite e pericolanti.

   Sono lunghi mesi in cui la natura stessa crea ambienti diversi, quasi opposti. La gente farebbe fatica ad adattarsi ogni volta se non fosse che il collante che lega assieme momenti tanto dissimili è sempre uguale e onnipresente: acqua, pesce, galli.

   L’acqua, pur ritiratasi a magri corsi fangosi, popolati di tronchi e rami, e stretti laghetti assediati dalle piante in piena crescita vegetativa, è sempre la padrona degli spostamenti, della vita delle famiglie. Tutto si svolge a contatto con l’acqua: ci si lava, si gioca, si pulisce la barca o il bucato, si defeca, si pesca, si ammolla il rotan, si annaffia l’orto. 

   E sull’acqua, anche la poca rimasta, ci si sposta con ogni mezzo, pagaiando con fatica o sfrecciando col fuoribordo, come libellule. Sull’acqua arrivano le provviste dalla città e i lenti barconi dei grossisti di pesce e dei venditori di benzina. In barca arrivano funzionari del governo e i pochi viaggiatori che si spingono fin qui, una settantina l’anno. Una buona parte delle attività della comunità si svolgono su pontoni galleggianti, che rendono disponibile spazio in ogni momento dell’anno. Gabinetti, ripostigli, gabbioni per il pesce e pollai. Tutto questo sfila accanto alla nostra barca quando percorre lenta la “strada” principale del villaggio. Un viale d’acqua.

   É l’acqua a fornire la fonte principale di proteine e guadagni: i pesci. Non c’è area del Sentarum che non abbia una trappola per pesci. Le reti di sbarramento percorrono ogni tratto del fiume, dei canali e laghi. 


   Un’intera economia si basa sull’abilità secolare di catturare una delle quasi 300 specie di pesci che vivono in questa enorme area umida. Ogni momento è buono per pescare, anche durante un’escursione con ospiti stranieri. 

   Uomini e donne passano gran parte della loro giornata a catturare pesci, a svuotare nasse, a riparare e riposizionare reti. Giovani donne escono pagaiando sulla piroga, con un amo, una lenza e il bimbo al collo. 


   Perfino gli anziani non smettono e, prima del tramonto, escono in piroga con una cannetta o una lunga fiocina arrugginita, per sentirsi ancora a contatto con l’acqua e i suoi abitanti.

   Infine c’è una componente del "collante" sociale che non passa certo inosservata: i polli. Ogni villaggio, fino alla comunità più piccola e remota, ne è pieno. I pollai, dove sono confinati chiocce e pulcini, sono nel retro delle aree private delle longhouse. Ma la gran parte dei volatili razzola libera sotto l’immensa volta lignea che è il pavimento della casa lunga, o rumah betang. Tutti ruspano assieme, fuggono chioccianti, beccano qualsiasi cosa cada dal pavimento, mimano quel che accade negli spazi comuni sopra le loro teste, dove la socialità umana permea la grande casa. A sera, solo le donne, col loro richiamo personalizzato, mettono ordine nell’anarchico chiocciare e riescono a guidare i propri pennuti alla mangiatoia.



   Poi ci sono i prediletti dei maschi, i galli destinati al combattimento. Questi, veri guerrieri cui il maschio Iban si ispira, hanno colori sgargianti, esibiscono uno spirito marziale e virtù impavide in battaglia. E strepitano forte prima dell’alba, scatenando un coro polifonico che impedisce il sonno.


   Quando la piroga penetra la rete di laghi attraverso stretti canali di acqua nera, la foresta si chiude sopra di noi. A prua, armato di pagaia, Adi fatica a schivare tronchi enormi, residuo di un’epoca di intensa deforestazione tanto che spesso la barca gratta su ceppi e fusti recisi. Adi si volta svelto e mi evita il contatto con un ramo pendente di rotan, irto di spine ricurve. Più in là, lungo passaggi angusti tra i laghi, lunghe foglie di pandano si protendono sull’acqua con i margini seghettati come coltelli da pane. Sembra che il Sentarum ci voglia avvolgere, intrappolare. E solo a fatica, riusciamo a sgusciare via. Resta la sensazione che lunghe braccia ti afferrino e non ti lascino andare.
Un’acuminata e perentoria richiesta di ritornare.

giovedì 18 ottobre 2018

RUKUN SABONG, simbolismo del combattimento di galli tra gli Iban



Sato, un Iban del Sentarum, nel Kalimantan Occidentale, mi ospita nella sua casa a fianco alla rumah panjai, la longhouse di Meliau, sul fangoso fiume Leboyan. La moglie coltiva dietro casa gli ortaggi che mi cucina per cena, riciclati poi, come ogni economia domestica al mondo, anche a colazione.
La sera, prima e dopo cena, è il momento della conversazione. E’ quando le culture si confrontano, sotto la spinta di una curiosità reciproca che trova il limite solo nel pudore e nella timidezza.


Sato è uomo nervoso, scuro, occhi inquieti, voce squillante e tabagista convinto. Mi racconta della sua passione, che non è la pesca o la costruzione di nasse in rotan, questo è lavoro. La vera passione, da Iban tutto d’un pezzo, sono i galli, il combattimento dei galli.

Quando descrive i sui galli, pennella con la voce i loro colori, il loro spirito combattivo, non parla di volatili ma di veri guerrieri, le cui gesta, il cui carattere e attitudine alla battaglia ricalcano quelle dei guerrieri umani.

Gli Iban si identificano così profondamente nel combattimento dei galli che lo fanno risalire ad una tenzone tra dei, Raja Machan contro Ambong Mungan. Una battaglia che sconfinò tra gli esseri soprannaturali, alla ricerca del gallo invincibile, il cui piumaggio è impronunciabile e mirabile: "Tuntong Lang Ngindang Terbai, Biring Belangking Pipit Kechuai".
La cerca del gallo migliore spinse un Iban a scendere negli inferi, fino ad incontrare il dio dei galli Ensing Jara, colui che si prende cura dell’anima dei pennuti morti in combattimento.

La metafora è molto chiara e su essa si ispira il mito dell’origine divina del guerriero Iban, gallo invincibile trasformato in uomo. Ecco perché il combattimento con i galli parla ad un Iban delle qualità spirituali della natura umana e di come si realizzano in combattimento. Di cavalleria e onore esibiti durante le spedizioni guerresche.

Quando i galli combattenti dell'essere soprannaturale si trasformarono in esseri umani, portarono con sé diversi tipi di colorazioni (bulu manok), che per un Iban riflettono le sfaccettature della personalità di ogni guerriero.

Il destino di un uomo può essere letto solo dal disegno delle squame sulle zampe del gallo da combattimento e dalla colorazione del suo piumaggio. Le disposizione delle squame è unica per ogni gallo e rispecchia il destino esclusivo dato dal dio al singolo guerriero. Ecco perché un combattente Iban è chiamato anche "manok sabong", gallo combattente, con cui ha in comune qualità spirituali e tratti della personalità.

Gli Iban imparano a riconoscere i diversi tipi di colorazione del piumaggio e, quando diventano veri guerrieri, scelgono come loro colorazioni preferite quelle che più si adattano alla propria personalità. Con questa conoscenza ancestrale, l'Iban impara a riconoscere qualità e carattere di ogni guerriero e l'elemento naturale che li influenza.


Il gallo preferito da Santo è laggiù sul fiume, zampetta libero e nervoso sulla stretta zattera che gli fa da pollaio. Scuro, occhi inquieti, la voce squillante.

"kelala buah ari langgu, kelala bangsa ari jaku, kelala basa ari penyiru" (capire il frutto dal seme, la razza dal linguaggio, la nobiltà dalla personalità).

mercoledì 18 aprile 2018

Dvarapala, i guardiani della soglia


A Bali è impossibile non vedere, passando davanti ad un edificio privato o religioso, le intricate e paurose statue o bassorilievi che ne fiancheggiano la soglia.
Assieme alla miriade di altari di ogni foggia e dimensione, sono parte dell’iconografia esotica e un po’ misteriosa di quest’isola. Sono la quintessenza della visione perfettamente duale dell’universo: bene e male, dei e demoni. Onoriamo e compiacciamo anche gli esseri diabolici e terrifici, meglio ancora chiediamo loro, in qualità di spiriti tutelari, di proteggere le nostre case e la nostra religione.
In una terra influenzata da buddisti e indù sin dai primi secoli dopo Cristo, questi guardiani orrifici e silenziosi, conosciuti genericamente come dvarapala, sono uno degli elementi architettonici più comuni.
La versione balinese è un misto di stile indigeno e motivi ispirati dall’arte religiosa giavanese Majapahit. La loro funzione è di proteggere la soglia di ogni edificio e prevenire l’entrata di influenze maligne. Il loro nome è l’unione di due parole sanscrite: dvara, la porta, e pala, il protettore. In origine a guardia di templi e palazzi, nella Bali moderna sono in servizio anche davanti a case, uffici, hotel e interi villaggi.
La loro forma varia da esseri antropomorfi ad animali selvatici, fino a dragoni. Più comunemente, come davanti a casa nostra, sono tremendi guerrieri o giganti dagli occhi sporgenti e i lineamenti volgari, in posa marziale o con un ginocchio a terra e spesso armati di daga o bastone da guerra, il gadha. Quest’arma, in particolare, possiede un forte valore simbolico a Bali, dove gli eroi semidivini che lo impiagano in battaglia, Hanoman la scimmia bianca e, soprattutto, Bima, il gigantesco Ercole indigeno, sono molto popolari.
Il Dvarapala Balinese è scolpito nell’arenaria vulcanica, o andesite, o inciso nel semplice mattone. Oggigiorno si trovano anche in cemento.
I nobili guerrieri del mito, maestri di gadha e oppositori del maligno, attraverso la loro arma d’elezione infondono al dvarapala uno spirito altruista e protettivo.
Come spesso accade nell’iconografia balinese, lo stile può essere molto personale fino a vestirsi di grottesco. Due delle figure più comunemente scelte come guardiani delle case, provengono in effetti da personaggi stravaganti del teatro. Sono Tualen e Merdah.
I due sono la metà del quartetto di buffoni chiamato Punakawan, che comprende anche Sangut e Delem. Questi personaggi rappresentano quattro comportamenti umani tipici e diversi tra loro e derivano dal teatro Wayang giavanese. Sono gli immancabili servitori pagliacci del protagonista in ogni storia rappresentata. Gli attributi della coppia suggeriscono perché sono visti come protettori.
Tualen è sempre presentato come un carattere pensieroso e contemplativo. Figura semplice e piena di saggezza. Gli viene naturale predicare la verità, senza paternalismi e sempre con modestia. L’archetipo dell’uomo virtuoso.
Merdah, d'altra parte, è un personaggio audace e sicuro di sé e le sue azioni suggeriscono che la verità vada perseguita in modo deciso e sempre virtuoso. Entrambe queste caratteristiche rispecchiano i valori fondamentali su cui si basa la società balinese, sia nel passato che in età moderna, e rappresentano pertanto un’iconografia popolare e molto potente.
Stante l'amore locale per il wayang kulit e per la comicità volgare e popolare a loro associata, non sorprende vedere questi “buffoni di corte” vestire, in tutta Bali, un ruolo così importante a protezione e sostegno di una famiglia o un tempio.

mercoledì 14 marzo 2018

La farmacia cosmica




Quasi mille anni fa, il raja Cokorda di Tabanan soffriva di continue malattie. I sudditi cercarono ovunque un rimedio qualsiasi, finché, seguendo istruzioni avute in sogno, alcuni non decisero di inoltrarsi nella fitta foresta che occupava allora le pendici del monte Batukaru.
L’indicazione era di cercare un soffio di fumo che saliva da una noce di cocco caduta in mezzo ai bambù. Da questo cocco venne tratto un medicamento che curò il raja e lo riportò alla normalità. Cokorda ordinò di costruire un tempio in quel luogo dalle proprietà miracolose, chiamandolo per l’appunto Tamba Waras (la medicina che cura).

Nel contesto del moderno induismo balinese, qui si prega il dio unico nella sua manifestazione di dispensatore di rimedi universali, per corpo e mente, per il lato manifesto e quello oscuro (sekala-niskala), una sorta di farmacia cosmica. I poteri curativi sgorgano dalle acque di sorgente, considerate sacre nelle montagne balinesi, e dall'olio prodotto da una pianta epifita, comune nelle foreste attorno al tempio. Foreste che, lasciate qui indisturbate, sono il degno palcoscenico della rappresentazione simbolica dell’intreccio uomo-natura.

Con le abluzioni nelle sette sorgenti, pancoran sapta gangga, ripetute nel tempo per i casi più difficili, e un sorso di acqua di cocco benedetta mischiata all’olio miracoloso, i balinesi chiedono l’aiuto del dio a far uscire ogni malattia che affligge corpo e mente. In senso letterale, tanto che ci sono luoghi precisi, fuori dal jeroan del tempio e nel jaba, dove depositare gli umori che il rimedio smuove, assieme ai gusci vuoti di noce di cocco.
Oltre che persone affette dalle patologie più comuni, qui al Pura Tamba Waras si incontrano famiglie che portano un bambino dal carattere difficile, una giovane donna che si contorce tra le braccia di un pemangku, accudita da amici e parenti, una fanciulla che cade in trance non appena tocca col piede l’acqua di una sorgente. Arriva il signore destinato ad un’operazione di calcoli renali che, dopo la preghiera, si ritrova il rene ripulito, o la matrona che, convinta di essere sotto l’influsso di una magia nera, si piega in preda alla nausea appena bevuta l’acqua benedetta.



Nel jeroan, le famiglie si apprestano alla preghiera. I padri aprono le giovani noci di cocco verde chiaro (bungkak) cui il pemangku aggiunge l’olio miracoloso, rievocazione del rimedio del raja. Il tutto, assemblato a dovere in una serie di banten pejati o offerte cerimoniali, viene consacrato al dio e benedetto dalle preghiere dei devoti, guidati dai mantra salmodiati dal jero mangku.

La varietà di noce di cocco impiegata nelle preghiere con abluzione (il melukat) è chiamata Bungkak Nyuh Gading in balinese. E’ una noce di cocco piccola prodotta da alberi di varietà nana della specie Cocos nucifera. Di colore giallo (klungah) quella lasciata come offerta al momento dell’abluzione nelle fonti sacre, o verde, quella bevuta mischiata all’olio.
Le proprietà terapeutiche dell’acqua di questi cocchi, conosciute da millenni, sono molteplici e ne fanno una vera panacea. Non sembra un caso che a Bali un tale rimedio naturale sia stato mitizzato e si intrecci con l’origine divina del suo potere curativo. Considerata dai balinesi il fulgido raggio sacro di Shiva nella sua facoltà di illuminare e preservare ciò che esiste in natura, l’acqua di cocco è capace di purificare l'aura del corpo, di aprire il Chakra della Corona o Sahasrara, di ripulire le influenze negative della magia nera e curare le malattie.



Eccole tutte qui le radici della pervasiva religiosità balinese: un’erboristeria efficace che parla di una relazione millenaria con la natura, con l’acqua fonte di vita, resa armoniosa e necessaria da una sovrastruttura soprannaturale, per renderla inattaccabile e perpetua.

Questi i pensieri che si perdono tra le grida della posseduta e si intrecciano al tintinnio delle campanelle, tra fumi stordenti di incenso, circondato da fedeli in cerca di aiuto divino per rinnovare salute interiore e forma fisica, necessarie per affrontare meglio la vita.