Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

sabato 25 dicembre 2021

Ngerebeg a Tegallalang: i colori contro il lato oscuro.

 Il termine "Ngerebeg" deriva dalla parola "gerebeg" che significa ricerca. In giavanese antico ha anche altri significati: compiere una grande cerimonia, raggrupparsi, emettere urla e strepiti. In alcuni villaggi dell’isola di Bali (come Tegal Darmasaga o Batubulan) Ngerebeg è una cerimonia che si tiene nel Pura Puseh o nel Pura Dalem, con la partecipazione di una grande folla di fedeli, accompagnati dall’orchestra beleganjur.

I Balinesi seguono questa tradizione perché credono che l’azione collettiva e coordinata sia in grado di neutralizzare i tratti malvagi che esistono nel villaggio a patto che venga focalizzata nell’evitare che Buthakala, la generica entità che riassume in sé i tratti oscuri e malvagi dell’essere umano, rechi disturbo alla collettività. E’ una delle forme che assume a Bali l’esorcismo collettivo periodicamente necessario per tenere sotto controllo le manifestazioni ostili al procedere tranquillo della vita della comunità.

Nel villaggio di Tegallalang Ngerebeg si svolge in un modo originale. Gli abitanti del villaggio seguono la citata convinzione che ogni essere umano sia costruito su un intreccio tra bene e male e sono consapevoli che le manifestazioni maligne debbano essere periodicamente neutralizzate e rifiutate. Qui, a simbolo del Bhutakala, la presenza oscura e malevola che risiede in noi, i bambini e i giovani si dipingono il corpo di mille colori e motivi fantasiosi. La “mascherata” che ne deriva mostra a tutti la manifestazione del lato oscuro, che viene prima “nutrita” con riso e lawar, preparato e distribuito dagli adulti nel cortile interno del tempio. Rifocillati i ragazzi mascherati assistono alla breve processione, tre volte attorno agli altari principali, dei simulacri di dei e antenati, che sancisce la sacralità del momento e il legame stretto con la “terra di sopra”. Infine si lanciano festosi e vocianti in processione attorno al tempio e su fino alle risaie di Ceking, dove i giovani si sbarazzano della pittura simbolo del male dando libero sfogo al loro ardore con urla, canti e strepiti in un festoso allontanamento delle presenze nefande che hanno, nel corso dell’anno, “obbligato” a comportamenti impropri.

L'obiettivo principale del rituale è quindi far emergere, e dare un volto, alle proprie passioni per controllarle durante l’anno a venire, in modo da non distruggere se stessi e non recare disturbo gli altri.


Andando più a fondo nel significato di questo rituale si vede come Ngerebeg sia visto come pratica essenziale al mantenimento dell'armonia tra le creature dei due mondi sekala e niskala, e tra il bhuana alit (corpo umano) e il bhuana agung (universo). L’azione collettiva serva a tenere sotto scacco i sei nemici dell’uomo, o sad ripu1, identificati in Bhutakala o nei wong samar. Queste entità, simili agli umani ma prive del solco sopra il labbro superiore e che non rispondono mai al saluto Om Swasti Astu, si crede siano parte incancellabile del creato e quindi anche parte della manifestazione del dio supremo quando scende al tempio. Queste presenze, che si muovono liberamente e non viste nel villaggio, vivono nella parte superiore del fiume a ovest del tempio.

Quando si svolge il piodalan del Pura Duun Bingin a Tegallalang, queste entità vogliono partecipare, attirate dalla possibilità di purificarsi e per tenerle sotto controllo e compensarne la presenza destabilizzante, per esorcizzarne insomma l’ingombrante apparenza, vengono fatte emergere, il giorno che precede l’acme del piodalan, con la “mascherata” e neutralizzate con il fracasso festoso e urlante dei giovani del villaggio.

Le stradine attorno al Pura Duur Bingin si animano presto di ragazzi e ragazze che affollano i venditori di leccornie: spiedini di pastella fritta, salsicce di tofu, riso e manioca, patate fritte, mini martabak e involtini di verdure. Non mancano es cendol e coni gelato.

Il tempio già affollato, in un’ora si riempie di persone vocianti. Su tutto il fraseggio ipnotico del gamelan e il canto antico del maestro di cerimonie.

Un gruppo di fedeli prepara il lawar e lo dispone in foglie di banano, altri portano i banten colmi di frutta e volatili arrostiti alla benedizione del mangku. A piccoli gruppi, accompagnati da genitori e parenti, entrano i bambini, dipinti con tutti i colori che la fantasia possa immaginare, i volti spesso disegnati con espressioni arcigne, con baffi e grosse sopracciglia, o interamente di nero o con i tratti di gatti e tigri. Ognuno porta con sé varie decorazioni come “lance” la cui punta è un ventaglio di foglie di palma da cocco o aren, abbellite da fiori, penjor o banderuole come lelontek e kober: armi innocue ma potenti verso i wong samar.

L’atmosfera eccitata ha un momento di calma durante la condivisione del cibo, per rianimarsi di nuovo in occasione dell’uscita dei pratima, accompagnata dalle danze di alcune donne. E poi l’agitazione dei giovani mascherati raggiunge l’apice con l’uscita dal tempio e la lunga camminata tra le stradine del villaggio e su fino alle risaie.

Uno dei significati del Ngerebeg, il valore dell’attenzione alla socialità e e all’ambiente, può essere colto nella ricerca dell’armonia tra buhana agung e bhuana alit, vale a dire tra l'universo e il suo contenuto, qui inteso come l'ambiente che ci circonda, e gli esseri umani. Da qui deriva la maggior considerazione che gli antenati riponevano nella cura dell'ambiente naturale, concetto che ora dovrebbe essere una delle linee guida per le generazioni più giovani, in modo che sviluppino quell’atteggiamento di considerazione e conservazione per la natura.

1Sad Ripu significa sei nemici che rappresentano i tratti umani negativi, da far emergere per allontanarli da sé e neutralizzarli. Questi aspetti nefasti dell’umanità possono interrompere il proprio percorso ideale di vita in accordo col proprio dharma. I sei nemici sono: 1) kama, lussuria; 2) lobha, avidità: 3) krodha, rabbia; 4) moha, confusione, 5) mada, ubriacatura e 6) matsarya, gelosia o invidia.



mercoledì 17 novembre 2021

wayang kaca: dipingere su vetro

 
    Non deve sorprendere che in una società così devota all’espressione artistica in ogni sua piega, ci sia un villaggio nel quale si pratichi la pittura su vetro.

    Ho visitato la prima volta Nagasepaha, nel kabupaten di Buleleng, 12 anni fa, quando la tecnica di pittura wayang kaca era già consolidata e tramandata da decenni a due generazioni di suoi discendenti dal precursore I Ketut Negara, meglio conosciuto come Jero Dalang Diah.

    Jero Diah era, negli anni ‘20 del secolo scorso, un apprezzato dalang e intagliatore di marionette quando, nel 1927 Wayan Nitia, un collezionista di wayang kulit, comparve nel suo villaggio portando con sé dal Giappone un dipinto su vetro raffigurante una donna con indosso un kimono. Il visitatore era ansioso di ottenere da Diah un simile dipinto su vetro avente come soggetto la figura di una wayang kulit. A quel punto, la curiosità di Jro Dalang Diah fu stimolata e iniziò a studiare il dipinto su vetro, imparando la tecnica della pittura al contrario (perché il dipinto è visto dal lato non dipinto).

    Negli anni '80 Jero Dalang si era talmente migliorato da poter dipingere sia temi ripresi dalle grandi epopee indù Ramayana e Mahābhārata, in uno stile di disegno chiamato Kamasan. Sia temi nello stile Sukaraya giavanese. Infatti, originata nel XIV secolo nei Paesi Bassi, nel XIX secolo la pratica della pittura su vetro era stata portata a Giava, in particolare nelle corti di Cirebon, Surakarta, Yogyakarta, Demak e Madura, fino a Bengkulu, Palembang, Medan e Aceh a Sumatra. A quel tempo, il vetro era costoso e i dipinti su vetro, la maggior parte dei quali raffiguravano scene del Corano, erano oggetti di lusso riservati ai ricchi.

    Quando conobbi Jero Dalang Diah era seduto in un angolo della sua casa di fronte ad una finestra, vestito di un semplice sarong che metteva in risalto il suo corpo emaciato di ultra novantenne. Appesi al muro c'erano un certo numero di wayang kaca che aveva fatto lui stesso. Parlava a stento ed era aiutato da uno dei suoi nipoti, ai quali, dopo che al figlio I Ketut Sekar, aveva insegnato la nuova tecnica pittorica, rendendo così il villaggio un’icona nel mondo del collezionismo d’arte.

    Il padre tramandò al figlio la propria abilità nel creare wayang kulit, bade (la costruzione in carta e bambù che trasporta il morto per la cremazione) e addobbi per i templi.

    Girando per il villaggio avevo conosciuto sia pak Sekar che un suo figlio, entrambi pittori di wayang kaca. Colpito dalla bravura di pak Sekar gli commissionai un dipinto, poi faticosamente e meticolosamente trasportato in Italia.


    Ma furono i temi sociali, che vidi dipinti su vetri esposti sul pavimento della veranda della scuola elementare, a intrigarmi di più. Quadri come fumetti che parlavano di argomenti quotidiani come l’accesso alle spese mediche e scolastiche, le politiche sociali del governo locale e di quello centrale. Argomenti trattati con arguzia e sarcasmo, le armi dialettiche usate dai balinesi anche durante una rappresentazione di topeng o di wayang kulit: momenti collettivi che sono diventati importanti veicoli di un minimo di critica sociale e politica.

    Qualche tempo fa, la pittura wayang su vetro è stata ufficialmente registrata come patrimonio culturale immateriale indonesiano dal Ministero indonesiano dell'istruzione e della cultura e pak Sekar è stato più volte premiato per la sua arte.

    Qualche settimana fa sono ritornato, dopo molti anni, a Nagasepaha. In un fine mattina assolato e immoto, ho ripercorso la strada che si snoda sul bordo di una collina fino all’abitazione di pak Sekar. Poche persone si aggiravano per le stradine deserte del paese, alcune portando la mascherina d’obbligo. 

    Un pak Sekar ultrasettantenne e sua moglie ci hanno accolto un po’ straniti, stupiti che nel mezzo di tanto sconvolgimento per l’epidemia ci fossero ancora stranieri interessati alla sua arte. C’era nei suoi occhi il desiderio composto che hanno i balinesi versati nell’arte di vendere ciò che creano. E’ uno sguardo che mette malinconia per quel genere di speranza ammantata di rassegnazione che lascia trasparire.

    In un’anticamera polverosa e disordinata ci ha mostrato alcuni suoi quadri e wayang kulit, tolte da una vetrinetta dove riposavano affastellati e inconsapevoli del proprio carattere simbolico. In un canto stavano ammassate pelli di vacchetta, forse in attesa di nuovi ordinativi per marionette che tardano a venire. Forme che chissà in quale futuro getteranno ombre fluttuanti e seducenti su uno schermo ancora tutto da preparare.





lunedì 18 ottobre 2021

I Bali Mula: Bayung Gede e la madre foresta

 


Bayung Gede è un villaggio che racchiude in sé una storia antica e una socialità tra le più originali ed arcaiche tra quelle che abitano l’isola Bali.

Gli storici sono concordi nell’affermare che Bali, in epoca storica e certo prima del IX secolo, fu abitata da società già stratificate ed organizzate, principalmente in alcune aree montane e densamente forestate, nella regione racchiusa dai fiumi Pakrisan e Petanu dove si praticava un’agricoltura irrigata, ed in alcune aree costiere dove il commercio con le isole vicine era particolarmente attivo.

Queste comunità, di tipo Austronesiano, in specie quelle montane che mantenevano scarsi collegamenti con la costa, sono oggi considerate “autoctone” e in possesso di un’organizzazione sociale e religiosa in qualche modo indipendenti da quelle di altri gruppi, pur rientrando nella grande “indianizzazione” dell’Indonesia, probabilmente iniziata gradualmente nei primi secoli dopo Cristo.

Questa indianizzazione si sovrappose, assorbendole, alle credenze specifiche dei Balinesi “autoctoni”, nate dalla ritualizzazione della loro collocazione geografica e legate ai benefici apportati dall’ecosistema originato dal semicerchio di vulcani, e la conseguente abbondanza di pioggia e terreni fertili.

L’organizzazione sociale arrivata con l’induismo si integrò alla religione “animistico-spaziale” locale che vedeva nell’asse montagna/mare (kaja-kelod) e alba/tramonto del sole (kangin-kahu) il fondamento della vita, riflesso nel macrocosmo che gli abitanti avevano creato. Ne emerse una prima forma di induismo, dai tratti arcaici, successivamente riformata, in ultima istanza dall’influenza Majapahit, fino ad assumere le caratteristiche che oggi contraddistinguono gran parte delle comunità religiose isolane.

Solo in alcune aree limitate sopravvivono scampoli di pratiche religiose e organizzazioni sociali che potremmo definire di induismo primitivo, limitate a quelle comunità che anticamente abitavano le zone centrali di Bali.

Una di queste comunità vive a Bayung Gede. Tra i tratti che la distinguono c’è il mito della propria origine, la suddivisione dei compiti nella gestione della collettività e la singolare pratica che a ha che fare con la placenta di un nuovo nato.

Gli abitanti di Bayung Gede credono che i loro antenati abbiano avuto origine dai ceppi degli alberi tagliati, riportati in vita con la tirta kamandalu (che è l'acqua della vita prodotta dal dio Brahma) aspersa da Hanoman, la scimmia bianca, discepolo del dio Betara Bayu (la divinità che governa il vento). Un mito che contiene in nuce l’ecologia umana di un popolo legato alla natura isolana e il messaggio che si deve sempre rispettare l'universo (Bhuana Agung) e la natura come una madre amorevole che partorisce e si prende cura degli esseri umani. Ne deriva una profonda considerazione che la collettività ha per le foreste attorno al villaggio, da cui trae da millenni sostentamento e che è obbligata a preservare.

Stante la loro provenienza dal legno, quando nasce un neonato il suo simbolo, qui detto Catur Sanak, o il “fratellino”, che lo avvolgeva e proteggeva nel grembo materno, deve ritornare al legno. Questa convinzione si manifesta nel rituale di inserire la placenta dentro una noce di cocco e di appenderla ad un albero designato, il pohon bukak (Tabernaemontana macrocarpa ?), che cresce in un’area boschiva protetta, chiamata Setra Ari-ari (il cimitero delle placente).



L’intero processo di sospensione della placenta è piuttosto complicato. Innanzitutto, la placenta deve essere lavata e pulita il più possibile e così la noce di cocco (kau), poi tagliata in due parti. Sul guscio superiore viene tracciato il simbolo Ongkara ().


I famigliari spesso inseriscono nell’involucro vari ingredienti: cenere, anget-anget (coriandolo, mesui, noce moscata e chiodi di garofano) e tengeh (curcuma mescolata a calce). Il guscio viene richiuso, la sutura sigillata con calce e il tutto viene avvolto stretto con legacci fatti di fibre di bambu (salang tabu).

La funzione è fare in modo che il “fratellino” rimanga in un ambiente protetto, fragrante, caldo, e il bambino cresca in modo appropriato.

Il padre del neonato porta la noce di cocco al setra ari-ari che si trova in un bosco a valle del villaggio (in posizione kelod), con un falcetto al fianco (tah).



L’involucro con la placenta viene appeso ad un ramo scelto dell’albero bukak e il padre raccoglie qualche foglia di felce prima di rientrare a casa: una volta appesa fuori della soglia informerà tutti dell’avvenuta nascita e sospensione della placenta. I fiori dell'albero bukak contengono oli essenziali che svolgono un ruolo importante nell'assorbimento dei cattivi odori. Anche le foglie sono utilizzate per avvolgere cose nelle cerimonie Dewa Yadnya e come protezione dei genitali nella preparazione di una salma per la sepoltura.

Questo mito contiene credenze cosmologiche sulla nascita e la morte e sul tema della reincarnazione. L’albero bukak, la foresta, diviene il simbolo della madre niskala di Catur Sanak: ad essa il “fratellino” deve fare ritorno e “reincarnarsi” per completare il ciclo della vita.

mercoledì 28 luglio 2021

Il sulam tumpar tra i Dayak Benuaq del Kalimantan Orientale


Dayak, parola che forse deriva da Dayeuq che in dialetto Benuaq significa “a monte” o “dell’interno”; altri fanno discendere il termine dal dialetto Iban per “umano”. I Benuaq sono il gruppo Dayak più numeroso di questa regione e hanno abbandonato da tempo il nomadismo per vivere nel benua, in senso lato il "territorio". I gruppi che vivono attorno al fiume Ohong si riferiscono a sé come Benuaq Ohookng.


Tanjung Isuy è un insediamento dei Dayak Benuaq sul lago Jempang, cassa di colmata delle piene del grande fiume Mahakam. La longhouse locale, chiamata Lou Taman Jamrud, trasformata in parte in locanda, è gestita dalla figlia del vecchio capo villaggio.



          In un piccolo negozio vende prodotti dell’artigianato Benuaq tra cui questi sulam tumpar. Sono rettangoli di cotone ricamati con colori accesi e motivi che reinterpretano con un’accesa fantasia i disegni e intagli geometrici che abbelliscono tradizionalmente le pareti delle longhouse. 



Oltre a questi si trovano ricami di foglie, polli, uccelli, draghi e orchidee.






venerdì 15 gennaio 2021

la natura della pioggia

    


    Osservare l’acqua che cade, in un giorno di monsone, fa riflettere sulla sua natura e sulla propria.

    La pioggia è mutevole, cambia spesso calibro e sostanza e sembra obbedire ad un impulso casuale.

    Talvolta è compatta, disciplinata nel muoversi all'unisono, solida, granitica, risponde a comandi perentori, ineludibili.

    Altre volte è tenue, lieve come una carezza, un sottile velo di trama finissima nel quale potresti avvolgerti, ti accompagna e ti sostiene ma con leggerezza. .

    A momenti, come per uno sfizio, è svogliata, incostante, capricciosa, capisci che ha qualcosa dentro che la intorpidisce, che la turba. Perde fermezza e in sé trova solo sentimenti volubili.

    Infine, c’è la pazzia e la pioggia perde il lume della ragione; è mossa da personalità contrastanti, si piega, schizza via, ti tradisce con cambi di direzione, ti schiaffeggia adirata, non riesci a prevedere cosa farà. Nella propria sostanza ha individualità che la tirano di qua e di là, senza criterio.

    Questi lunghi giorni di acqua che scende dal cielo mi fanno apprezzare l’ instabile forma che assume la portatrice di vita. Insegna ad incidere nel mondo con diverse modalità, mostrando facce nuove ad ogni nuovo stimolo, ma restando sempre fermi nello scopo ultimo.

    Sembra non finire mai, ma il suo ciclo è un inno all’entropia.

mercoledì 6 gennaio 2021

Il Mahakam: le terre del grande fiume

 

   Un sogno lontano nel tempo, quando fantasticavo di esplorare l’interno del Borneo Indonesiano, il Kalimantan, percorrendo le sue via d’acqua più conosciute, il Kapuas e il Mahakam. Finalmente, dopo la zona del Kapuas Ulu a Occidente, mi decido a partire per la parte orientale, con l’idea di risalire il
Mahakam
fin dove le barche pubbliche arrivano, prima delle grandi rapide.

   Il nastro caffellatte si snoda nella pianura che ha creato nei millenni, si avvolge su se stesso, ricco di anse e giravolte che sembrano tracciate da un artista. Si vedono le cicatrici delle miniere, dei disboscamenti selvaggi e sistematici, che si trasformano in distese verde azzurre di monotone palme disposte in file ordinate a ricoprire migliaia di ettari attorno alle sinuosità dell’acqua. Il Fiume, in maiuscolo perché qui vicino al mare è immenso. Nei pressi di Samarinda si scorgono le file di chiatte che portano il carbone: uno scempio legalizzato.

   Siamo nella grande regione che dal delta arriva fino oltre i laghi, il favoloso Kutai. Il nome deriva da antiche iscrizioni risalenti al IV secolo DC, e narra di uno dei più antichi e potenti regni indù, Kutai Martapura, poi conquistato dai malesi nel XVI secolo e passato sotto i sultani musulmani un secolo dopo col nome Kutai Kartanegara.

    Martin, la mia guida, in realtà si chiama Markin, per gli amici Ikin, viso scuro, aperto e sorridente; mi fa cenni di saluto dalla sua barca, ampia, resa comoda da grandi cuscini e tettoia. Una breve traversata fino a Muara Muntai e mi innamoro del Fiume: la vita su zattere, le gabbie galleggianti col pesce, le cicogne che montano la guardia, la gente che sorride e saluta.

   

  Muara Muntai è un piccolo insediamento di gente Kutai, pescatori e commercianti, con funzione di emporio per una vasta area attorno alle rive del Mahakam e del suo affluente. Bimbi e studenti si muovono in bicicletta, tutti gli altri in motorino, sfrecciando pericolosi sulle strette passerelle di legno ferro che formano le poche strade dell’abitato. Il loro passaggio non è mai silenzioso e talvolta il frastuono è tale da impedire la conversazione.


   L’indomani inizio l’esplorazione della vasta area umida che si trova all’interno di una depressione geologica, estesa per circa 4.000 chilometri quadrati. Rappresenta un’importante “cassa di colmata” delle piene del Fiume che, durante la stagione umida in primavera, può crescere di oltre sei metri.

 Oltre ai tre laghi principali, Danau Jempang, Danau Melintang e Danau Semayang, comprende decine di laghetti secondari, torbiere, paludi d'acqua dolce e la rete degli affluenti. È una delle zone umide più grandi del Kalimantan e fondamentale area di riproduzione e pascolo di centinaia di specie di pesci, uccelli e mammiferi.

   La piccola via d’acqua che porta al lago Jempang si snoda tra campi con bassi cespugli e isolati alti alberi, fino alla piatta prateria che circonda il lago. Ovunque garze, aironi bianchi e cinerini, guarda-buoi, martin pescatori a becco di cicogna.


   Tutto cambia non appena lasciamo lo specchio d’acqua bassa del lago ed entriamo nel piccolo sungai Ohong (Ohookng in dialetto Benuaq). Come separato da un sipario invisibile, si apre un mondo nuovo: una foresta di ditterocarpi, uccelli dalle ali iridescenti sfrecciano sull’acqua, un grosso varano nuota via disturbato, una coppia di grosse aquile appollaiate in alto, sui rami spogli di un albero. Martin blocca di colpo la barca sotto alcuni rami sporgenti e mi indica eccitato un giovane pitone, acciambellato in piena siesta a pochi metri da noi. Poi un piccolo gruppo di scimmie Nasiche (Nasalis larvatus), che un po’ rappresentano la meta “animale” di queste giornate. Il maschio si offre impettito alla macchina fotografica, sguardo vigile, pelliccia folta e fulva, naso importante. Sbuffa, mostra i genitali e se ne va stizzito. Nel pieno di questo orgasmo naturalistico un grosso albero caduto di recente blocca completamente il fiumiciattolo e ci obbliga a tornare indietro per raggiungere il villaggio di Tanjung Isuy attraverso il lago.

   Entriamo così nel territorio Dayak, parola forse derivata da Dayeuq che in dialetto Benuaq significa “a monte” o “dell’interno”; altri fanno discendere il termine dal dialetto Iban per “umano”. I Benuaq sono il gruppo Dayak più numeroso di questa regione e hanno abbandonato da tempo il nomadismo per vivere nel benua, in senso lato il "territorio". I gruppi che vivono attorno al fiume Ohong si riferiscono a sé come Benuaq Ohookng.

    La longhouse locale, chiamata qui lou o rumah lamin, trasformata in parte in locanda, è una buona base per esplorare i dintorni alla ricerca delle longhouse ancora esistenti ed abitate. Delle quattro che raggiungo in moto, guidata da Sur, un taciturno Benuaq, solo una, a Lempunah, è abitata, le altre sono o vuote o mezze diroccate. Quasi tutte, però, hanno le statue lignee che orgogliosamente le comunità dayak hanno scolpito per onorare i loro capi, colti in vari momenti topici della loro vita. Ci sono cacciatori con lancia e cane al seguito, oratori con tanto di microfono, donne che reggono un gallo, volti con lineamenti fantastici e grandi occhi sbarrati, scimmie e serpenti sul capo e poi bimbi che succhiano mammelle cadenti, coccodrilli, diademi, cinghiali zannuti. Una cacofonia di forme tratte dal legno e consegnate al ricordo delle generazioni a venire, la storia scritta a tutto tondo.



   Il viaggio in barca riprende, di nuovo sul lago e poi su per il Boroh, tributario del Fiume. Anche qui la foresta è magnifica e lussureggiante, enormi tronchi sommersi, radici aeree che si inabissano con un folto pennacchio scuro. Per lunghi tratti il fiume è come racchiuso in un tunnel verde, popolato di pescatori, aironi, martin pescatori blu elettrico e tante Nasiche.

   A poco a poco la foresta cede spazio alla presenza umana: capanni galleggianti con bilance da pesca, nasse riposte in file ordinate, tronchi segati di fresco, baracche con canoe legate davanti. Infine si sbuca sul corso principale del Mahakam, a Muara Pahu. Martin da gas e in velocità superiamo tratti di foresta e stazioni di carico del carbone, con le gru simili a enormi brontosauri col lungo collo proteso sulla chiatta, a vomitare carbone in un flusso nero quasi liquido.

   Melak, il nostro approdo, è in sostanza il porto fluviale di Sendawar, la capitale del Kutai Occidentale. Una cittadina nata sulle miniere di carbone e cresciuta grazie ai commerci fluviali. Mostra , con le sgradevoli statue di cemento al centro dei larghi incroci stradali, il peggio dell’abbellimento kitsch di una municipalità arricchita, simbolo di un popolo rapito da una cultura aliena, dal profitto ad ogni costo, che sottrae, oltre a terra e foreste, anche identità e dignità.

   Qui nel Kutai Occidentale, si percepiscono i Dayak come marginali, sommersi e contenuti dai musulmani che occupano ogni strato sociale. Anche il cibo è quello onnipresente proprio dell’Indonesia musulmana.

   Decido di non fermarmi e proseguire in moto verso Nord, passando per due rumah lamin dei Dayak Benuaq lungo la strada (Bunung e Eheng). Sono entrambe isolate e tristi, poco abitate e mal tenute, e mi sembrano il simbolo di popolo ormai stanco delle proprie radici. 

    In una due ragazzi, intenti a perdersi nel loro telefonino, rispondono apatici e svogliati alle mie domande e, alla fine, mi fanno entrare. Nell’altra, segnata da alcune belle statue, chiedo il permesso ad un anziano, pak Sius, intento ad assemblare una corta spada tribale, un mandau. Mi siedo con lui e il discorso cade sulla morte recente della moglie. Con gli occhi lucidi mi racconta del funerale, del bufalo sacrificato e della sua solitudine. Non gli rimane che realizzare oggetti per i turisti, mandau, portachiavi con zanne di cinghiale. Le longhouse hanno entrambe belle statue che decorano la facciata: assieme agli edifici ora cadenti, sono la narrazione visibile di un passato lontano, di un presente che porta solo i segni del tempo, scheggiato e diroccato.



   Con una corsa in moto paurosamente veloce, tra ripide colline e piantagioni di palma da olio, arrivo fino a Tering, il porto fluviale da cui salperò ancora più a monte.

   L'indomani è domenica e, nelle terre dei cristiani Dayak, salgo sulla prima barca e mi faccio portare a Laham, dove dicono ci sia una chiesa “antica”. Sperimento così il moderno viaggiare sul Fiume, con questi barchini a panche contrapposte, chiamati speed, spinti da fuoribordo potentissimi, che planano sull’acqua portando dieci passeggeri e bagagli in un lampo, fino su alle grandi rapide. Sono come autobus, si fermano ovunque li chiami e ti sbarcano ovunque ci sia una qualche forma di approdo.

   Mi presento davanti alla chiesa tra gli sguardi attoniti degli abitanti. Un edificio in legno come tanti ma con un bel portone e due colonne lignee a sostenere la veranda, il tutto intagliato con figure di missionari e gesucristi attorniati dai ghirigori e maschere tribali, affinché la nuova religione venga accettata dalla vecchia. La chiesa del Sacro Cuore di Gesù fu fondata da tre missionari olandesi, approdati a Laham nel 1926.

   Il parroco, un pingue giovanotto di Larantuka, all’estremo orientale di Flores, si presenta fumando e con grossa croce al collo. Dopo un caffè, portato dalla perpetua, e varie banalità su vocazioni in calo, giovani che non vanno a messa, notizie dal Vaticano, mi affida all’obesità foruncolosa di un fedele che mi accompagna in moto a fare un giro del villaggio, fino alla rumah lamin.

   Questa possiede ancora belle colonne intagliate e inglobate in una struttura ora adibita a magazzino di nuovi cassonetti per l'immondizia. Almeno qui, piccola comunità persa lungo l’acqua sporca e inquinata del Fiume, si inizia una raccolta di spazzatura casa per casa, con tanto di “Ape” dedicato.

   Ecomunque un passo avanti rispetto alla pratica comune, lungo il Mahakam, di gettare tutto per terra o nel fiume. Tra l’altro, tutti si lavano nelle sue acque, dove anche defecano e attingono per gli usi idrici di case, locande e negozi.


   La rumah lamin successiva, chiamata pomposamente Lamin Adat Dikut Amin Hyuq Puhuq Kayan e recentemente ricostruita, rappresenta la conferma istituzionale della svolta “pubblica” dei Dayak MakUl (Mahakam Ulu, la parte “a monte” del Fiume), che testimonia e certifica il cambio d’uso delle longhouse nel solco della tradizione, si direbbe ora.

   Salgo sulla prima speed che passa e arrivo in due ore a Long Bagun. In questo lungo tratto il fiume cambia, si restringe, si infila tra basse colline che talvolta si trasformano in stretti canyon dalle pareti verticali di pietra grigia. Siamo nella regione a monte, Ulu, in contrapposizione ad Ilir, a valle.

   Long Bagun è una comunità a molte facce, come altre che ho incontrato lungo il Fiume, nella quale convivono Bugis, Melayu, Kutai e naturalmente Dayak, che qui sono Bahau. Decido di fermarmi qualche giorno, giusto il tempo per respirare l’aria di frontiera e visitare alcune delle rumah lamin ancora esistenti.Sulla stradina principale si trova anche la prima longhouse, vecchia e disabitata, trasformata in edificio pubblico e cerimoniale, con i primi veri disegni simbolici tribali che ne adornano la facciata: coccodrilli fantastici e volti demoniaci, immersi negli artistici ghirigori Dayak, risaltano bianchi sul legno scuro.

   Una breve camminata verso sud mi porta a varcare un arco un po’ cadente che porta al quartiere Bahau: casette povere ma ben tenute attorno alla rumah lamin Dayon Urun. Anche questa vecchia e mal tenuta, abitata da poche famiglie che hanno costruito annessi e dependance al corpo principale.

   Il giro in moto attorno a Long Bagun conferma quanto visto finora: i Dayak (oltre ai Kayan e i Bahau, anche i Kenyah del villaggio vicino di Ujoh Bilang) hanno abbandonato la residenza comune nella longhouse e si sono trasferiti in casette monofamiliari. Il grande edificio, così ricco di significati per la comunità, di miti, depositario di regole ancestrali è stato riconvertito in spazio per cerimonie tradizionali e assemblee pubbliche. Talvolta, se arrivano sufficienti fondi governativi, la rumah lamin viene ristrutturata o ricostruita, riportando a nuovo splendore statue e colonne finemente intagliate, intricati ed inquietanti disegni ornamentali e lucidi pavimenti in legno-ferro.

   E mi sembra che proprio qui, nel recupero ossessivo delle colonne portanti, con i loro intagli geometrici, antropomorfi e fortemente evocativi, con i loro spiriti intrisi nel legno, risieda la conservazione del forte legame con gli antenati, con la foresta, con la terra. L’edificio può cambiare, rinnovarsi, non essere abitato da viventi, ma conserva il suo essere luogo sacro, atavico, necessario alla comunità Dayak per richiamare l’insegnamento dei progenitori in occasione di funerali, matrimoni, nascite, riti sciamanici. E perché no, guardare al presente e vivere la rumah lamin come luogo dove far politica, parlare dei problemi della comunità, discutere delle prossime elezioni.

   Tornato verso sud, verso ilir, l’incontro con alcuni biologi che si occupano di preservare i delfini d’acqua dolce mi fa decidere per un’altra giornata passata sul Fiume, con la ferma intenzione di incontrarli. E ritrovo in Martin il complice perfetto per queste ultime ore dedicate al Mahakam ed ai suoi figli più segreti e timidi.

   E una lunga mattinata in barca, prima attraverso gli ampi specchi d’acqua dei laghi Melintang e Semayang: acque basse, alcuni pescatori che gettano il rezzaglio, altri che pescano con grandi reti triangolari, cormorani in equilibrio su pali, ali stese al primo sole, gabbiani immobili su reti da pesca tese sull’acqua, i coni metallici di una moschea che brillano in lontananza.

   Poi, sbucati nel corso principale del Fiume, una lenta crociera avanti e indietro tra le confluenze col sungai Siran e col sungai Pela. Brevi risalite di questi affluenti e soste trepidanti al centro della muara, la confluenza, occhi incollati al binocolo a scrutare ogni increspatura dell’acqua, ogni tronco galleggiante o mazzo intricato di foglie strappate agli argini fangosi.


   Ma gli abitanti subacquei del Fiume restano celati, non si svelano. Si nascondono dietro la promessa, che leggo tra le increspature della corrente e gli ammassi galleggianti di gelsomino d’acqua, di concedermi un incontro quando tornerò qui.

   Si comportano come i molti abitanti di questo incantevole e sterminato arcipelago quando li ho incrociati nel mio camminare: chiedono invariabilmente quando ritornerai, perché qui, in Indonesia, un incontro non ha mai fine.