Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

martedì 29 novembre 2011

Gli odori della morte

Sono cento gli odori della morte.
Mi avvolgono mentre assisto alle ultime ore terrene di I Gede Mastera.
Proprietario terriero, viaggiatore, conosciuto funzionario pubblico di alto livello. Caro amico e mentore di cari amici.

E’ il momento della  lavanda corporale e mi rendo conto che a Bali la morte ha cento odori.

L’esalazione soffocante del fumo di braci di cocco, usato per purificare l’aria attorno al catafalco.
Il sentore fragrante di nuovo che hanno i sarong e gli asciugamani che sono avvolti attorno al corpo. L’effluvio pungente delle erbe e spezie sparse sopra la salma e le sue vesti.
Il tanfo greve delle sigarette ai chiodi di garofano, accese per calmare il nervosismo e darsi un contegno.
La puzza acre del formolo che preserva le carni durante l’esposizione al saluto e al pianto.
Il lezzo di sudore degli uomini che, vocianti e con una fretta studiata, spostano la salma dal letto e la tengono sollevata durante la vestizione.
Il tenue profumo del fiore di cempaka, agitato dal pemangku nel gesto lieve che benedice.
L’umido afrore della nebbia che accompagna la sera giù dalle pendici del vulcano Batukaru, e avvolge con lembi di pioggia il dolore dei parenti e la presenza attonita degli amici.

A Bali la morte ha un odore, quello delle foglie bagnate dal monsone.

lunedì 28 novembre 2011

Mbaru Niang, un’architettura geniale


La Mbaru Niang, la casa tradizionale dei Manggarai di Wae Rebo, ha forma conica con l’apice del tetto arrotondato e abbellito da cuspidi e corna di bufalo poggianti su spire di fibre di palma intrecciate. Ha in genere un’altezza di 15 m e un diametro al suolo di 15 m. L’alto spazio interno è suddiviso in cinque piani, diversi per funzione e tipologia costruttiva. Blasius, col quale condivido la colazione in questa limpida mattina di novembre, mi guida in una breve descrizione delle parti della casa.

Il piano più basso, che si eleva a circa un metro da terra, chiamato lutur, accoglie fino a otto famiglie che si distribuiscono lungo la corona circolare, suddivisa in vari compartimenti da semplici tavole di legno e tende colorate.  Altre zone della corona restano aperte, con pagliericci dove dormono i famigliari non sposati. Lo spazio centrale è organizzato in zone comuni e cucina, ricavata sopra un’area quadrata di terra battuta, che fa da isolante, su cui sono infisse basse pietre usate per sorreggere le pentole. La riserva di legno da ardere è accatastata su una piccola piattaforma appesa sopra lo spazio dei fuochi. La Mbaru Gendang, la Casa dei Tamburi, è più larga delle altre alla base perché conserva gli strumenti musicali, gong e tamburi di varie forme e dimensioni, usati nelle cerimonie, come i cori notturni cantati ininterrottamente in occasione della Penti.

Il secondo piano, detto lobo, funziona da granaio per il consumo quotidiano. Il terzo, lentar, ospita semi e germogli per il nuovo raccolto. Nel quarto livello, lempa rae, si ammassano le riserve alimentari per fronteggiare raccolti andati male o siccità. Sul piano più alto, il quinto o hekang kode, sono conservati i paramenti ed attrezzi per le cerimonie.

Ma lo scopo principale dei cinque piani è di tenere assieme una struttura che ha linee architettoniche e tecniche costruttive sorprendentemente semplici e funzionali. Grande com’è la casa, senza i piani interni, ruoterebbe su se stessa accartocciandosi sotto la forza dei venti che s’incanalano tra questi monti, o dei terremoti così frequenti. La tipologia costruttiva ha la purezza del sapere antico (un anziano mi dice che il villaggio è stato fondato mille anni fa). Linee morbide, essenziali, legni della foresta piegati ad amalgamarsi in una struttura che non trova eguali in tutta l’Indonesia. I due piani più bassi sono rivestiti di assi e travi ben squadrate e levigate, pesanti, di legni (il kayu worok e il kayu moak) molto resistenti e duraturi. Abbassano il baricentro e ancorano al terreno la grande “capanna”.

 I nove pali centrali principali penetrano per un metro e mezzo nella scura terra della radura. La parte sotterranea è avvolta, innovazione recente, in fogli di plastica e fibre di palma intrecciate a proteggerla dai danni derivanti dall’acqua. I restanti tre piani sono graticci di grossi rami di kayu kenti, un legno più flessibile, collegati tra loro da un intreccio di diramazioni inclinate. Conferiscono elasticità alla parte superiore della struttura e, nel contempo, leggerezza oltre a scaricare il peso del tetto in modo uniforme.

Il raccordo tra i piani ed i correnti verticali di bambù, che sorreggono il tetto di foglie di alang-alang e fibre di palma, è fornito da un fascio circolare di rami sottili di kayu kenti. Ognuno dei cinque piani poggia la propria circonferenza su uno di questi anelli, flessibili, elastici, a loro volta legati ai correnti di bambù del tetto da fibre di rattan. Gli anelli tengono il tetto “aperto” e ne mantengono la forma conica.

Gli anziani tramandano oralmente le istruzioni per costruire queste abitazioni che vivono e riaffermano così il saldo rapporto di interdipendenza con la terra e la foresta, madre e padre di questo popolo dei monti.


Le case sotto le stelle



Una fila di uomini, camicia candida, sarong neri con ricami multicolori, si snoda sul sentiero. Scendono dalla montagna, seri, sciarpe gialle o rosse attorno al collo. Mi vedono, sotto l’arco di foglie intrecciate che segna l’ingresso al villaggio e, uno dopo l’altro, s’avvicinano e mi stringono a mano in segno di benvenuto, presentandosi. Tutti. Poi rimangono lì, attorno a me, in attesa di qualcosa che non capisco. E’ un benvenuto speciale. Un’emozione inattesa, dopo l’ascesa così faticosa. La stanchezza viene presto dimenticata, svanisce sotto l’eccitazione, la curiosità reciproca. Racconto in breve la mia storia al primo che si è avvicinato e subito la voce si sparge. Tutti, in pochi momenti, sanno il mio nome e da dove vengo, della lettera che porto con me, mandata dalla loro Catherine, enu Kata la loro figlia adottiva che vive a Londra.

E’ una sorta di passaporto che mi apre le porte della comunità di Wae Rebo, un villaggio annidato tra le montagne di Todo Repok nel Manggarai occidentale, la regione più ad ovest dell’isola di Flores, ancorato alle tradizioni del culto degli antenati e dell’animismo millenario. Il cattolicesimo, introdotto secoli fa dai primi colonizzatori portoghesi, convive con i riti animistici, mantenuto entro confini ben precisi dai fieri abitanti del villaggio.

Il gruppo di uomini ora si muove lentamente e, cantando, scende verso il paese. Le sette case, o Mbaru Niang, disposte ad arco attorno ad una radura, accolgono gli uomini come in un abbraccio. Il coro maschile risponde con bassi vocalizzi alla chiamata della voce solista. I piedi percuotono il suolo, lo svegliano, lo incitano a prendere nuove semenze, nuovi germogli. Gli uomini ondeggiano all'unisono. Si muovono compatti verso la Mbaru Gendang, la Casa dei Tamburi. Sulla piattaforma di pietra circolare, antistante la grande capanna, ha luogo il sacrificio principale. Gli antenati, invocati a favorire il buon esito del trapianto dei nuovi germogli di riso e altri vegetali, vengono ingraziati con l’offerta di sangue animale. In mattinata il sangue è quello tratto dalle carni dei giovani del villaggio che, durante il Caci, una singolare sfida a colpi di frusta di rattan, affermano in modo rituale la competizione coi villaggi vicini. A fine giornata il sangue è quello delle giugulari di polli e maialini inconsapevoli. Nati per il sacrificio, danno carne e sangue a eternare la buona sorte della comunità dei Manggarai.

Ora, davanti alla grande casa, si forma un circolo di figure ondeggianti che intrattengono gli antenati col loro lento danzare, mentre lì vicino si spicca il sangue e si cercano vaticini nelle interiora. Il maestro di cerimonie, il Tu’a Gendang, e il capo villaggio, il Tu’a Golo, accompagna il gruppo dentro la casa, per la discussione collettiva. C’è una coreografia da gospel, i movimenti sincronizzati, misurati, sottolineati dalle lunghe vocali strisciate del coro. Al centro un singolo solista che dirige danza e canto. Le basse vibrazioni corrono tra una capanna e l’altra. Cani, gatti e bambini ascoltano rapiti. I giovani, vestiti in modo ordinario, lanciano sguardi annoiati e commentano con battutine l’esibizione dei loro padri, ma non possono fare a meno di unirsi al coro, di tanto in tanto. Le donne s’affacciano appena dalle basse porte in legno. Osservano un po’ discoste da sotto i tetti di alang-alang, escluse da questi momenti della cerimonia.

Le case, viste da vicino, s’alzano alte sulla spianata. Sette forme incappucciate, austere, immote, dal profilo antico, vegliano sui riti e sulle loro genti. Attorno incombono le cime dei monti, e la foresta invia i sui suoni ad unirsi al canto.

Negli orti attorno al villaggio si coltivano caffè, granturco, manioca, patate dolci, marquisa, vaniglia. I germogli di cannella sono trapiantati dal folto della foresta fino ai suoi margini. Così la giungla rimane pressoché intatta. Nella selva è raccolto anche il rattan da cui si ricavano fibre che le donne intrecciano in larghe ceste da “testa” con motivi bianchi e neri. Tre dei cinque piani interni alle Mbaru Niang sono destinati alla conservazione di questi prodotti, in attesa del consumo o della vendita ai mercati dei villaggi vicini.

Cala la notte e le stelle, mai così vivide, coprono la radura con un manto che s’appoggia lieve sulle spalle delle grandi abitazioni. D’improvviso mi accorgo che il nero dei sarong, i lipa songkè, tessuti dalle donne e ricamati con piccoli asterischi multicolori, non è altro che il tributo alla nera coperta del cielo notturno. Materializza il bisogno di sentire sempre su di sé, attraverso il caldo abbraccio del tessuto stellato, la presenza rassicurante e nitida di un tetto ricolmo di astri.

Con questa nuova comprensione mi aggiro tra figure avvolte dal fulgore delle stelle e mi fermo ad ascoltare il canto notturno ininterrotto che si alza limpido dalla “casa dei tamburi”. Il gruppo di sei uomini si scambia rime improvvisate e ne sottolinea i significati con accelerazioni del ritmo dei tamburi, addensato dal coro di toni bassi e lenti.
E’ la voce dei miei sogni in questa lunga notte a Wae Rebo.


martedì 8 novembre 2011

Tumpek Wayang, la danza



Tump. Tonc. I colpi sordi del kulkul segnano il tempo. Un movimento percorre la folla, come un brivido di freddo la pelle. I musici, giacca color mattone su sarong dai disegni dorati, si avvicinano al gamelan e prendono posto. Bambini e donne, per primi, si cercano i posti migliori attorno allo spiazzo, il centro dell’azione. Altari riccamente addobbati, carichi di vassoi, foglie intagliate, frutta e fiori, sono le quinte della scena.
Tump, to-tomp. Tump, to-tomp il ritmo si evolve in un battito cardiaco. s’inserisce un sincopato di cembali, che accompagna la marcia di un piccolo corteo in entrata nel recito del banjar.
I famigli s’affrettano a terminare, con gli ultimi accessori coloratissimi, la vestizione dei fanciulli che s’incarneranno di lì a poco nella danza.
I gong lasciano fluire un preludio di note a cascata. Il pemangku colloca le ultime offerte davanti all’effige del dio. Il dalang muove di qualche centimetro la cassa di legno che contiene le marionette.
Alcune donne spostano in fretta i simulacri degli dei da un altare all’altro, da cui avranno, forse, miglior visuale delle danze e potranno apprezzare la perizia dei danzatori che li incarnano.
Entra, appoggiandosi solenne ad un nero bastone, un pedanda. La sua alta casta si vede dal chignon che intreccia i lunghi capelli e dal seguito di aiutanti che portano orpelli ed attrezzi per la funzione.

Occhi di bimbe, azzurri di ombretto, guardano spalancati la folla. Il bambino, che il padre sta vestendo da stregone, indossa un kriss di traverso sulle spalle, e buffi guanti bianchi artigliati.
Il dalang si accomoda dietro il tronco di banano e la musica incendia il momento a colpi di gong.

Ora uno scrosciare di scale ritmiche accompagna l’entrata in scena della prima maschera. E’ il fanciullo stregone, faccia rossa e occhi sporgenti, fissi, ipnotici, denti scoperti in un ghigno, lunghi capelli neri sciolti sulle spalle, a coprire gli strati di stoffe colorate che si agitano nelle piroette. Stacco perfetto dei cembali sulle mani bloccate, gli artigli minacciosi e frementi. Ha un passo imperioso, si erge sulle punte dei piedi, mani e braccia allargate, unghie lunghe rivolte alla folla. E’ altero, talvolta incerto, mostra più dei suoi pochi anni, la danza lo trasfigura, accompagna questo intermezzo da adulto in una vita di fanciullo.

Entra la seconda maschera. Si muove lenta, sinuosa, volto pallido, sorriso lieve incorniciato da stretti baffetti neri. E’ ammiccante, cerca l’attenzione degli spettatori con giravolte, movimenti delle spalle, inchini. Al suono dei flauti gioca coi bimbi. Poi dialoga col tamburo, ritmando mani e piedi all’unisono, strappando risate e applausi. D’improvviso accelera in movimenti più rapidi, che fanno vibrare le mani artigliate. Un ultimo volteggio ed esce.

Un gruppo di bambine, fasciate strette con sarong dorati e bianchi, i capelli neri racchiusi in un’alta tiara di foglie di palma intrecciate a gialli fiori di tagete, si porta sulla scena. Volti seri, impegnati in un coordinamento di movimenti che è ancora solo intenzione, braccia esili sollevano il lembo del costume, che accentua la movenza del corpo piegato ad esse. Densi fumi d’incenso s’intrecciano ai giovani corpi. La musica si fa veloce e urgente.
Intorno ancora incensi accesi, ancora benedizioni, donne in fila indiana che muovono offerte, vassoi pieni di cibo, polli allo spiedo, frutta.
In mezzo a questa cacofonia c’è un luogo di calma. E’ la bassa piattaforma dove il dalang, accosciato, libera dalla scatola le sue effigi piatte e colorate. Le marionette devono essere antiche, perché hanno contorni bruniti dal fumo di mille lampade ad olio e colori sbiaditi dalle cento storie narrate, passando da una mano all’altra, strusciate sulla tela bianca, e rapidamente infisse, in attesa, sul tronco di banano messo di traverso. Quante volte hanno rapito gli sguardi, hanno colpito l’immaginazione con le loro voci, , una diversa dall’altra, perfettamente imitate dal dalang.

Il rajah, mascherato, si prende d’impeto la scena. Lo scroscio di musica lo annuncia quando, ancora seduto, mani nude, attira gli sguardi sui brevi ma imperiosi scatti delle braccia. Avanza solenne ma cauto, poi sembra prender possesso del momento e i passi si fanno più decisi, le mani sollevano il drappo che cinge i fianchi, il mento si leva in alto, lo sguardo fiero si posa appena un momento sul simulacro del dio, Sanghyang Batara. La sua effige si limita ad un ventaglio di foglie di palma colorate sopra una striscia di fiori ocra di tagete, su cui una mano devota ha inserito una svastica sacra di fiori viola.

La danza si chiude in fretta, gli ultimi personaggi sono quasi sommersi dal frusciare dei sarong che spostano  le volute di incenso e i fiori rimasti dalle preghiere collettive. Il dalang ripone con sollecitudine i suoi personaggi nella cassa lignea, gli attori si tolgono in un attimo maschere e trucchi, tanto faticosamente indossati prima e bevono un sorso d’acqua. La gente sciama via, attraverso la spianata ricoperta di fiori.
Il sole rimanda in cielo i colori del tramonto che pennellano il cemento d’un tenue rosa antico. Tutti via, a dividersi  quanto di buono è stato offerto agli dei e ritornato, apparentemente, gradito.


domenica 6 novembre 2011

Tumpek Wayang, il banjar fa festa




Mai come questo giorno ho capito il significato vero della cerimonia balinese. Il senso che i balinesi danno al ritrovarsi così spesso, riuniti nei luoghi comuni del banjar, la loro parrocchia, o del tempio, a celebrare una ricorrenza.
E’ il puro piacere di incontrarsi, di sedersi uno accanto all’altra, di compiacersi in pubblico dei propri figli, mostrare a tutti il nuovo sarong, ancheggiare davanti ai ragazzi fino a sedersi proprio là in fondo, commentare a bassa voce le movenze di quel danzatore. Ridere ed applaudire le proprie figlie impegnate, ma non troppo, in una danza collettiva. Vestire con lentezza e serietà il bambino che aprirà, in un assolo, le celebrazioni; agghindato da sembrare più grande dei suoi 8 anni, si trasfigura nella danza, aiutato dalla leggera trance che ispira ogni maschera, topeng, indossata da un balinese davanti agli dei.

Naturalmente il tutto è permeato dalla sostanza religiosa, che fa danzare, pregare, ridere e scherzare, muovere le marionette e suonare uno strumento per onorare il dio. Che guarda tutti dalle sue effigi, a sua volta quasi delle marionette di foglia di palma, rivestite d’arancio e viola.

Oggi ho capito che l’osservanza religiosa è la regola data al forte bisogno comunitario che hanno gli abitanti di questa isola. Si stringono assieme per semplice bisogno di contatto sociale, e il cemento è il ringraziamento agli dei per ciò che hanno.

La genialità che rende questa società così affascinante è che la forma della celebrazione trascende la sostanza e l’estetica vince sul canone religioso. Dalle mura, portali, torri fiorite dei templi, dove la pietra viene piegata fino a rincorrere la fantasia dei muratori-scultori, si arriva alle maschere colorate intagliate nel legno dolce, ai costumi e manti cuciti di arcobaleni e ori, ai volti disegnati dal belletto, ai sarong fioriti di raso e seta, ai vassoi carichi di tinte pastello, ai drappi, ghirlande, disegni, intagli dorati degli strumenti musicali. Perfino il fiore tenuto sopra la testa a mani giunte, lievemente ondeggianti al tintinnio limpido della campanella, perfino questo gesto è pura estetica. Tanto che è ripetuto più volte, variando il fiore, la foglia piegata, l’intreccio di rametti. Il piacere assoluto per il bello trasforma il dettato religioso in una immensa rappresentazione, una scenografia grande come l’isola, una tela di un artista sublime che rende ogni tratto di vita un’arte.

Qui, oggi, la socialità è prorompente e l’agitazione è massima. La piazza erompe di movimenti erratici, di grida, lazzi, facce serie, suoni, odori pungenti di incensi e fiori, sudore, cani, pianti di neonati. Su tutto, come uno scroscio di piaggia, la musica dei gong e dei timpani risuona fortissima, sovrasta e cementa ogni cosa, sottolinea gli slanci del ballerino, gli scatti del capo, il roteare degli occhi, il tremito delle mani artigliate.

La coreografia si sfilaccia presto dal programma rigido e si perde in una cacofonia. I ballerini sono in ritardo o forse i sacerdoti percorrono la folla in anticipo, aspergendo acqua santa a tutti. Il personaggio del vecchio viene frettolosamente fatto rientrare per dar spazio alla serie di preghiere. Ora c’è chi danza e si agita, anziché in un palcoscenico vuoto davanti a volti rapiti, in mezzo a gente che cammina, donne che ritirano mezzi polli arrostiti dai vassoi votivi, bambini che corrono, cani che si spulciano, getti di acqua sacra, fiori che volteggiano in improvvisi turbini di vento.
D’improvviso tutto si calma e il lento suono dei flauti sottolinea le ultime battute delle due maschere ancora in scena. Attorno, finalmente, il rispetto per la fatica degli artisti, che declamano nel silenzio. Ma l’impazienza ha il sopravvento e gli applausi poco convinti sono presto dimenticati dalla folla che si muove per tornare a casa.

Ritirandosi, questa marea umana meravigliosamente anarchica, lascia un selciato ricoperto di fiori di chempaka, frangipani e buganvillea, immersi nei bagliori dolci di un tramonto rosa e porpora.