Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

martedì 8 novembre 2011

Tumpek Wayang, la danza



Tump. Tonc. I colpi sordi del kulkul segnano il tempo. Un movimento percorre la folla, come un brivido di freddo la pelle. I musici, giacca color mattone su sarong dai disegni dorati, si avvicinano al gamelan e prendono posto. Bambini e donne, per primi, si cercano i posti migliori attorno allo spiazzo, il centro dell’azione. Altari riccamente addobbati, carichi di vassoi, foglie intagliate, frutta e fiori, sono le quinte della scena.
Tump, to-tomp. Tump, to-tomp il ritmo si evolve in un battito cardiaco. s’inserisce un sincopato di cembali, che accompagna la marcia di un piccolo corteo in entrata nel recito del banjar.
I famigli s’affrettano a terminare, con gli ultimi accessori coloratissimi, la vestizione dei fanciulli che s’incarneranno di lì a poco nella danza.
I gong lasciano fluire un preludio di note a cascata. Il pemangku colloca le ultime offerte davanti all’effige del dio. Il dalang muove di qualche centimetro la cassa di legno che contiene le marionette.
Alcune donne spostano in fretta i simulacri degli dei da un altare all’altro, da cui avranno, forse, miglior visuale delle danze e potranno apprezzare la perizia dei danzatori che li incarnano.
Entra, appoggiandosi solenne ad un nero bastone, un pedanda. La sua alta casta si vede dal chignon che intreccia i lunghi capelli e dal seguito di aiutanti che portano orpelli ed attrezzi per la funzione.

Occhi di bimbe, azzurri di ombretto, guardano spalancati la folla. Il bambino, che il padre sta vestendo da stregone, indossa un kriss di traverso sulle spalle, e buffi guanti bianchi artigliati.
Il dalang si accomoda dietro il tronco di banano e la musica incendia il momento a colpi di gong.

Ora uno scrosciare di scale ritmiche accompagna l’entrata in scena della prima maschera. E’ il fanciullo stregone, faccia rossa e occhi sporgenti, fissi, ipnotici, denti scoperti in un ghigno, lunghi capelli neri sciolti sulle spalle, a coprire gli strati di stoffe colorate che si agitano nelle piroette. Stacco perfetto dei cembali sulle mani bloccate, gli artigli minacciosi e frementi. Ha un passo imperioso, si erge sulle punte dei piedi, mani e braccia allargate, unghie lunghe rivolte alla folla. E’ altero, talvolta incerto, mostra più dei suoi pochi anni, la danza lo trasfigura, accompagna questo intermezzo da adulto in una vita di fanciullo.

Entra la seconda maschera. Si muove lenta, sinuosa, volto pallido, sorriso lieve incorniciato da stretti baffetti neri. E’ ammiccante, cerca l’attenzione degli spettatori con giravolte, movimenti delle spalle, inchini. Al suono dei flauti gioca coi bimbi. Poi dialoga col tamburo, ritmando mani e piedi all’unisono, strappando risate e applausi. D’improvviso accelera in movimenti più rapidi, che fanno vibrare le mani artigliate. Un ultimo volteggio ed esce.

Un gruppo di bambine, fasciate strette con sarong dorati e bianchi, i capelli neri racchiusi in un’alta tiara di foglie di palma intrecciate a gialli fiori di tagete, si porta sulla scena. Volti seri, impegnati in un coordinamento di movimenti che è ancora solo intenzione, braccia esili sollevano il lembo del costume, che accentua la movenza del corpo piegato ad esse. Densi fumi d’incenso s’intrecciano ai giovani corpi. La musica si fa veloce e urgente.
Intorno ancora incensi accesi, ancora benedizioni, donne in fila indiana che muovono offerte, vassoi pieni di cibo, polli allo spiedo, frutta.
In mezzo a questa cacofonia c’è un luogo di calma. E’ la bassa piattaforma dove il dalang, accosciato, libera dalla scatola le sue effigi piatte e colorate. Le marionette devono essere antiche, perché hanno contorni bruniti dal fumo di mille lampade ad olio e colori sbiaditi dalle cento storie narrate, passando da una mano all’altra, strusciate sulla tela bianca, e rapidamente infisse, in attesa, sul tronco di banano messo di traverso. Quante volte hanno rapito gli sguardi, hanno colpito l’immaginazione con le loro voci, , una diversa dall’altra, perfettamente imitate dal dalang.

Il rajah, mascherato, si prende d’impeto la scena. Lo scroscio di musica lo annuncia quando, ancora seduto, mani nude, attira gli sguardi sui brevi ma imperiosi scatti delle braccia. Avanza solenne ma cauto, poi sembra prender possesso del momento e i passi si fanno più decisi, le mani sollevano il drappo che cinge i fianchi, il mento si leva in alto, lo sguardo fiero si posa appena un momento sul simulacro del dio, Sanghyang Batara. La sua effige si limita ad un ventaglio di foglie di palma colorate sopra una striscia di fiori ocra di tagete, su cui una mano devota ha inserito una svastica sacra di fiori viola.

La danza si chiude in fretta, gli ultimi personaggi sono quasi sommersi dal frusciare dei sarong che spostano  le volute di incenso e i fiori rimasti dalle preghiere collettive. Il dalang ripone con sollecitudine i suoi personaggi nella cassa lignea, gli attori si tolgono in un attimo maschere e trucchi, tanto faticosamente indossati prima e bevono un sorso d’acqua. La gente sciama via, attraverso la spianata ricoperta di fiori.
Il sole rimanda in cielo i colori del tramonto che pennellano il cemento d’un tenue rosa antico. Tutti via, a dividersi  quanto di buono è stato offerto agli dei e ritornato, apparentemente, gradito.


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