Tump. Tonc. I colpi sordi del kulkul segnano il tempo. Un movimento percorre la folla, come un
brivido di freddo la pelle. I musici, giacca color mattone su sarong dai
disegni dorati, si avvicinano al gamelan
e prendono posto. Bambini e donne, per primi, si cercano i posti migliori
attorno allo spiazzo, il centro dell’azione. Altari riccamente addobbati,
carichi di vassoi, foglie intagliate, frutta e fiori, sono le quinte della
scena.
Tump, to-tomp. Tump, to-tomp il ritmo si evolve in un
battito cardiaco. s’inserisce un sincopato di cembali, che accompagna la marcia
di un piccolo corteo in entrata nel recito del banjar.
I famigli s’affrettano a terminare, con gli ultimi accessori
coloratissimi, la vestizione dei fanciulli che s’incarneranno di lì a poco
nella danza.
I gong lasciano fluire un preludio di note a cascata. Il pemangku colloca le ultime offerte
davanti all’effige del dio. Il dalang
muove di qualche centimetro la cassa di legno che contiene le marionette.
Alcune donne spostano in fretta i simulacri degli dei da un
altare all’altro, da cui avranno, forse, miglior visuale delle danze e potranno
apprezzare la perizia dei danzatori che li incarnano.
Entra, appoggiandosi solenne ad un nero bastone, un pedanda. La sua alta casta si vede dal
chignon che intreccia i lunghi capelli e dal seguito di aiutanti che portano
orpelli ed attrezzi per la funzione.
Occhi di bimbe, azzurri di ombretto, guardano spalancati la
folla. Il bambino, che il padre sta vestendo da stregone, indossa un kriss di traverso sulle spalle, e buffi
guanti bianchi artigliati.
Il dalang si
accomoda dietro il tronco di banano e la musica incendia il momento a colpi di
gong.
Ora uno scrosciare di scale ritmiche accompagna l’entrata in
scena della prima maschera. E’ il fanciullo stregone, faccia rossa e occhi
sporgenti, fissi, ipnotici, denti scoperti in un ghigno, lunghi capelli neri
sciolti sulle spalle, a coprire gli strati di stoffe colorate che si agitano
nelle piroette. Stacco perfetto dei cembali sulle mani bloccate, gli artigli
minacciosi e frementi. Ha un passo imperioso, si erge sulle punte dei piedi,
mani e braccia allargate, unghie lunghe rivolte alla folla. E’ altero, talvolta
incerto, mostra più dei suoi pochi anni, la danza lo trasfigura, accompagna
questo intermezzo da adulto in una vita di fanciullo.
Entra la seconda maschera. Si muove lenta, sinuosa, volto
pallido, sorriso lieve incorniciato da stretti baffetti neri. E’ ammiccante,
cerca l’attenzione degli spettatori con giravolte, movimenti delle spalle,
inchini. Al suono dei flauti gioca coi bimbi. Poi dialoga col tamburo, ritmando
mani e piedi all’unisono, strappando risate e applausi. D’improvviso accelera
in movimenti più rapidi, che fanno vibrare le mani artigliate. Un ultimo
volteggio ed esce.
Un gruppo di bambine, fasciate strette con sarong dorati e
bianchi, i capelli neri racchiusi in un’alta tiara di foglie di palma
intrecciate a gialli fiori di tagete, si porta sulla scena. Volti seri,
impegnati in un coordinamento di movimenti che è ancora solo intenzione,
braccia esili sollevano il lembo del costume, che accentua la movenza del corpo
piegato ad esse. Densi fumi d’incenso s’intrecciano ai giovani corpi. La musica
si fa veloce e urgente.
Intorno ancora incensi accesi, ancora benedizioni, donne in
fila indiana che muovono offerte, vassoi pieni di cibo, polli allo spiedo,
frutta.
In mezzo a questa cacofonia c’è un luogo di calma. E’ la
bassa piattaforma dove il dalang,
accosciato, libera dalla scatola le sue effigi piatte e colorate. Le marionette
devono essere antiche, perché hanno contorni bruniti dal fumo di mille lampade
ad olio e colori sbiaditi dalle cento storie narrate, passando da una mano
all’altra, strusciate sulla tela bianca, e rapidamente infisse, in attesa, sul tronco
di banano messo di traverso. Quante volte hanno rapito gli sguardi, hanno
colpito l’immaginazione con le loro voci, , una diversa dall’altra, perfettamente
imitate dal dalang.
Il rajah, mascherato, si prende d’impeto la scena. Lo scroscio
di musica lo annuncia quando, ancora seduto, mani nude, attira gli sguardi sui
brevi ma imperiosi scatti delle braccia. Avanza solenne ma cauto, poi sembra
prender possesso del momento e i passi si fanno più decisi, le mani sollevano
il drappo che cinge i fianchi, il mento si leva in alto, lo sguardo fiero si
posa appena un momento sul simulacro del dio, Sanghyang Batara. La sua effige si limita ad un ventaglio di foglie
di palma colorate sopra una striscia di fiori ocra di tagete, su cui una mano devota
ha inserito una svastica sacra di fiori viola.
La danza si chiude in fretta, gli ultimi personaggi sono quasi
sommersi dal frusciare dei sarong che spostano le volute di incenso e i fiori rimasti dalle
preghiere collettive. Il dalang
ripone con sollecitudine i suoi personaggi nella cassa lignea, gli attori si
tolgono in un attimo maschere e trucchi, tanto faticosamente indossati prima e
bevono un sorso d’acqua. La gente sciama via, attraverso la spianata ricoperta
di fiori.
Il sole rimanda in cielo i colori del tramonto che
pennellano il cemento d’un tenue rosa antico. Tutti via, a dividersi quanto di buono è stato offerto agli dei e
ritornato, apparentemente, gradito.
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