Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

giovedì 6 aprile 2017

I Barong di Puakan


Una pioggerella insistente crea un velo sugli orti e le risaie di questa Bali collinare. Su, tra alberi di cacao, banani e campi interi dedicati alle arance, che qui con una buccia sottile e verde bottiglia che non rivela nulla dell’interno dolce, aromatico e sugoso.

Magari è proprio questa la cifra dell’ampio altipiano centrale, protetto e nutrito dall’arco di monti-vulcani, che da la forma e la natura all’isola. Come un frutto che sembra acerbo, ammantato del verde impossibile delle sue risaie e dei boschi addomesticati, Bali cela un centro ricco di linfa dolce che tocca lo spirito e agita i pensieri. Un profumo multicolore che inebria anche il viandante più sprovveduto.

Un aprile che trattiene, insistente e dispettoso, il monsone e non vuole lasciarlo passare. Oggi, un manis galungan che si ritrova in coda ad una lunga sequenza di giorni importanti, giorni di meditazione, di esorcismi collettivi, di abbracci orgiastici. Giorni necessari a riconciliare l’umanità induista col proprio dio.

E’ qui, tra questi monti, che la frazione contadina dei balinesi rinnova l’affezione ai propri miti e celebra la benedizione degli strumenti che s’è scelta nella lotta contro il male. Proprio il giorno dopo il celebrato prevalere del dharma sull’adharma, questi balinesi dalle mani callose e il volto affilato dal lavoro nei campi, il proprio kriss infilato in vita, affilano le loro armi esoteriche. Capitanati da stormi di giovani che studiano, lavorano al sud, scolpiscono tempietti e, oggi, vociano esaltati, i barong dei villaggi vicini sono scortati al tempio per essere benedetti. In camion o di corsa, centinaia di devoti si affollano ordinati sulla breve scalinata che porta alla cima di una bassa collina, portano offerte, bandiere, accompagnano il loro eroe, si danno il cambio a sorreggerlo, toccano un lembo del suo manto, pregano, attendono un segnale e rientrano appagati alle loro case.

Questo è un luogo sacro a tutti i Balinesi e la storia narra che il saggio Rsi Markandeya abbia avuto qui l’illuminazione che diede inizio alla religione balinese. Il Pura Sabang Dahat è talmente potente nella mente degli indù balinesi che resiste come tempio senza mura né altari. E’ una semplice spianata tra alberi secolari e palme frondose, appena avvolte da panni colorati, che racchiude un nucleo di invisibile spiritualità.

I Barong, a coppie, sostano davanti ad un lungo tavolo ammantato di giallo, in attesa del tocco divino che li faccia rifulgere nella eterna lotta tra bene e male. Ogni barong mostra un proprio carattere, che attinge allo spirito degli uomini che lo animano. Non stanno fermi, si agitano di qua e di là, sbattono le fauci. Il suono ritmato e secco sorge a tratti dal frusciare del vento tra le chiome. Alzano la testa come ad annusare una presenza immateriale. Arrivano barong ket, macan e bangkal.


Il manto maculato e la lunga coda di macan, la tigre. Afferrarne la lunga coda da forza e timore reverenziale. I lunghi e ricurvi canini del cinghiale, bangkal. Il bangkal viene dal banjar di Taro kaja e mostra un carattere fiero, baldanzoso. Affronta la salita di slancio, sbattendo le fauci e scuotendo un pelame scuro e ispido. E’ amato dai giovani che lo temono e nel contempo lo cercano. Di solito, in occasione del Galungan, va di casa in casa accompagnato da bambini che suonano gong e cembali, a chiedere offerte (ngelawang).

Timidi tintinnii di campanella accompagnano la breve preghiera. Dopo pochi minuti la coppia lascia la radura sacra e la coreografia si ripete.
Il bianco delle camice rifulge tra lo scuro umido della foresta. Macchie candide accosciate con le mani giunte sopra il capo. Stringono petali di fiori e lasciano passare il pensiero.