Una pioggerella
insistente crea un velo sugli orti e le risaie di questa Bali
collinare. Su, tra alberi di cacao, banani e campi interi dedicati
alle arance, che qui con una buccia sottile e verde bottiglia che non
rivela nulla dell’interno dolce, aromatico e sugoso.
Magari è proprio
questa la cifra dell’ampio altipiano centrale, protetto e nutrito
dall’arco di monti-vulcani, che da la forma e la natura all’isola.
Come un frutto che sembra acerbo, ammantato del verde impossibile
delle sue risaie e dei boschi addomesticati, Bali cela un centro
ricco di linfa dolce che tocca lo spirito e agita i pensieri. Un
profumo multicolore che inebria anche il viandante più sprovveduto.
Un aprile che
trattiene, insistente e dispettoso, il monsone e non vuole lasciarlo
passare. Oggi, un manis galungan che si ritrova in coda ad una
lunga sequenza di giorni importanti, giorni di meditazione, di
esorcismi collettivi, di abbracci orgiastici. Giorni necessari a
riconciliare l’umanità induista col proprio dio.
E’ qui, tra questi
monti, che la frazione contadina dei balinesi rinnova l’affezione
ai propri miti e celebra la benedizione degli strumenti che s’è
scelta nella lotta contro il male. Proprio il giorno dopo il
celebrato prevalere del dharma sull’adharma, questi
balinesi dalle mani callose e il volto affilato dal lavoro nei campi,
il proprio kriss infilato in vita, affilano le loro armi
esoteriche. Capitanati da stormi di giovani che studiano, lavorano al
sud, scolpiscono tempietti e, oggi, vociano esaltati, i barong
dei villaggi vicini sono scortati al tempio per essere benedetti. In
camion o di corsa, centinaia di devoti si affollano ordinati sulla
breve scalinata che porta alla cima di una bassa collina, portano
offerte, bandiere, accompagnano il loro eroe, si danno il cambio a
sorreggerlo, toccano un lembo del suo manto, pregano, attendono un
segnale e rientrano appagati alle loro case.
Questo è un luogo
sacro a tutti i Balinesi e la storia narra che il saggio Rsi
Markandeya abbia avuto qui l’illuminazione che diede inizio alla
religione balinese. Il Pura Sabang Dahat è talmente potente nella mente
degli indù balinesi che resiste come tempio senza mura né altari.
E’ una semplice spianata tra alberi secolari e palme frondose,
appena avvolte da panni colorati, che racchiude un nucleo di
invisibile spiritualità.
I Barong, a coppie,
sostano davanti ad un lungo tavolo ammantato di giallo, in attesa del
tocco divino che li faccia rifulgere nella eterna lotta tra bene e
male. Ogni barong mostra un proprio carattere, che attinge allo
spirito degli uomini che lo animano. Non stanno fermi, si agitano di
qua e di là, sbattono le fauci. Il suono ritmato e secco sorge a
tratti dal frusciare del vento tra le chiome. Alzano la testa come ad
annusare una presenza immateriale. Arrivano barong ket, macan e
bangkal.
Il manto maculato e
la lunga coda di macan, la tigre. Afferrarne la lunga coda da
forza e timore reverenziale. I lunghi e ricurvi canini del cinghiale,
bangkal. Il bangkal viene dal banjar di Taro kaja e
mostra un carattere fiero, baldanzoso. Affronta la salita di
slancio, sbattendo le fauci e scuotendo un pelame scuro e ispido. E’
amato dai giovani che lo temono e nel contempo lo cercano. Di solito,
in occasione del Galungan, va di casa in casa accompagnato da bambini
che suonano gong e cembali, a chiedere offerte (ngelawang).
Timidi tintinnii di
campanella accompagnano la breve preghiera. Dopo pochi minuti la
coppia lascia la radura sacra e la coreografia si ripete.
Il bianco delle
camice rifulge tra lo scuro umido della foresta. Macchie candide
accosciate con le mani giunte sopra il capo. Stringono petali di
fiori e lasciano passare il pensiero.
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