Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

lunedì 29 novembre 2010

il barbiere


Pavimento di ceramica candida, ricoperto di capelli neri. I giovani balinesi affollano le panche di legno del barbiere per essere sostanzialmente privati delle loro chiome corvine folte e dritte, ordinatamente spettinate. Escono rasati a zero e contenti, ringraziando con un timido sorriso e lasciando pochi spiccioli, separati del loro contributo al tappeto di peli che giace a terra, a mo’ di tosatura di pecore. Sotto una delle panche sta il sacchetto di plastica, già mezzo pieno, che raccoglie l’esito della tosatura, una spazzata e via. Senza che mano umana scalzi, dagli angoli del pavimento, una sporcizia che sfida il tempo.
L’ambiente è poco più di un cubicolo aperto sulla strada, con due sedie di metallo che fronteggiano due specchi sbeccati. Al centro della parete,  su un semplice ripiano, a portata di mano stanno le due cesoie elettriche e le poche forbici. Il destinato viene avvolto da un sudario blu scuro, di un poliestere lucido, che ha visto molte chiome prima di quest’ultima, scelto a caso tra quelli già usati e appesi ad un gancio. Il pettine a la forbice sono svogliatamente privati dai peli rimasti, con un pezzetto di gommapiuma celestina, che poi sarà usato per ripulire faccia e collo dai pelucchi ribelli.
 I due artisti si danno da fare, intenti, con abili colpi di pettine sdentato e piccole dosi di rasoio elettrico. Le mani, sempre sicure, agili quasi, ogni tanto esitano di fronte a capigliature forestiere, magari straordinariamente folte di riccioli anarchici. Solo allora il rasoio, abituato a zazzere ordinate e diritte,  come boschetti di bambù, esita impigliandosi in capelli ritorti come una giungla.

L’unico ventilatore funzionante sposta aria calda e ciuffi di peli sottili da una parte all’altra della stanza, inseguendo poche mosche pigre. Chi sta in attesa forma un confine netto tra il riverbero del sole lì fuori e i pochi spazi all’ombra. I giornali locali, sparsi in varie tranche tra le panche e per terra, sparano i loro titoloni “Parla il più famoso collezionista di kris di Bali”, “l’Inter affronta il Parma senza Eto’o”. Una radio suona canzoni melodiche, interrotte solo da notizie sul cambio della rupia. La strada sparge il suo frastuono contenuto, siamo in una via secondaria, a Seminyak. L’atmosfera è silenziosa ma non rilassata e le occhiate nervose si spandono nell’aria calda e ti s’appiccicano addosso. Pochi clienti si lanciano in battute scherzose per stemperare l’attesa del rasoio che, immancabile, taglia con precisione chirurgica i contorni dell’acconciatura finale. Senz’acqua, senza affilatura, su una pelle appena ammorbidita da una spennellata di una saponetta umida e biancastra, intrisa di corti pelini neri. Bianco e nero. Il dualismo balinese (bene-male?) mi insegue anche dentro l’antro del barbiere.

martedì 23 novembre 2010

Sorriso 1

A Bali siamo circondati dal sorriso, che in indonesiano si dice senyum e suona per noi come un segno nel volto. Gli asiatici sono portati al sorriso, a dipingere le loro facce con i denti scoperti che spiccano decisi sulla pelle scura. Ma è vero, o è sempre così?

Dopo anni di risposte certamente positive a questa domanda, la frequentazione più assidua insinua dei dubbi, costruisce distinguo e arriva ad incrinare certezze. Ecco un bel terreno minato di svarioni, pronti ad esplodere come bombe sotto i piedi dell’osservatore incauto, frettoloso nel giudizio e magari incerto nella direzione da dare al ragionamento.

Comincio coll’indossare una bella corazza: amo sinceramente ogni sorriso che si manifesta sul viso di chi mi circonda, specie qui a Bali. Alleggerisce la tensione che lo straniero prova e rappresenta un ponte sincero e saldo tra due diversità. Un punto fermo. In questo esercizio di socialità i Balinesi sono maestri, sempre pronti a ridere in ogni situazione, come fosse una bianca mano tesa ad aiutare la comunicazione. Ma… Dopo aver constatato che le facce rispecchiano, qui come altrove, la preoccupazione di vivere, l’ansia di un salario incerto e insufficiente, la fretta delle responsabilità che incatenano, ecco che la domanda si pone da sé: è sempre un sorriso sincero? E’ comunque un tratto nativo innato o è divenuto una maschera, un orpello, un accessorio che s’è appreso ad indossare a seconda delle circostanze?

Come si spiega il sorriso che lampeggia sui volti dei passanti dopo un incidente stradale? E quello sul volto del cameriere che ti fa cadere addosso un’intera pietanza sugosa? E quello del sarto che ha sbagliato i calcoli e ti presenta un conto il doppio del pattuito? E che dire della donna in moto che s’immette d’improvviso contromano davanti a te e ti obbliga ad una frenata e schivata pericolosissime? Forse che il suo sorriso smagliante, prontamente indossato, è sufficiente a diluire la tua rabbiosa reazione? E’ il loro modo innocente (o studiato) per farsi perdonare ogni nefandezza ai danni del codice della strada? Oppure è un mezzo sufficientemente simpatico per far digerire allo straniero la totale assenza di un codice di leggi che proteggano l’incolumità altrui?

martedì 16 novembre 2010

spiaggia

Una lunga spiaggia bianca che guarda ad oriente. Venerdì mattina. Pochi stranieri diluiti tra sdraio e ombrelloni, allineati in un’unica fila, bianchi su bianco. Il sole già alto è pronto a scottare la pelle nuda. L’acqua è cristallina, poche alghe verde brillante disegnano il fondo granuloso. Al largo si scorge netta la striscia candida e schiumosa che le onde tracciano al limite della barriera corallina. Da qui a là, la laguna è una coperta smeraldina, appena mossa dal vento. Più a sud, dove la rena s’arresta di fronte agli alberi, si agitano pigre le canoe dei coltivatori di alghe.

Corpi pallidi, presto arrossati dal riverbero, distesi a leggere, chiacchierare. Un succo fresco di mango, un sarong offerto da una timida ambulante, un gruppetto di ragazze in divisa che pulisce la spiaggia. Alle spalle risuona secco il richiamo di un martin pescatore. Lo smeraldo liquido offre un breve refrigerio, ma galleggiare qui è una lunga, languida e setosa carezza. Tutto è lento, torpido, anche il libro è pesante tra le mani e resta inascoltato sul tavolino. Il respiro si ritma con la risacca, tenue e appena percettibile. Il pensiero segue curioso le movenze voluttuose di questo meriggio tra i granelli di sabbia.

il sacrificio




Giorno di festa. Festa grande per i popoli dell’islam. E’ in ricordo commosso di un sacrificio quasi impronunciabile, di un padre capace di immolare il proprio figlio sull’altare di un ideale. Che suona pericolosamente vicino a idolo.
La prima chiamata alla preghiera si sente appena, nella Bali indù. La formula millenaria rimbalza timida tra le basse case, i ristoranti ancora vuoti, gli hotel.
Famiglie intere, vestiti eleganti, sciamano dai pochi quartieri musulmani verso la moschea, per la preghiera delle 9. Le donne, sedute dietro nel motorino, si salutano tenendo in equilibrio uno o due bimbetti, protetti dal sole con una sciarpa batik. I mariti, in sarong e zuccotto, guidano, fumano e indirizzano cenni agli amici. Per strada si mescolano ad altre famiglie, ora indù, che si recano, sempre in moto, ad altre cerimonie, sarong e camicia candidi i maschi, blusa di pizzo e sarong coloratissimi le signore.
In un quartiere popolare del villaggio di Tuban, un gruppo di abitanti ha appena iniziato il sacrificio rituale. Come ogni anno vicini, parenti ed amici si riuniscono e si suddividono alcuni capi di bestiame, acquistati dai membri più facoltosi della comunità e abbattuti sul posto.
Pak Rahman mi invita ad assistere a quella che sembra una festosa macelleria all’aperto. Laggiù c’è il buco nel terreno dove s’è consumata la fase più cruenta. Dopo, un po’ di terra toglierà dagli occhi di tutti il rosso prodotto della macellazione e lo suggellerà in un grembo sotterraneo. Ogni famiglia, bisbiglia Rahman, riceve un sacchetto con 4 once di carne mista, più un po’ di frattaglie e qualche osso. A tutti la stessa quantità che, opportunamente diluita in un ricco stufato sugoso (chiamato gule kambing), sarà l’abbondante pasto della festa.

Ora, sotto i tendoni celesti, giovani muscolosi si danno da fare con asce e coltelli, la carne appoggiata a semplici assi di legno. Le donne passano con acqua, teh e riso cotto in foglia di banano. La vista della macchina fotografica accende l’atmosfera e tutti vogliono essere ripresi. Alcuni ghignano tra grossi tocchi polposi. Altri brandiscono crani con enormi corna. Urla, schiamazzi, hellomister. Prevale la piega gaudente al preciso confezionamento dei pacchi, nonostante la rossa materialità dei corpi smembrati. Il pensiero del pasto imminente alimenta la burla e lo sberleffo. Rahman mi indica il più scatenato, quello col cartello con scritto “capra n°1”, è il matto, sospira.
Il quartiere è un miscuglio di etnie da ogni parte dell’Indonesia, continua Rahman, e tutti gli abitanti, oggi, danno una mano, anche se appartengono a fedi diverse. L’imam, arrivato da poco, si avvicina per un saluto di benvenuto e si augura di vedermi alla moschea l’anno prossimo.
Tra queste casupole, al margine di un sentiero sconnesso, si respira forte il senso del sacrificio condiviso, declinato in una convivenza pacifica e solidale, condita con carne halal.

sabato 13 novembre 2010

il piatto nazionale

Barack Obama visse bambino in un sobborgo di Jakarta, per quattro anni. Anni di giochi, scuola pubblica e cibo di strada. Il piccolo Barry si sbafava, come tutti i suoi coetanei, scodelle di bakso e cartocci di satay. Sapori indonesiani che gli sono rimasti inevitabilmente nella memoria. In occasione del recente passaggio ufficiale in Indonesia, ha voluto ritagliarsi un momento di vera rimpatriata chiedendo di provare gli stessi sapori speziati che gli ricordano la sua infanzia sundanese. Ma lo zelo dei suoi attaché è stato tale che al menù popolare, a base di vermicelli in brodo con palline di tofu e carne e spiedini di carne arrostita, è stato incluso il nasi goreng (non richiesto dal “Bapak Presiden”).
Peccato di ignoranza che ha immediatamente suscitato un simpatico intermezzo didattico nazional-culinario tra i commentatori di fatti di costume. Il riso fritto, infatti non è il piatto nazionale indonesiano, almeno servito a pranzo o a cena. 

La cuoca bibi Das, esperta in queste faccende, mi svela le regole ferree del nasi goreng.
Innanzi tutto, è un piatto servito rigorosamente solo a colazione, mai a pranzo o a cena. E’ a base di riso e carni (di pollo o di vitello) avanzati la sera prima, eventualmente integrati con pomodoro, scalogno e peperoncino. In questa versione popolare lo si intuisce simile a molte colazioni “povere” proposte da genti diverse di altre nazioni. Quante pietanze sono “ripassate” in padella, o ribollite o rifritte. L’uovo all’occhio, poi, è facoltativo e il nasi goreng, così arricchito, diventa istimewa, speciale. Infine mai e poi mai si troveranno spiedini di carne, che sono un’aggiunta fatta ad arte per rendere il tutto più appetibile al turista.
Conscio di aver seguito la regola, ed aver spesso riempito la pancia a colazione con un piattone di riso ripassato, accetto con un cenno di complicità le spiegazioni della zietta e mi avvento su una scodella di bakso fumante. E’ ora di pranzo, mister Presiden.
(ispirazione: The Jakarta Post)
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lunedì 8 novembre 2010

Rangda e il tektekan

  A Kerambitan, nel cortile esterno del palazzo del raja, si dipana la storia della strega Rangda, che né uomini né animali divini possono sconfiggere. Re e generali si scontrano coraggiosi con lei all’arma bianca, ma ne escono presto sconfitti. Le sue ancelle infernali, possedute da una bellezza malefica, sono i volti delle avvenenti fanciulle del villaggio. Nel fascino femminile, sembrano raccontare sotto i veli bianchi del sortilegio, si celano sventure e incantesimi nefasti per l’intera comunità.
 Anche il Barong, essere animalesco semidivino, che veste i panni della natura buona, amica dell’uomo, viene sconfitto. Il duello è giocato su aggressioni saltellanti, balzi felini, grida allucinate, sbatter di mascelle. Poi, a Rangda basta un semplice palpito del suo velo magico, agitato da una mano artigliata, e lo stende a terra. Nemmeno la natura, possente ed ingenua, può nulla contro la poderosa malvagità che emette un’anima oscura.

A difesa estrema del Barong, della natura ferita, si materializza una schiera di uomini a torso nudo, armati di lunghi kris acuminati.
Qui la scena si fa convulsa e le urla ghignanti della strega più acute e sfrontate. Rangda sfida apertamente gli uomini armati, che si scagliano su lei cercando di trafiggerla. Pur gettata all’indietro dalla potenza degli attacchi, la pura malvagità riemerge intatta, protetta da una millenaria invulnerabilità. Lei, non paga, saltella beffarda, con movenze oramai frenetiche e grida agghiaccianti.
 Il ritmo delle percussioni (“tek, tek, tek”) accompagna in crescendo il parossismo dell’azione finché, inaspettatamente, Rangda si toglie la maschera lasciando il suo avatar nudo in mezzo alla scena, protetto ora solo dall’intensità della sua stessa possessione. Ancora pochi, disperati, assalti e, ad un gesto ampio del braccio, il velo del male getta tutti a terra, esausti nella pantomima della maledizione mortale. Rapido un sacerdote spruzza ogni uomo con acqua sacra e lo risveglia alzandolo per i capelli. Poco oltre un altro sacerdote suggella la fine della sfida con il necessario sacrificio di sangue, senza il quale lo spirito maligno continuerebbe a stendere i suoi artigli malefici su palazzo e villaggio. I balinesi sublimano così la lotta interiore che ogni giorno si trovano ad affrontare col proprio lato oscuro.

Sul terreno finisce di contorcersi il pulcino sgozzato e la sua agonia sembra scacciare la nera ombra di Rangda, che svanisce oltre le alte porte del palazzo di Anyar.
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domenica 7 novembre 2010

la venere di Penida (3)

Spiaggia candida che si perde nella lontana ombra azzurrina del grande vulcano. Scafi bianchi di lunghe piroghe si appoggiano immobili alla nassa luce dell’alba. Leviatani immacolati sorti dalla profondità marine.  Artigli ricurvi lasciati da un demone gigantesco. Costole di uno scheletro sparso di un dinosauro immaginato.
L’uomo solleva dall’acqua la pesante cesta ricolma di alghe che brillano al sole. La donna l’aiuta con fatica a posarsela sul capo, protetto appena da uno straccio. Esce così, passo dopo passo, gocciolante di acqua salsa e di umori marini, la faccia risplendente del sole che nasce, una venere a Penida. Si muove attenta e sicura, il peso non le cancella un incedere innato, la maglia bagnata le pennella il seno, granchietti fuggono dai suoi piedi, verdi alghe s’intrecciano turgide ai suoi capelli.

Penida i colori (2)

Alte scogliere a picco sul mare. Un prato verdissimo d’erba bassa, regolata da poche mucche color caffelatte. Rocce calcaree affiorano sui pendii ondulati ed un orlo popolato da bassi cespugli che cercano il vuoto. Cavallette schizzano ovunque in un intreccio disordinato  e mosche pascolano là dove le vacche hanno fatto.

La lucente pietra calcarea che è l’ossatura dell’isola offre nuove opportunità cromatiche all’architettura sacra. I portali dei templi, bianchi di un candore accecante, spiccano nitidi tra il verde degli alberi e il grigio dei muri di cinta. Il cinerino uniforme dei luoghi sacri balinesi, fatti di pietra lavica, declina con efficacia il costante passaggio tra bene e male, bianco e nero. Qui, a Penida, portali immacolati ed elaborati altari nivei, si concedono invece splendenti appena eretti. Col tempo e con l’opera neutrale della natura, mutano in un grigio colato e poi maculato. E la transizione si compie nuovamente, verso tutte le condizioni sbiadite che ricordano alla gente le infinite facce, sfumature ed intrecci che i comportamenti malevoli intessono col nitore abbagliante dell’animo puro. Una sapienza condivisa che si perpetua nella pietra.

Anche la scelta delle figure che adornano ogni angolo degli altari squadrati, indica una simbologia religiosa originale. Grifoni alati con corpo di leone, cigni sinuosi ad ali spiegate, facce di elefante dominate da proboscidi ripiegate. Ghirigori e foglie e fiori. Tutto elaborato con la pietra calcarea che sottolinea il tuttotondo attraverso un infinito gioco di ombre. Un chiaroscuro che è la parola d’ordine di questo universo, reso vivo dal sole cocente.

Ovunque si vada, a Penida, si è accompagnati da questo dialogo tra luce e ombra, tra corte pennellate di tenebra che limitano, anche spiritualmente, le prepotenti estensioni di luminosa positività.

Penida andata e ritorno (1)

Sanur, la sabbia nera comincia piano piano a scaldarsi al sole delle 6 di mattina. Gitanti giavanesi hanno viaggiato tutta la notte per assistere, sfiniti, al sorgere del sole. Ragazze scout, in maglietta bianca e pantaloni scuri, si bagnano in gruppo nelle acque ancora grigie, in una sorta di jamboree marino. Coppie di figli chiedono di far da fondale al loro ricordo fotografico. I bambini sono particolarmente attratti ed intimoriti dalla mole e dal pallore di questi stranieri, che sembrano buffe incarnazioni dei clown del teatro delle ombre. Un megafono raduna il gregge di vacanzieri che, andandosene, lasciano i pochi passeggeri della barca a guardarsi l’un l’altro, sorseggiando una tazza di caffè accompagnata da banane fritte.
Le barche che solcano questo tratto di mare sono dipinte in colori sgargianti. La nostra è celeste con grandi zampe arcuate gialle e rosse, che sostengono i lunghi bilancieri bianchi. Ci lasciamo alle spalle una costa densa di nubi temporalesche, tra le quali il grande vulcano gioca a nascondino.
Nuvole gigantesche si elevano in candide volute dal mare tropicale. Scorrono sullo schermo mosse dal rollio della barca, visibili dall’apertura nello scafo celeste che mima il colore del cielo.
Le facce intorno sono serie, occhi abbassati o persi nella stiva vuota, non si sente una parola. Alcuni dormono nel tentativo di scacciare la necessaria paura del mare e della traversata. Anche chi da di stomaco lo fa appartato, pochi suoni, una mano sulla fronte abbassata, poi lasciata a coprire, in un eccesso di vergogna, la bocca.

giovedì 4 novembre 2010

La cremazione dell’ultimo Raja di Peliatan

A Bali, le corti reali di Ubud e Peliatan, tra loro imparentate, sono conosciute per le elaborate e impressionanti cerimonie di cremazione dei defunti. Una delle più grandiose fu la cremazione collettiva del 1992 della moglie, della madre e delle matrigne di Anak Agung Gede Agung, un diplomatico Indonesiano  della casa reale di Gianyar.

Lo scorso 2 novembre 2010 ha avuto luogo un altro evento eccezionale, la cerimonia di cremazione reale per il IX Raja di Peliatan, Ida Dwagung Peliatan, che passò a miglior vita il  20 agosto scorso, all'età di 71 anni.

Per settimane una comunità di parenti, artisti ed artigiani dei villaggi vicini ha costruito una piattaforma enorme sulla quale è stata posata una sbalorditiva torre di cremazione alta 25.5 metri e costituita di 11 tetti sovrapposti. Il badé, costruito in bambù, legno e carta, pesante varie tonnellate, ha ospitato le spoglie del raja durante la traslazione  ed è stato portato in processione, sulle spalle di centinaia di uomini, da Peliatan fino ad Ubud, sul terreno riservato alle cremazioni reali. A completare questa meraviglia sono il sarcofago a forma di toro reale che ha ospitato i resti del raja al momento della pira funebre,  ed il dragone di 3 metri, il naga banda, risplendente di scaglie d’oro, al quale è affidato il compito di trasportare l'anima nell’aldilà. Tutto verrà messo a fuoco, perché i balinesi credono che solamente attraverso la purificazione col fuoco l'anima possa essere rilasciata da questa terra e passare in cielo.

Nel giorno della cremazione, il corpo prima è stato posto nella torre, dentro una piccola alcova. Un lungo telo bianco attaccato ad essa, tenuto da membri della famiglia, rappresenta i legami di parentela col defunto. Poi centinaia di uomini hanno portato insieme l’enorme piattaforma sulle loro spalle, muovendosi, girando e fermandosi all’unisono, accompagnati dal suono assordante di decine di gong di un gamelan. La piattaforma enorme è fatta girare in modo disordinato a ciascuna crocevia con lo scopo per disorientare l'anima ed impedirle da ritornare sulla terra  e disturbare i vivi. Alla processione hanno partecipato, evento ancor più spettacolare, due elefanti guidati dai principi di corte di Peliatan Tjokorda Putra Nindia, l’erede al trono, e Tjokorda Bagus Nawa.

Al terreno di cremazione il corpo è stato tolto dalla torre e messo nel sarcofago, avvolto di tessuti preziosi,  spruzzato con acqua benedetta e accompagnato da canti e  preghiere. Le offerte sono messe al di sotto della pira funebre per dare vigore al fuoco e presto sarcofago e cadavere sono consumati dalle fiamme. La torre è stata arsa separatamente, il giorno appresso.

Partecipando alle preparazioni e ai rituali, i parenti adempiono ai loro doveri religiosi verso il defunto. Non c'è nessuna manifestazione di dolore in pubblico, giacché piangere vicino il cadavere disturba l'anima nel suo cammino verso l’aldilà.
(fonte: Bali Pos)
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lunedì 1 novembre 2010

Carissima…

Oggi potrai poltrire un’ora in più e così ci separeranno ben 7 ore di fuso. Qui il caldo aumenta e oggi spero che gli uomini di Lella vengano a montare il 3° ventilatore, questa volta sopra la tavola del soggiorno, dove si mangia la sera (gli altri 2 li abbiamo in soggiorno, uno sopra la “mia” scrivania, l’altro sopra il divano “di GC”).
Sono le nostre postazioni di lavoro, come a Padova. Solo che qui siamo una davanti all’altro, in un salotto lungo 10 metri. In veranda ne abbiamo invece uno che soffia fortissimo sopra il tavolino della colazione e del pranzo.

Continuo a curiosare e ad appropriarmi di cose vecchie di Lella che trovo nelle tante stanze di questo complesso dove, oltre alla nostra casa, ci sono 2 stabili di 3 piani ciascuno. E’ un vero divertimento perché si trovano cose balinesi più o meno vetuste, alcune talmente tarlate che si sbriciolano in mano lasciandoti solo le larve dei tarli che si contorcono. Altre, invece, talmente impolverate che sembrano uniformemente nere, ma quando le lavi è sempre una sorpresa perché pian piano riappaiono i colori.
Torno in stanza, dopo queste mie “incursioni”, nera come uno spazzacamino. Per fortuna ho recuperato una borsona di plastica con cerniera, di quelle che noi usiamo per mettere via coperte o piumoni. Adesso ho preso l’abitudine di salire con quella e riempirla di oggetti vari, dei quali spesso non capisco nemmeno l’uso.
Una volta scesa mi metto pian piano a ripulire ogni cosa con spazzolino, spugna, spazzola. A volte, per gli oggetti grandi, chiamo gli operai di Lella che mi portano giù i mobili, li lavano nel parcheggio con la canna dell’acqua e li lasciano al sole ad asciugare. Quasi tutti sono mobili di teak, preziosi solo per il legno con il quale sono fatti, ma qui vengono trattati peggio dei nostri mobili di formica trovati al mercatino. Spesso poi vengono rimessi in sesto con una pennellata di mordente che li preserverà almeno per una parte del loro futuro, qui in casa nostra.

Stiamo quindi riempiendo la casa di mobili e oggetti vari che sto accuratamente
fotografando. Per ora gli oggetti più curiosi sono state 3 scarpette di Madura (isola a Nord-Est di Giava) e un mobile-bar il cui modello risale agli inizi della colonizzazione olandese in Indonesia, di forma ovale con coperchio che fa da vassoio. In questi giorni abbiamo qui ospite una nostra amica di Pavia che, oltre che in abbigliamento, commercia in mobili che importa dal Sud-Est Asia in Italia. L’ho portata con me una mattina nelle varie stanze a caccia delle ultime cose: mi ha confermato che alcuni mobili sono veramente di pregio e di altri mi ha raccontato la storia. Di matasse di cordini di cuoio colorati, trovati in una scatola polverosa, mi ha spiegato l'alto valore in Italia perché molto belli, con colori vivaci e ricercati per fare collane con pendagli. Nei prossimi giorni mi farò portare giù la scatola e curioserò con calma !!!! A Bali in effetti si trovano perle di vetro tipo murrina veneziana e pendagli bellissimi fatti con vari materiali.
Insomma la vita trascorre proprio in modo diverso!
Buona domenica!                     
laura