Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

martedì 16 novembre 2010

il sacrificio




Giorno di festa. Festa grande per i popoli dell’islam. E’ in ricordo commosso di un sacrificio quasi impronunciabile, di un padre capace di immolare il proprio figlio sull’altare di un ideale. Che suona pericolosamente vicino a idolo.
La prima chiamata alla preghiera si sente appena, nella Bali indù. La formula millenaria rimbalza timida tra le basse case, i ristoranti ancora vuoti, gli hotel.
Famiglie intere, vestiti eleganti, sciamano dai pochi quartieri musulmani verso la moschea, per la preghiera delle 9. Le donne, sedute dietro nel motorino, si salutano tenendo in equilibrio uno o due bimbetti, protetti dal sole con una sciarpa batik. I mariti, in sarong e zuccotto, guidano, fumano e indirizzano cenni agli amici. Per strada si mescolano ad altre famiglie, ora indù, che si recano, sempre in moto, ad altre cerimonie, sarong e camicia candidi i maschi, blusa di pizzo e sarong coloratissimi le signore.
In un quartiere popolare del villaggio di Tuban, un gruppo di abitanti ha appena iniziato il sacrificio rituale. Come ogni anno vicini, parenti ed amici si riuniscono e si suddividono alcuni capi di bestiame, acquistati dai membri più facoltosi della comunità e abbattuti sul posto.
Pak Rahman mi invita ad assistere a quella che sembra una festosa macelleria all’aperto. Laggiù c’è il buco nel terreno dove s’è consumata la fase più cruenta. Dopo, un po’ di terra toglierà dagli occhi di tutti il rosso prodotto della macellazione e lo suggellerà in un grembo sotterraneo. Ogni famiglia, bisbiglia Rahman, riceve un sacchetto con 4 once di carne mista, più un po’ di frattaglie e qualche osso. A tutti la stessa quantità che, opportunamente diluita in un ricco stufato sugoso (chiamato gule kambing), sarà l’abbondante pasto della festa.

Ora, sotto i tendoni celesti, giovani muscolosi si danno da fare con asce e coltelli, la carne appoggiata a semplici assi di legno. Le donne passano con acqua, teh e riso cotto in foglia di banano. La vista della macchina fotografica accende l’atmosfera e tutti vogliono essere ripresi. Alcuni ghignano tra grossi tocchi polposi. Altri brandiscono crani con enormi corna. Urla, schiamazzi, hellomister. Prevale la piega gaudente al preciso confezionamento dei pacchi, nonostante la rossa materialità dei corpi smembrati. Il pensiero del pasto imminente alimenta la burla e lo sberleffo. Rahman mi indica il più scatenato, quello col cartello con scritto “capra n°1”, è il matto, sospira.
Il quartiere è un miscuglio di etnie da ogni parte dell’Indonesia, continua Rahman, e tutti gli abitanti, oggi, danno una mano, anche se appartengono a fedi diverse. L’imam, arrivato da poco, si avvicina per un saluto di benvenuto e si augura di vedermi alla moschea l’anno prossimo.
Tra queste casupole, al margine di un sentiero sconnesso, si respira forte il senso del sacrificio condiviso, declinato in una convivenza pacifica e solidale, condita con carne halal.

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