Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

martedì 13 novembre 2012

Alor, i giardini di corallo



un viaggio fatto qualche anno fa ma che mi evoca ancora emozione.

Sbucato dalle nuvole sopra le isole di Ternate e Buaya, il Fokker 50 turboelica compie una stretta virata a destra e sorvola la Testa d'Uccello, prima di tuffarsi bruscamente ed atterrare all'aeroporto semi deserto di Mali.

Siamo ad Alor, estremità orientale delle Nusa Tenggara Timur, la catena di isole ad est di Bali (v. box a lato). Alor è un'isola di grandi bellezze naturali e straordinario interesse antropologico. Il viaggio che ho intrapreso mi permetterà di scoprire scenari sottomarini incontaminati, popolati da miriadi di organismi tra i più diversi, peculiari e bizzarri. Una breve escursione all'interno darà modo di  osservare le produzioni agricole tradizionali, le case ancestrali e, al museo della capitale Kalabahi, oggetti di grande valore storico ed etnografico.

All'arrivo affittiamo un bemo rosso vivo, decorato dentro e fuori con scritte e forme gaie e bizzarre, che ci porta lentamente prima a Kalabahi, la capitale, e poi ad ovest fino al villaggio costiero di Alor Kecil. Qui una piroga a bilanciere ci sbarca sull'isoletta di Kepa, superando un corto braccio di mare reso insidioso da correnti di marea impetuose. In un angolo di Kepa si trovano diving center e homestay dove risiederemo durante il nostro breve soggiorno: un angolo di paradiso...a buon mercato (v. a lato i dettagli logistici). Kepa è non solo punto di partenza per escursioni subacquee di stupefacente bellezza, ma offre anche una serie di incantevoli spiagge di un nitore corallino, popolate solo da una discreta presenza di pescatori locali. Dalle spiagge si possono fare escursioni a nuoto fino ad una bassa area corallina o, facendo attenzione alla corrente, ad una brusca discesa di coralli, comoda platea per lo spettacolare passaggio di squali, tartarughe, mante e carangidi.

A Kepa s'assimila senza fatica l'atmosfera rilassata, semplice e cordiale che permea il luogo e i suoi abitanti. Gli alloggi sono semplici, quasi monastici, ma ben distribuiti lungo una bassa scogliera sul mare, con viste su un mare di tranquilla bellezza, vulcani lontani contornati di candide nubi, barche di pescatori che incrociano lungo l'orlo della barriera corallina. Chaise longue e amaca sono molto adatte alle lunghe ore d'ozio, lettura, scrittura o semplice fluire di pensieri, dopo il tempo dedicato alle immersioni o al nuoto.
 
Il bagliore, giallo e nitido, di un lume a petrolio ondeggia al limite della bassa marea. Due sagome scure, a malapena abbozzate dalla luce, si muovono silenziose e sicure tra i coralli affioranti. Il silenzio, fatto di suoni lievi, s'intreccia con i brevi richiami degli uomini. Echi di tuoni rimbalzano tra le isole. Il quieto richiamo del venerdì sera si scioglie sull'acqua, portato da una brezza che mescola a sé il pungente profumo di alghe bagnate.



Foreste di corallo

Scendiamo lentamente nell'azzurro liquido, verso ombre indistinte là in basso; poi, come girato un angolo o attraversato uno schermo, una sorta di armadio di Narnia, si apre alla vista un mondo incantato ed estraneo.

I raggi di sole che passano il sipario blu creano un'esplosione di forme di vita dalle infinite variazioni. La mente porta a cercare analogie con luoghi più noti e frequentati per non essere sopraffatta dal carattere francamente alieno di quello che ci circonda. E allora si attraversano foreste di corallo, praterie di anemoni, scarpate e valli profonde popolate di spugne giganti. I coralli a ventaglio sembrano larghe fronde ombrose che, invece che uccelli, ospitano e proteggono una miriade di pesci dai mille colori. Gli incontri, in questa giungla acquatica brulicante di vita, sono tanti ma, quel che più colpisce, è la visione d'insieme dell'ecosistema sottomarino, con le complesse relazioni tra organismi che lo declinano.
Il bagliore solare colpisce il fondo e incendia la distesa di anemoni di giallo, arancio, verde, marrone e tutte le possibili sfumature. I tentacoli sono fili d'erba che ondeggiano alla corrente, percorsi da pesci pagliaccio colorati.
Mimetismo e commensalismo regnano sovrani, a sancire la sovrabbondanza di spazi, stili di vita, tinte: una teoria senza fine di sovrapposizioni, di imitazioni, di appropriazione di corpi e forme altrui. Un aggrovigliarsi di destini che non lottano ma s'intrecciano nel possesso dello spazio e del cibo. Mors tua vita mea, l'imperativo di Gaia, emerge a forgiare linee di esistenza interdipendenti: un insegnamento assoluto.
Cattura, stringe a sé, abbraccia e poi seduce, ammalia fino a stordire, fino a desiderare di restare per sempre lì sotto ad ammirare, a perdersi nei meandri colorati e ipnotici.


Tour della 'Testa d'Uccello'

L'altopiano piatto 'testa d'uccello’ (kepala burung) forma una penisola che si connette col resto di Alor mediante un istmo. Una stretta strada, quasi sempre asfaltata, contorna la penisola: solo un piccolo pezzo della costa settentrionale, tra Bota e Batuputih, non è raggiungibile, per le ripide, bianche falesie che la fiancheggiano. Il periplo della testa d'uccello offre uno scorcio interessante di Alor, delle sue coste frastagliate, spiagge candide, campi di mais punteggiati da granai su palafitte, genti di pronta cordialità.
Mali, alla punta nordest dell'altopiano, oltre all'aeroporto, offre  belle spiagge dove nuotare e fare  snorkeling. A marea bassa una lingua di sabbia connette il 'continente' con la piccola isola di Sika, un luogo ricco di avifauna e di spiagge con acque limpide.
Affittato un motorino, si percorre la strada costiera verso nord ovest, da Alor Kecil fino a Kokar, tra palmizi e rade mangrovie. Un ponte è crollato per una breve e violenta inondazione, e il guado obbligato, tra grosse pietre ed acqua ruscellante, offre un primo guizzo d'avventura. A Kokar la strada s'inerpica verso le colline e diventa sempre più accidentata. Passiamo orti, campi di mais e bassi boschetti. Sull'altopiano la vista si apre su profonde vallate tra le cime, attorno cespugli intricati, siepi di convolvoli rosso fuoco ed erbe, che spesso si protendono a sbarrare il passo.
Nei villaggi poche case e pochissima gente in giro. I radi incontri ci avvicinano ad un popolo di grande comunicativa, pronto al saluto, anche se fuggevole, verso lo straniero che attraversa rapido i loro territori. Sempre un sorriso, spesso una mano levata, talvolta perfino un inchino. Il sorriso facilita la comunicazione, s'installa spontaneo e senza equivoci sui volti di questi contadini, là dove lingue tanto diverse coesistono.

Alor è un paradiso per l'etnolinguista, giacché qui sono parlati più di quindici lingue diverse, la gran parte del ceppo papuano, oltre all'Alorese, che è una lingua del ceppo malese-polinesiano.
La discesa verso Batuputih rivela una costa appoggiata a bianche pareti calcaree, che spesso giungono, a blocchi spezzati, fino in riva al mare. A Mali la strada, passato l'aeroporto, si snoda veloce quasi a lambire le lunghe spiagge di sabbia bianca, meta di villeggianti nel fine settimana.

La pioggia m'impedisce di raggiungere Monbang e Takpala, villaggi con alcune case tradizionali (rumah lopo) e dove si possono ancora osservare gli aloresi, vestiti con sarong dai motivi peculiari, ballare in cerchi stretti la danza lego-lego o i fieri guerrieri duellare protetti da alti scudi di legno.
La parte centrale della penisola, su un'altitudine di 700 metri è ricoperta da una foresta di kenari, la noce principale prodotto di esportazione di Alor, seguito dal tamarindo, anch'esso raccolto in questa area. Copra, chiodi di garofano, vaniglia e noce di areka sono coltivati nell'entroterra.

Kalabahi

Kalabahi è percorsa da un'unica grande arteria, sulla quale si affacciano gli edifici governativi e innumerevoli bazaar gestiti da cinesi. Qui si vende di tutto, dai calzini per neonati alle tubazioni in PVC, dalle taniche di plastica ai dolciumi. Sono antri scuri e misteriosi, con le merci ammucchiate ovunque e appese come festoni. Il proprietario cinese, da vero signore feudale, siede in posizione rialzata e centrale, da dove vede ogni angolo del negozio, anche il più buio, e controlla, indirizza, coordina e incassa, impassibile. Facce tonde, occhi ridotti a sottili fessure, scrutinano ogni cliente e soppesano in anticipo la propensione alla spesa.
Giovani uomini, in piedi o accosciati, stazionano davanti a questi negozi, al mercato, al porto. Facce scure, lineamenti negroidi, capelli crespi: emergono forti i tratti papuasici. E così si scopre che un sorriso, in questa parte dell'Arcipelago, illumina ancor di più i volti.
Il curatore apre solo per noi il museo, contenuto in un unico stanzone. Oltre ad un'interessante collezione di tamburi Moko, sono esposti alcuni begli ikat provenienti dai centri principali di tessitura (Alor Kecil, Ternate, Pura) e una congerie di strumenti d'uso agricolo e domestico, monili con conchiglie, acconciature, scudi di cuoio, fino ad alcune grosse scatole cinesi rivestite di pelle, adornate con cipree e dipinte con varie tonalità di rosso. I tamburi di bronzo, i Moko, sono parte dell'affascinante storia di quest'isola. Hanno la loro origine nell'area  Dongson, l'attuale Nord - Vietnam, e sono stati da almeno 2000 anni oggetto di commercio e collezione in Indocina, Cina e  Indonesia (vedi la 'Luna di Pejeng' a Bali e il tamburo di Selayar a Sulawesi). La loro presenza così numerosa ad Alor, tanto che se ne sono trovati a migliaia, è probabilmente legata al passaggio di navi di mercanti lungo la rotta verso Timor e le sue piantagioni di prezioso legno di sandalo. Nel XIX secolo il governo olandese arrivò a stimarne 200.000 ad Alor. Per nasconderne la consistenza degli stock, gli aloresi arrivarono a seppellirli in varie zone della parte centrale e meno accessibile dell'isola: luoghi di cui in seguito si perse nozione (da qui i rinvenimenti frequenti di moko, definiti “misteriosi”). Nella società alorese sono diventati uno status symbol e vengono accumulati dalle famiglie come beni legati alla dote e non più come mezzo di scambio per ottenere crani umani da utilizzare in rituali antichi. Il numero e la qualità dei moko scambiati in occasione di un matrimonio dipendono  dalla posizione sociale della sposa e non è insolito che il loro costo necessiti anni di lavoro per essere ripagato.

Rumah Lopo
La Rumah Lopo è la casa tradizionale dei Suku Abui (etnie indigene) aloresi, in particolare del villaggio di Takpala, ad Alor. Ogni Rumah Lopo è abitata da 13 capi famiglia ed è di due tipi: Kolwat e Kanuruat. La Rumah Kolwat è aperta a tutti gli abitanti del villaggio, anche a donne e bambini. A questi, al contrario, è fatto assoluto divieto di entrare nella Rumah Kanuruat; in caso di violazione, il trasgressore sarà colpito da malattia, la cui guarigione comporterà lo svolgimento di cerimonie tradizionali.
La Rumah Lopo è fatta di bambù, ha forma piramidale con un tetto di foglie di alang-alang, ed è sostenuta internamente da 6 pilastri ricavati da legno rosso.  Nella parte superiore vi è un ornamento a forma di braccia aperte in segno di benedizione alla richiesta dell'Onnipotente. La casa si sviluppa su tre piani: il piano inferiore funge da cucina e camera da letto, il secondo piano è utilizzato per stivare mais o altri prodotti alimentari e, quando è pieno, il cibo può essere conservato al terzo piano, che funge anche da magazzino.

giovedì 18 ottobre 2012

Il Gran Melasti a Seminyak: liberare la capra



L’allestimento è un affare complesso, coronamento di giorni e giorni di preparazione, cotture, intrecci, intagli, coloriture. Sul grande tavolo che s’affaccia sull’oceano sono esposte, quasi accatastate, decine di offerte. Spiccano gli intrecci tricolori di foglie di palma e bambù, verde tenero verde scuro e rosso. In cima si aprono corone e diademi di lamine fogliari tagliate e sagomate.
 
Il luogo è la spiaggia di Camplung Tanduk, per i turisti quella di Dyanapura, vicino al Pura Dalem omonimo, il tempio dei morti di Seminyak. Il tempio, rinnovato da poco, sorge sul limitare della rena e pochi tra le migliaia di visitatori che lo sfiorano, ne comprendono appieno la santità che rappresenta per il popolo indù di Seminyak. Stretto tra un resort ed un ristorante, la scalinata si affaccia su una fila di tavole da surf in attesa di villeggianti festanti e mucchi di cuscini da spiaggia dove appoggiare le terga sorseggiando un daiquiri al tramonto. E’ un esempio emblematico di come la sacralità delle terre balinesi convive e confligge con l’edonismo ateo e ignorante dei predoni della vacanza.

Il giorno è il Grande Mercoledì, il Buda Wage Merakih, il giorno in cui le genti di Bali rendono grazie all’azione divina che permette loro di vivere in salute e benessere. Sang Hyang Rambut Sedana, nella sua manifestazione di dio della prosperità, è onorato oggi assieme alle effigi più sacre del villaggio. L’occasione è la celebrazione del rinnovo di uno dei templi di Seminyak, il Pura Puseh, cominciata lunedì scorso, sotto una propiziatoria ed invisibile luna nuova. Un ottobre intenso per la comunità di Seminyak, stretta attorno ai simboli architettonici e spirituali delle loro radici e del rapporto con le divinità e la natura. 

Gli inservienti dei ristorantini qui intorno spazzano ora, è mattino presto, i resti puzzolenti dei bagordi della notte, mentre i devoti s’affaccendano ad allestire gli spazi della cerimonia sacra, portano intrecci, tagliano pali, innalzano altari di frasche e palme. Alle spalle, dietro una staccionata di lamiera arrugginita, s’erge cupo e biancastro nel suo sudario spettrale, un enorme hotel vuoto e cadente, monumento alla corruzione del passato regime. Pochi turisti, vista l’ora, passano sulla spiaggia ad inseguire con una molle corsetta un sogno di un corpo più giovane e asciutto. Alcuni si fermano e ancora meno chiedono informazioni ai signori del servizio d’ordine, quei pecalang onnipresenti durante una cerimonia balinese.

In grossi gusci di noce di cocco sono infissi lunghi spiedini ornati di strisce e festoni di grasso di maiale. Ogni punta ha conficcato un peperoncino che ha il colore arancione del fuoco. Lì sotto gli animali votati al sacrificio mandano versi striduli di paura, altri stanno rassegnati nelle scatole che li contengono, a metà fuori, penzolanti, sfiniti. Pulcini e anatre nei colori evocativi bianco e nero, più una capra, quattro zampe dedicata alla immolazione più importante. Questa se ne sta legata ad un frangipani, nera, e defeca impaurita. Si trova presto con le zampe ingarbugliate nella corda che la stringe. Mani pietose e efficienti le forniscono dell’acqua e qualche foglia fresca da masticare. Vedo le facce dei pochi turisti, per lo più discinti, orripilate dal pensiero che i volatili e la capra saranno poi immolati per spillarne il sangue sacrificale.

Sono arrivate le tre coppie di pedanda, maschio e femmina. Prendono posto sull’alta piattaforma a loro riservata e dispongono subito gli scrigni intagliati e le grandi coppe sbalzate che racchiudono, come tesori, i paramenti e gli attrezzi della preghiera. Ciascun involto emerge da un sacco candido che lo avvolge e protegge. Ora si danno da fare, messi in un canto i bastoni del comando, a togliere utensili, la tiara nera o rossa, ricamata d’oro. Si spogliano, si lavano e rivestono con i paramenti sacri, senza pudore davanti a tutti. Aspergono con acqua benedetta ogni capo, accessorio e ornamento per presentarsi puri al cospetto del dio.

Due processioni accompagnano lungo la spiaggia le effigi sacre del Barong e di Rangda. Bene e male scorrono fluidi sulla sabbia, sullo sfondo il mare che tutto mescola e pulisce. I simulacri della faticosa e infinita lotta quotidiana partecipano alla benedizione, subito dietro l’altare del dio, che si sporge solitario verso il mare.

Ogni angolo della cerimonia, fino a dove si frangono le onde, è percorso da officianti che in corteo aspergono acqua santa ed effluvi benedetti, con brevi gesti morbidi. Si spingono fino alla battigia e cingono col loro abbraccio consacrante anche i due natanti usati dai bagnini del villaggio.
Ora tutti si inginocchiano per ascoltare i rintocchi morbidi e sonori delle campanelle dei pedanda, che s’intrecciano, nei momenti più intimi,  con solenni ritmi di tamburi, il contrappunto di cembali e le note profonde di gong. La corretta esecuzione dei rituali, nel semplice recinto di benedizione comune posto al bordo della rena, è diretta al megafono dal portavoce dei pedanda.

E’ il momento della benedizione finale, la capra viene avvolta da semplici stoffe bianche e zafferano, sulla testa viene stretto un nodo di foglie e fiori ed un grosso rotolo di monete votive dorate è appeso al collo. Le campanelle ed il megafono chiamano alle tre preghiere rituali, tutto s’immobilizza e la preghiera stende su tutti il suo manto candido.

mercoledì 3 ottobre 2012

Mecaru o del bilanciamento

 

 Made e suo marito Gede ci hanno invitato alla cerimonia di purificazione che si tiene ogni dieci anni in una casa balinese. L’occasione è unica per vedere come una religione permea la vita di una famiglia. I genitori di Gede hanno potuto costruire una grande casa in riva al mare, al centro del loro grande terreno piantato a palme da cocco, con i proventi della vendita di una sua parte a una coppia di olandesi. Il mare è lì, a due passi, una stretta spiaggia di arena nera mista a sassolini, che piega dolcemente verso sud, verso le piccole calette di Amed, nuova terra di turisti solitari.

Sotto le palme la terra è polverosa, sfinita dalla lunga estate secca che, da questa parte di Bali, sembra non finire mai. Le nubi piene di pioggia sono trattenute dalle montagne qui dietro, si accontentano delle alte pendici del vulcano.
La cerimonia è una purificazione e un ribilanciamento. Ogni tanti anni i balinesi credono che sia necessario ribilanciare il rapporto tra uomo e dio, uomo e uomo e uomo e natura. Su questi rapporti, il Tri Hita Karana, si basa tutta la società hindu balinese. Lo spirito della natura, Bhuta, rimane tranquillo finché viene rispettato e onorato con una condotta non riprovevole. Realisticamente, visto che nessuno riesce a seguire alla perfezione la regola, i balinesi si ritrovano a poco a poco sbilanciati, sconnessi in un modo non eticamente sostenibile verso il dio. Insomma il balinese osservante ci prova, a comportarsi onorevolmente, ma non ce la fa. Tratta male la moglie, beve, va a donne, sperpera i soldi col gioco d’azzardo, tratta male i subordinati, non cura il giardino, inquina, non cura i figli. Gli spiriti della natura, normalmente benevoli e indifferenti, a questo punto s’indignano e assumono atteggiamenti anche apertamente aggressivi. Per fortuna arriva in soccorso la saggezza degli antenati, che avevano già previsto tutte queste difficoltà ed hanno istituito una sorta di ricostruzione d’immagine, un lifting, un’indulgenza plenaria, che qui si chiama Mecaru. Il Mecaru è la via per riconquistarsi credibilità agli occhi degli dei e placarli attraverso il sacrificio. Il sacrificio piace agli dei, il sacrificio costa caro e questo deve servire da lezione per il futuro. E’ questa un’occasione anche per rinsaldare i legami interni alla famiglia e verso i vicini di casa, di banjar e di villaggio.

Da Gede, nel villaggio di Tianyar, la cerimonia è di quelle più intense e costose (2000 €). Ci sono 270 persone, hanno sacrificato 4 maiali e svariate anatre e polli. Gli uomini hanno tagliuzzato chili di lawar e ares, pietanze a base di frattaglie e sangue di maiale l’uno e di fiore di banana bollito l’altro. Le donne hanno preparato il thun, un pugno di sanguinacci e grasso di maiale, bolliti dentro un cartoccio di foglia da banana (una leccornia). Nei cesti di offerte sugli altari del tempietto di casa, ci sono preziose mele, cibi conditi con terasi, la pasta di gamberetti fermentati dall’aroma pungente e aspro, ginger, cipolla, carne cruda. Alcool di riso, brem e arak, è stato versato per compiacere al dio Bhuta, che rappresenta l’essenza della natura malevola, da placare e assecondare. Un’orchestra gamelan di 28 elementi ha suonato in modo assordante e quasi senza pause per tutta la mattina e due enormi cestoni di bambù intrecciato spillavano come acqua da una fonte, spiedini di carne di maiale a decine ad ogni momento.

Non hanno badato a spese i genitori di Gede per questo Mecaru. Per l’occasione ad officiare è stato chiamato un pedanda, prete d’alta casta. In realtà è arrivata la moglie, la pretessa, visto che il marito era occupato in un’altra incombenza propiziatoria. Il giorno di luna piena è dura trovare un prete libero a Bali.

La pretessa arriva per ultima, con calma, accompagnata da una serie di inservienti e assistenti, ciascuno con un involto colmo di attrezzi, pentole, cocci, vasi, una tanica di acqua benedetta, presa da una qualche fonte sacra i paramenti consacrati, campanelle bronzee, la nera tiara bombata dei pedanda. Nel frattempo tutti noi  s’è già mangiato almeno due volte, oltre ai dolcetti di benvenuto, il sole è alto in cielo, le zone senz'ombra sono evitate accuratamente e sotto la tettoia si cuoce. Le figlie più ispirate hanno già danzato coreografie sinuose alla melodia di gong e cimbali, vestite di costumi fantasiosi e fioriti, strette gonne viola e carminio, bracciali dorati e capelli corvini intrecciati in stretti chignon e diademi di fiori di frangipani e ibischi.
I maschi forti bevitori sono riuniti fuori, sotto le palme, accosciati in cerchio a ingurgitare sistematicamente mezzi bicchieri di liquido lattescente conditi di chiacchiere vuote. Dentro nel cortile cucina e sedute sotto le tettoie a gruppi le donne si guardano, si misurano, spettegolano. Un signore vestito di rosso entra, saluta e chiede come mai ci sono solo due stranieri, noi. Sembra che la solennità e il successo della cerimonia si misurino in forestieri partecipanti. Compare anche la coppia di olandesi che s’è costruita casa qui a fianco, sui terreni della famiglia. Ci scambiamo due occhiate e un cenno, nessuna parola circola, lei sbuffa in continuazioni nubi puzzolenti di tabacco mediocre.

Finalmente la pedanda è pronta a officiare, s’è rivestita con un’ampia tunica candida, ha indossato le collane, gli orecchini, la tiara e, assisa su una piccolo tavolo ingombro dei suoi attrezzi, benedice ogni cosa. Muove le mani a creare nell’aria simboli esoterici, mentre abilmente fa tintinnare la campanella traendo una melodia ipnotica e penetrante. Su tutto aleggia il sottofondo del coro, qui rappresentato da tre signori accosciati sotto la tettoia, intenti da ore a fraseggiare strofe in balinese alto e giavanese antico. Formano l’ossatura concettuale su cui s’intreccia il tessuto arcano dell’offertorio del pedanda, in una giornata dedicata alla riqualificazione attiva del rapporto uomo natura in una famiglia balinese.




mercoledì 21 marzo 2012

La notte prima della battaglia



Il giorno prima della Pasola, la grande battaglia rituale di Sumba, la casa di Thomas si riempie di gente. La zona del grande focolare centrale e dei lavori domestici si popola di donne che cucinano, chiacchierano e masticano betel. I maschi se ne stanno seduti davanti, fumano e guardano il vento. La popolazione di bambini s’impenna e mocciosi sporchi e nudi si spingono ovunque tra le verande di bambù e le tombe, pancia gonfia e ombelico sporgente. Giocano, ridono, s’azzuffano. La grande casa, la uma patana, si gode questa rinascita annuale e oggi non è solo il vento che fa cigolare e ondeggiare i grossi tronchi di bambù dei pavimenti, ma piedi a decine che ne calpestano ogni angolo.
L’allineamento del bambù è volutamente imperfetto in modo da favorire la pulizia: tutto deve cadere di sotto, polvere, detriti, ossa di pollo, cartacce, riso sfuggito dal piatto, liquidi, sputi, sbavate rosse di betel. Là sotto, a due metri dal pavimento, vive una comunità di animali che ricicla tutto, polli, maiali, capre, cani.
Il Rato Nyale, bocca vermiglio piena di betel, è l’anziano che sorveglia l’applicazione esatta dei rituali che precedono la Pasola. Oggi si concede fiero alla necessità della foto. S’aggiusta la fascia ai fianchi, si drappeggia la borsa col betel, s’infila il parang al fianco e si mette in posa.
Alcuni giovani, più in là, tolgono le erbacce dalla tomba del nonno. Le tombe sono tutt’intorno alle case, le avvolgono, le cingono in un abbraccio che non è solo necessità ma è l’essenza del rispetto dato alla conoscenza che proviene degli antenati. La vita attuale è possibile solo per il passaggio fluido e ininterrotto della storia parlata, delle risposte a tutte le domande che gli avi hanno già ricavato nei secoli. La casa vivente  dialoga con la “casa morta”, in un intreccio intimo e quotidiano. Si dice che le tombe devono essere costruite sul davanti della casa, così da avere i propri morti a portata di mano.

Due alte pietre di arenaria, parallele come menhir, tratte dalle cave qui vicino in spiaggia, scolpite lievemente con motivi geometrici e corna di bufalo, abbelliscono il loculo di un Rato. Due bimbi fanno correre i loro copertoni lucidi di pioggia con abili tocchi di bastone. Quattro maialini neri, disturbati, schiamazzano via dal sentiero fangoso. Un cavallino baio agita il sonaglio mentre bruca senza pausa l’erba del prato.

La notte del nyale, la notte prima della Pasola, è notte magica. Le famiglie si riuniscono vocianti sotto un solo tetto, alto come il cappello di un mago. Si parla, si cucina, si mangia, si fuma, si spettegola. E’ la notte delle tentazioni, e i giovani s’aggirano irrequieti tra le tombe, occhi che mandano lampi, chi cerca e chi si fa cercare. E’ la notte in cui le coppie si formano, furtive e veloci. E’ la notte dei vincoli saldi e delle storie spezzate.

E’ la notte dei capifamiglia che parlano la lingua dei propri avi, comunicano ai giovani, bimbi, donne, una sapienza che unisce, una conoscenza che rafforza la tradizione e la fa vita concreta. Il vecchio Isaac mi sussurra queste cose e mi spiega quanto forti e necessari sono questi fili che intrecciano e rinsaldano le relazioni personali e quanto orgoglio provano a condividere con l’ospite l’atmosfera feconda di questa nottata.

sabato 7 gennaio 2012

Il Pura Luhur Mekori


 Il pemangku spruzza il capo di acqua santa e invita quietamente a procedere su per il sentiero. Il selciato si dipana nella foresta vergine, che immediatamente ci avvolge. Licheni, felci arboree, liane spinose s’aggrovigliano ai tronchi enormi dei ditterocarpi, che svettano in alto. I suoni s’attenuano e lasciano spazio ai richiami dei macachi, che ci seguono con circospezione.

Il tempio s’annida al centro della foresta, e le mura verdi di muschio sembrano nascere dal ventre stesso del fogliame rigoglioso. Suoni di cicale. I guardiani, intenti a spazzare le foglie morte, si danno voci che echeggiano tra i tronchi. Uno di loro, Ketut, mi spiega che il tempio è molto venerato e la gente del villaggio (Belimbing, dal nome di un frutto curioso e succoso) è orgogliosa di accudire con egual fervore edifici e foresta. Questa, che si estende per 10 ha, è sorprendentemente intatta, protetta da un’antica tradizione che vuole che i templi eretti all’interno dei boschi siano tra i più sacri ai balinesi, intrisi di un’energia spirituale che invita alla contemplazione ed alla meditazione. Qui, per di più, siamo alle pendici del monte Batukaru, la quintessenza della forza mistica che emana da queste terre.

Ketut mi indica alcune grosse pietre, ricoperte di muschio, e disposte ordinatamente entro piccole aiuole, ciascuna ai piedi di un albero. Sono i resti di un’antica cultura megalitica che ancora si osservano qua e là a Bali e, spesso, in tutta l’Indonesia. Sono punti focali su cui si centrano le preghiere dei balinesi, che li vedono simboli della potenza creatrice del dio Batara, manifestata nella solidificazione del magma primordiale.

Una di queste aiuole, la più grande ed articolata, è posta dietro l’altare principale. Alla base di un grosso tronco fa capolino una testa di serpente sacro, il naga, ornata da un poleng, la fascia a quadri bianchi e neri. Questo è un luogo particolarmente potente, spiega Ketut in un sussurro. Qui sgorga, talvolta, un rivolo d’acqua, tenuta in gran considerazione dai locali. Una preghiera fatta in questo luogo sembra avere il potere di sedare qualsiasi disputa.

Le altre pietre sono poste accuratamente secondo i punti cardinali della cosmogonia balinese, e portano i segni della recente devozione: steli d’incenso in vassoi carichi di fiori.

I padiglioni e gli altari sono stati recentemente rinnovati e restaurati ed ora gli intagli in legno brillano di lacca rossa e oro. Una pala votiva raffigura un’esile Saraswati, la dea della sapienza e dell’arte. Pìù in là una stupenda porta a due battenti riccamente intagliati reca scene del Ramayana, l’epica hindù di origine indiana.

Le scimmie scendono nel tempio a caccia dei resti delle offerte e s’abbuffano di riso, caramelle, tortine soffiate. Due ragazze ridono nervose al bagliore del flash. Un fumo bianco e denso s’alza da un mucchio di foglie che ardono senza fiamma, s’intreccia tra le pietre muschiate e i tronchi giganti, ci segue mentre c’incamminiamo lungo il sentiero nella foresta, si mescola agli incensi accesi che il prete prepara per i prossimi visitatori.