Il pemangku spruzza il capo di acqua santa e invita quietamente a
procedere su per il sentiero. Il selciato si dipana nella foresta vergine, che
immediatamente ci avvolge. Licheni, felci arboree, liane spinose s’aggrovigliano
ai tronchi enormi dei ditterocarpi, che svettano in alto. I suoni s’attenuano e
lasciano spazio ai richiami dei macachi, che ci seguono con circospezione.
Il tempio s’annida al centro
della foresta, e le mura verdi di muschio sembrano nascere dal ventre stesso
del fogliame rigoglioso. Suoni di cicale. I guardiani, intenti a spazzare le
foglie morte, si danno voci che echeggiano tra i tronchi. Uno di loro, Ketut,
mi spiega che il tempio è molto venerato e la gente del villaggio (Belimbing, dal nome di un frutto curioso
e succoso) è orgogliosa di accudire con egual fervore edifici e foresta. Questa,
che si estende per 10 ha, è sorprendentemente intatta, protetta da un’antica
tradizione che vuole che i templi eretti all’interno dei boschi siano tra i più
sacri ai balinesi, intrisi di un’energia spirituale che invita alla
contemplazione ed alla meditazione. Qui, per di più, siamo alle pendici del
monte Batukaru, la quintessenza della
forza mistica che emana da queste terre.
Ketut mi indica alcune grosse
pietre, ricoperte di muschio, e disposte ordinatamente entro piccole aiuole,
ciascuna ai piedi di un albero. Sono i resti di un’antica cultura megalitica
che ancora si osservano qua e là a Bali e, spesso, in tutta l’Indonesia. Sono punti
focali su cui si centrano le preghiere dei balinesi, che li vedono simboli
della potenza creatrice del dio Batara,
manifestata nella solidificazione del magma primordiale.
Una di queste aiuole, la più
grande ed articolata, è posta dietro l’altare principale. Alla base di un
grosso tronco fa capolino una testa di serpente sacro, il naga, ornata da un poleng,
la fascia a quadri bianchi e neri. Questo è un luogo particolarmente potente,
spiega Ketut in un sussurro. Qui sgorga, talvolta, un rivolo d’acqua, tenuta in
gran considerazione dai locali. Una preghiera fatta in questo luogo sembra
avere il potere di sedare qualsiasi disputa.
Le altre pietre sono poste
accuratamente secondo i punti cardinali della cosmogonia balinese, e portano i
segni della recente devozione: steli d’incenso in vassoi carichi di fiori.
I padiglioni e gli altari sono
stati recentemente rinnovati e restaurati ed ora gli intagli in legno brillano
di lacca rossa e oro. Una pala votiva raffigura un’esile Saraswati, la dea della sapienza e dell’arte. Pìù in là una
stupenda porta a due battenti riccamente intagliati reca scene del Ramayana, l’epica
hindù di origine indiana.
Le scimmie scendono nel tempio a
caccia dei resti delle offerte e s’abbuffano di riso, caramelle, tortine
soffiate. Due ragazze ridono nervose al bagliore del flash. Un fumo bianco e
denso s’alza da un mucchio di foglie che ardono senza fiamma, s’intreccia tra
le pietre muschiate e i tronchi giganti, ci segue mentre c’incamminiamo lungo
il sentiero nella foresta, si mescola agli incensi accesi che il prete prepara
per i prossimi visitatori.
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