Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

venerdì 21 marzo 2014

L’origine del kecak


Uno sbattere di secchi, un clangore di pentole, uno scrosciare di cembali, un battere di mani disperato. Solo il rumore, abbastanza forte da tenere lontane le influenze malefiche, poteva salvare dalla pestilenza gli abitanti di Bona, un villaggio nei pressi di Gianyar.

Attorno agli anni 30 del secolo scorso una terribile serie di morti colpì il villaggio, a seguito di un monsone novembrino particolarmente violento. Una tremenda epidemia colpì ogni famiglia, con sintomi che fecero pensare al vaiolo, tanto da dover organizzare più ngaben al giorno (la cremazione balinese). Sasih Kelima, il quinto mese del calendario Pawukon, fu visto come un momento fatale.
Senza dottori e nell’impossibilità di rivolgere suppliche agli dei perché i templi erano inaccessibili ai parenti dei numerosi morti, resi impuri dalla loro tragica fine, l’unica, disperata, via di scampo fu di esorcizzare il male col rumore.
Cominciarono di sera, battendo sulla sponda del letto, e di giorno, appena usciti di casa, si trovarono a sbattere su ogni pezzo di bambù, legno, latta. Ogni oggetto era percosso per creare una cacofonia comunitaria per resistere al male e allontanarne il malefico influsso.
Cak, cak, cak, cak.
Finché, una notte, un uomo cadde in trance, e il ritmo forsennato dei suoni e delle voci ne prese possesso. La sua voce si fuse con altre a formare una cadenza ipnotica, un coro estatico e potente. Così nacque il Kecak. Da allora la pestilenza diminuì fino a sparire completamente.
Oggi, per l’intuizione del pittore Walter Spies, quella che nacque come un tragico esorcismo sonoro, è riproposta drammatizzata e coreografata in forma di danza, con inserimento di elementi drammatici dal Ramayana.
Ma gli abitanti di Bona, che per anni hanno fatto conoscere in tutta Bali la loro performance, ancora credono nel potere salvifico di quel coro di disperati, fuori del tempio, in quella notte scura di morte.