Uno sbattere di
secchi, un clangore di pentole, uno scrosciare di cembali, un battere di mani
disperato. Solo il rumore, abbastanza
forte da tenere lontane le influenze malefiche, poteva salvare dalla pestilenza
gli abitanti di Bona, un villaggio nei pressi di Gianyar.
Attorno agli anni 30
del secolo scorso una terribile serie di morti colpì il villaggio, a seguito di
un monsone novembrino particolarmente violento. Una tremenda epidemia colpì
ogni famiglia, con sintomi che fecero pensare al vaiolo, tanto da dover
organizzare più ngaben al giorno (la
cremazione balinese). Sasih Kelima,
il quinto mese del calendario Pawukon,
fu visto come un momento fatale.
Senza dottori e
nell’impossibilità di rivolgere suppliche agli dei perché i templi erano
inaccessibili ai parenti dei numerosi morti, resi impuri dalla loro tragica
fine, l’unica, disperata, via di scampo fu di esorcizzare il male col rumore.
Cominciarono di sera,
battendo sulla sponda del letto, e di giorno, appena usciti di casa, si trovarono
a sbattere su ogni pezzo di bambù, legno, latta. Ogni oggetto era percosso per
creare una cacofonia comunitaria per resistere al male e allontanarne il
malefico influsso.
Cak, cak, cak, cak.
Finché, una notte, un
uomo cadde in trance, e il ritmo forsennato dei suoni e delle voci ne prese
possesso. La sua voce si fuse con altre a formare una cadenza ipnotica, un coro
estatico e potente. Così nacque il Kecak.
Da allora la pestilenza diminuì fino a sparire completamente.
Oggi, per l’intuizione
del pittore Walter Spies, quella che nacque come un tragico esorcismo sonoro, è
riproposta drammatizzata e coreografata in forma di danza, con inserimento di
elementi drammatici dal Ramayana.
Ma gli abitanti di Bona,
che per anni hanno fatto conoscere in tutta Bali la loro performance, ancora
credono nel potere salvifico di quel coro di disperati, fuori del tempio, in
quella notte scura di morte.
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