Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

lunedì 14 dicembre 2015

I villaggi di Timor occidentale


 Il Bombardier si alza leggero e silenzioso, spinto dalle turbine gemelle di coda, versione moderna delle possenti ali di Garuda, il veloce uccello sacro a Vishnu. Passano all’orizzonte i grandi vulcani e presto sfilano le azzurre alture di Sumbawa.  A bordo solo un caffè acquoso e bollente tiene lontana la scatola tristissima dello snack.
Il gigante decollato del Tambora si erge lontano sopra coorti di nuvole a fiocchi. Il profondo fiordo di Hu’u sembra una ferita aperta al centro del corpo dell’isola di Sumbawa. Lontano, verso nord, spicca la vetta tronca del Sangeang, vulcano che non cessa mai di elargire la sua materia fumante.
La pianura arida di Kupang si apre sotto di noi. Timor sfila veloce, ora al ritmo di un’auto in corsa. Ampi tratti di sterpaglie, rare boscaglie di alberelli privi di foglie. Il monsone del sudest soffia ancora caldo e secco dalle pianure australi e condiziona un clima aspro e una popolazione spigolosa e ruvida che pare nata dai rami nodosi dell’eucalipto.

Sipri, la mia guida, ha un bel sorriso ampio e sincero. Voce profonda, arrocchita dal fumo. Rughe gentili incorniciate da folti capelli scuri, con ciuffo lasciato libero. Il suo cognome, Da Silva, richiama i pochi coraggiosi portoghesi che, nel cinquecento, “scoprirono” queste terre e imposero la loro religione, i loro nomi e perfino i loro tratti. Un Topasse, come erano conosciuti i sangue misto frutto del radicamento in queste terre dei fieri portoghesi, abili nel commercio del legno di sandalo.
Attraversiamo i due grandi fiumi che scolpiscono la parte centrale di Timor, il Noelmina e il Benanain. Vasti letti sassosi che ricordano il Piave, profondi canyon tagliati nella friabile roccia sedimentaria. Poi la strade sale fino agli altopiani collinosi e brulli a ridosso della frontiera con l’est.

Temkesi – oltre la strada asfaltata si entra in una terra sospesa popolata da rifugiati da Timor Est. Hanno tagliato tutti gli eucalipti, per farne legna da ardere e da carpenteria, e ora la terra brulla e rossa rimane calcinata dal sole. Gli ultimi chilometri sono lungo i bordi arrotondati di basse colline, rivestite da una coltre di rigida peluria marrone che avvolge coriacea grossi affioramenti basaltici. Il villaggio risale al 17° secolo ed è stato fondato da un principe di etnia Biboki.  Si trova in cima ad una ripida salita rocciosa, annidato tra due pinnacoli di pietra che sembrano due guardie armate. Ci sono varie Lopo, una ampia casa del rajah, abitata solo in occasione delle grandi cerimonie per il raccolto. Ogni capanna ha davanti un bastone, che rappresenta il potere maschile.



Oelolok – in fondo ad una strada alberata, un grande palazzo di stile coloniale eretto i primi del novecento. Cadente, muri sbrecciati, giardino arso e incolto, infissi sfondati. A fianco una enorme lopo sostenuta da 9 colonne lignee, ciascuna intagliata con un proprio motivo geometrico. Il tetto, in origine rivestito di strati di foglie secche, è ora di lamiera arrugginita, il che non fa che accrescere l’aria di mesto abbandono e di lontananza da alcunché di culturale locale. Triste.

Maubesi – un paesotto lungo la strada grande. Ogni famiglia possiede più capanne, le moderne sulla strada, le tradizionali ume kebubu e lopo, più indietro. Anton Naikofi mi apre orgoglioso il suo “art shop”, l’unico negozio dove trovare oggetti di artigianato. E’ una specie di retrobottega polveroso, dove tessuti, statue, portali intagliati, maschere sono messi alla rinfusa, accostati in modo casuale a sedie, tavoli e poltrone sfondate. Ma è una grotta di Ali Babà e alcuni pezzi del tesoro sono pregevoli.

Boti – dal bivio di Niki Niki, la strada si inerpica sulle colline e abbandona presto la asfaltatura per la sua vera natura di sterrato pietroso. In cima ad una salita, sotto un albero ampio e frondoso, si appoggia un misero recinto con cancello metallico. Alcune famiglie, riunite attorno al giovane figlio di un vecchio rajah, vivono nell'ortodossia animista. In realtà, si coglie  una certa elasticità verso il compromesso, visto il generatore di corrente e la larga parabola per la televisione che stanno dietro la casa padronale. L’accoglienza del viandante si dipana secondo una cortesia rituale che non manca di lasciare il segno. Sotto l’ampia veranda, al riparo del sole che cuoce le cime delle colline, sono immediatamente serviti teh, caffè dolci e banane bollite. Il visitatore offre una modesta donazione e il sirih-pinang e, a sua volta, ne prende un pizzico per cortesia. Gli sguardi indagatori sono scambiati come i doni, avvolti da lunghi silenzi. I maschi, fratelli o cugini, si assomigliano tutti. 


Sguardi profondi come laghi di montagna, sorrisi accennati da budda risvegliati. La sensazione di pace avvolge l'intensità dell’accoglienza, solleticata dai giochi che faccio con un figlio piccolo e la macchina fotografica. Ma l’emozione fa venire le foto tutte mosse. Il bimbo ride, e gli adulti, rilassati, masticano betel. Solo la matriarca, vedova del vecchio rajah, conserva uno sguardo indagatore e severo, da patrizia.


Non permettono che si violi l’intimità delle ume kebubu, dove i riti domestici s’intrecciano ad antiche consuetudini. Nemmeno posso vedere dove tengono i preziosi gong e gli oggetti legati agli antenati, racchiusi in contenitori intrecciati e appesi al soffitto.
La volontà del rajah, di condividere alcune parti del loro vivere quotidiano, si vede nelle donne che mostrano ai visitatori l’intero processo di tessitura. Dalla cardatura del cotone, coltivato in loco, alla pre-filatura con l’archetto, alla filatura col fuso. Altre due donne sono intente alla tessitura di sciarpe. Il tutto viene messo a disposizione, in modo discreto, in un negozietto lì al lato.

Benteng None – pochi km dopo Niki Niki, si percorre un breve sentiero di terra rossa e pietre. Alcune lopo e capanne, costruite su un affioramento roccioso protetto da precipizi su tre lati e un basso muretto a secco di pietre e coralli. Le donne arrivano in fretta e mettono in mostra, sulla piattaforma di una lopo, decine di oggetti intagliati, scatole rivestite di perline, piccole maschere, bracciali di ottone e argento, fionde. Appare un uomo, trafelato, masticando betel, vestito con costume tradizionale. E’ l’ultimo discendente dei fieri cacciatori di teste della tribù Amanuban. Si presenta come “l’addetto culturale” del villaggio. Con fare deciso, spiega il significato di quello che è in realtà da secoli un fortino, un luogo dal quale gli uomini si preparavano alla battaglia con le tribù confinanti dei Mollo e dei Amenatun. Si mette in posa, orgoglioso, sguardo febbrile e carico di responsabilità, in ognuno dei luoghi specifici della spianata da cui, in modo ritualizzato, si decidevano le sorti dell’eventuale battaglia. La sua narrazione è sicura, dettagliata. Prima il consiglio del villaggio si riuniva al luogo chiamato penè a discutere quale tribù attaccare, osservando le mosse dei nemici, giù nella valle (e lui si mette a terra, gambe intrecciate, masticando lentamente). 


Poi, con un secondo incontro, nel sito chiamato ote naus, si verificava il destino dell’imminente battaglia attraverso una divinazione. Si rompeva un uovo e eventuali tracce di sangue in esso erano considerate cattivo presagio. In caso invece positivo, la seconda prova comportava verificare l’abilità fisica dei guerrieri. Gli uomini, a turno, dovevano afferrare i due estremi di un manico di lancia, il none, spinto contro un grosso palo, allungando al massimo le braccia (lui si tende all’estremo, col pollice della mano destra sfiora il palo, il volto teso nello sforzo).  Se non potevano toccare il palo con un pollice mentre con l'altra mano a coppa tenevano l’estremità opposta del bastone, avrebbero sicuramente trovato la morte. La procedura dava la previsione cruciale 'vivremo' o 'moriremo' a seguito della scorreria. In caso negativo, naturalmente, il raid veniva sospeso e si doveva ricominciare dal principio, con una nuova decisione collettiva al penè per deciderne la necessità.


L’uomo si aiuta con una lancia spuntata, spara dalle feritoie ai lati del muro con un moschetto di legno, fende l’aria minaccioso con un vero parang.  Ora sudato per la prestazione, s’infervora alle richieste di chiarimento, sputa risoluto la sua morchia vermiglia, che si confonde presto con la polvere rossastra del terreno. Esauriente, conciso, efficace.
Al tramonto, la luce esalta i toni rossi, rosa e oro della terra, delle pietre e del fogliame dei tetti. Coinvolgente, fondamentale, imperdibile.

Il popolo Dawan, a Timor Ovest, tradizionalmente costruisce tre tipi di abitazioni, chiamate Lopo le'u (casa sacra), Lopo (casa) e ume kebubu (casa rotonda). La Lopo le'u è un luogo sacro in cui sono custodite reliquie ancestrali e si tengono le cerimonie rituali. Lopo e ume kebubu sono invece i luoghi dove la gente vive, in cui si svolgono le attività di tutti i giorni, siano esse private, sociali o comuni. Mentre la ume kbubu è lo spazio più propriamente privato della famiglia, dove si cucina e si dorme, la Lopo è associato alle relazioni sociali all’interno della comunità. Questa tettoia a cupola, rivestita di paglia, ricorda un mezzo alveare. E’ sostenuta da quattro grandi tronchi d'albero che hanno, a mo’ di capitello, grandi dischi di pietra o di legno per evitare ai ratti di salire nel sottotetto. Il pavimento è una rotonda piattaforma sopraelevata di pietra e fango. La Lopo è un luogo di riparo dal gran caldo; un luogo dove tessere e scolpire, o per sedersi a chiacchierare, masticando betel. Il sottotetto è a un tempo granaio e dispensa dove raccogliere e conservare il mais raccolto, spesso assieme agli oggetti preziosi tramandati da generazioni, i tessuti, le statue degli antenati, i gioielli.


domenica 6 dicembre 2015

Le barche hanno occhi


La strada per raggiungere Lamalera è nata sentiero, cresciuta piena di buche e ora, adulta, si concede in parte ricoperta di un asfalto sbrecciato e estemporaneo. Attraversa basse colline ricoperte di boschi e foreste. Sullo sfondo, alcune altezze oltre i mille metri aumentano l’asprezza dei luoghi. Eucalipti per fare legna da ardere, stretti bambù (chiamati bélan) per costruire capanne, pareti e pavimenti, alti kemiri, l’Aleurites frondosa dove ogni frutto da una preziosa doppia noce, teak giovani e sottili con le foglie come orecchie di elefante e, tra tutti, piccoli appezzamenti di odorosi anacardi.
Dietro una curva o sotto un tornante, spuntano gli ultimi tratti di foresta vergine, un intrico di grosse liane avvinghiate agli alti ditterocarpi.
E’ una vegetazione arida, in perenne lotta con l’uomo, che la incendia per preparare la terra a nuove semine di riso e mais. Stretti terrazzamenti, grigi di cenere. Quasi pronti per la nuova stagione delle piogge, che quest’anno non vuole arrivare. Sulle piogge, puntuali anche se non proprio abbondanti, si basa la società dell’isola di Lembata, per nutrire un’agricoltura di sussistenza. Una dipendenza codificata da regole e cerimonie per inglobarla in un modo di vivere precario, adesso sempre più incerto. Un complesso di riti obbligatori da svolgersi in caso di ritardo o scarsità, intrecciato all'ossessiva ricerca delle cause di questi intoppi naturali tra comportamenti non confacenti o conflitti tra clan.
La strada passa minuscoli villaggi e rare capanne di contadini. Il mezzo di trasporto collettivo è un grosso camion con panche di legno sul pianale, protetto dalla polvere da una ampia tenda rosa. Corpi asciutti e scuri emergono silenziosi dalla boscaglia con enormi fasci di rami e foglie in equilibrio su uno sguardo stanco.


Lamalera abbraccia la sua spiaggia nera, che da secoli le dà la vita e la morte. Le case debordano fin in spiaggia e si trasformano in un arco di ricoveri di bambù e foglie che proteggono l’unico bene supremo, le peledang o téna, i lunghi barconi di legno usati nella pesca. Il sole cuoce i resti degli scheletri di capodoglio, sparsi un po’ ovunque, come un cartello segnaletico inequivocabile. Strisce di carne scura e grasso giallastro sono appese a seccare all'aria salsa. 
Uomini seri, scuri in volto (niente baleo per l’intera settimana), stretti alle proprie barche, sparsi sotto i ricoveri, dormono, acconciano le reti, fumano. Poche parole fluttuano in quest’atmosfera arroventata e greve. Un vecchio si rigira sullo stretto ponte di prua, avvolto nel suo sonno inquieto. Frotte di bimbetti seminudi sfidano la calura giocando e ridendo sul bagnasciuga, incuranti e persi nel loro mondo acqueo e sabbioso.

La tradizionale caccia alla balena, il baleo, è iniziata tra i pescatori di etnia Lamaholot del villaggio di Lamalera fin dal 16° secolo. Tra i maschi di ogni famiglia vengono scelti coloro che, per abilità o discendenza, possono far parte di un equipaggio.
L'equipaggio di una baleniera (il baleo) è formato da tre tipi distinti di membri. Il Lama Uri è il timoniere.  I Matros o Méng sono i generici vogatori e il Lama Fa è l’arpionatore, che sta appollaiato sulla piattaforma che si protrae dalla prua.

Le barche sono realizzate a mano dal legno dell'albero kana (un legno di colore rosso utilizzato per costruire l'asse principale) e sono riccamente decorate con i simboli del clan proprietario della barca.
Non tutte le specie di balene possono essere arpionate dai Lama Fa. Viene fatta una selezione al momento dell’avvicinamento e solo esemplari adulti e non gravidi sono inseguiti e arpionati. In più,  la grande balena azzurra è tabù,  per l'antica leggenda che la vuole aver aiutato i primi abitanti durante la fondazione del villaggio.


I pescatori riescono a catture fino a una ventina di cetacei all'anno,  durante una stagione che va tradizionalmente da maggio ad ottobre, in occasione delle grandi migrazioni e quando i mari sono più calmi. La carne di balena, come di ogni altra preda catturata, manta gigante, squalo o delfino, viene macellata sulla spiaggia del villaggio e distribuita proporzionalmente tra i membri dell'equipaggio e le loro famiglie, facendo in modo che tutti ne abbiano per le loro esigenze. Si ricava anche l'olio, utilizzato nei massaggi, ingrediente di medicinali e combustibile per lampade.
Nulla si coltiva sui sassi polverosi e arsi che circondano il villaggio e l’unico modo per procurarsi riso e mais, verdura e frutta è scambiare a dozzine tranci di leviatano e orci del suo olio. Il mercato del baratto ora si tiene a Lamalera Bawah (L. Bassa), ogni giovedì. Fino a poco tempo fa si teneva al vicino Wulandoni, poi c’è stato un battibecco sul valore di scambio e le donne di Lamalera che organizzano il fule, il luogo dedicato allo scambio, hanno deciso di riaprire le bancarelle nel proprio villaggio, come una volta.


Qui le barche hanno occhi che ti guardano intensi. Quando ti sposti il loro sguardo si perde nel blu intenso di un mare senza fine. Scrutano incessanti. Cercano la preda, la fonte di ogni vita. 

venerdì 20 novembre 2015

Il rito inurbato

Jalan Oberoi è una delle strade più trafficate di Bali. Attraversa un’area, a ridosso della spiaggia di Seminyak, carica di negozi, ristoranti, hotel, bar e ritrovi notturni. E’ qui che i residenti, con evidente disagio, misurano il grado di affollamento dell’isola, sulla base di quanti turisti e trasporti su ruote transitano ad una cert’ora.


Stamane era il momento dell’attraversamento di una processione balinese, una delle varie cerimonie sacre che seguono la cremazione. E’ stata l’occasione per misurare il grado di adattamento dei riti induisti balinesi all'epoca delle grandi invasioni del turismo di massa e dello sviluppo urbano impetuoso ed irrispettoso.
Una volta si assisteva ad una sfilata di famigli, amici e abitanti del banjar, accompagnata dal suono ritmato di un gamelan itinerante e vestita di paramenti pastello, che attraversava stradine di terra battuta semi-deserte e, in fila indiana, gli stretti passaggi tra le risaie fino a raggiungere, a passo lento e mesto, la riva del mare, per affidare al dio Baruna, iracondo e misterioso, le ceneri del defunto. E questo si vede ancora nelle vaste campagne dell’isola e nei villaggi montani.
Al sud, nella grande area inurbata e greve di presenze visitanti, molto è cambiato, in linea con una sorta di ineluttabile necessità di adattare il rito alla frenesia del tempo moderno.
La cadenza del passo si fa più veloce, consapevoli che si occupa lo spazio asfaltato a motorini, auto, camioncini, biciclette, taxi, minibus, pullman, autoarticolati carichi di mercanzie. Il gamelan detta tempi più rapidi e si procede spediti al suono di una marcetta.
L’alta torre di cartapesta a tetti dispari sovrapposti si inclina rispettosamente all'esigenza delle nuove forche caudine: la miriade di cavi elettrici e telefonici che occupano interamente lo spazio subito sopra la strada. Il fulcro della cerimonia, il simulacro variopinto del morto che altrimenti svetta altezzoso come un cannone puntato verso il cielo, sembra ora monco, reclinato, caduto esso stesso sotto il peso di anarchiche vie elettriche.
La torre piegata, ahimè, non è sufficiente e una nuova leva di aiutanti è nata a Bali, armata di alti bambù con in cima una corta barra trasversa. Sono coloro che alzano i fasci scoordinati di cavi per consentire il passaggio dell’alto catafalco. La nuova specialità necessità una nuova grammatica ed allora ci sono voci di incitamento a sollevare tal cavo, di scherno perché un altro s’è impigliato su un meru. La posizione sociale delle nuove leve è valutata e misurata sull'abilità di far scorrere la processione senza intoppi.  

C’è sempre meno compostezza e mestizia in questi funerali e i famigliari balinesi, costretti dal loro lutto elaborato a percorrere strade aperte per i turisti e non per i propri bisogni, si trovano sempre più spesso a vociare, fermare il traffico, sbracciarsi, agitare lunghe pertiche, schivare turisti distratti e motoristi ritardatari. Forse si sta creando una diversa liturgia, di stampo urbano, adattata alla bolgia cittadina come certi uccelli e mammiferi, che non cedono all'estinzione.

giovedì 19 novembre 2015

La Mbaru Gendang, la casa tradizionale Manggarai


Una delle peculiarità dei Manggarai, etnia che popola due distretti di Flores centro-occidentale, è la loro casa tradizionale, costruita con la caratteristica forma conica, la Mbaru Gendang o Mbaru TembongMbaru significa casa e Tembong tamburo, uno strumento musicale rituale in legno e pelle di capra. Quasi ogni beo (villaggio) ha questa tipologia di abitazione collettiva.

Secondo la tradizione Manggarai, ci sono quattro tipi di case in un villaggio: Mbaru Gendang (casa tradizionale), Mbaru Tembong (casa dei discendenti), Mbaru Niang (casa della tribù), e Bandar  (casa degli abitanti del villaggio). 

Tra le molte funzioni della Mbaru Gendang c’è quella di essere il luogo di residenza degli anziani appartenenti ad una linea comune di discendenza, il Tua Golo, Tua Teno e Tua Panga. Rappresenta anche il luogo ove vengono prese decisioni importanti che riguardano la risoluzione delle dispute interne al villaggio e, nel contempo, deputato alla conservazione dell'eredità degli antenati, intesa come summa di regole da seguire. 

La Mbaru Gendang /Tembong è anche un simbolo di unità, di appartenenza ad un lignaggio, di fratellanza e di solidarietà sia tra gli abitanti del villaggio sia con quelli di altri villaggi e l'ambiente che li circonda, con particolare enfasi in merito ai diritti di proprietà della terra o Lingko (terre in comune coltivate a risaia).
Posizione e funzione sono cruciali e insieme hanno un significato strategico all’interno del villaggio, per questo i Manggarai identificano la loro filosofia con la frase one lingko pe'ang che fa riferimento ad un insieme unitario tra la casa come residenza e la terra degli avi (Lingko) come territorio regolato da diritti di proprietà ereditati di generazione in generazione dagli antenati.

Il Tua Golo, uno degli anziani di lignaggio che abitano la Mbaru Gendang /Tembong è colui che governa e sovrintende gli altri anziani. Il Tua Teno si occupa invece della suddivisione e distribuzione della terra, chiamata Lingko, e il Tua Panga è l’anziano che dirige un sub-clan, che è la struttura familiare di base.

La Mbaru Gendang /Tembong serve anche come sede per le cerimonie tradizionali come Penti, Cepa, Ta'e Kaba e Wagal/Nempung, e luogo dove ricevere e intrattenere gli ospiti importanti in visita al villaggio. Ha anche uno spazio specifico dove riporre una varietà di strumenti musicali tradizionali, come tamburi e gong. Un’altra zona interna è riservata ai bambini che praticano le danze come la Sanda e la Mbata, o suonano gli strumenti musicali tradizionali.

Secondo la gerarchia spaziale dei Manggarai, la casa è composta di tre parti principali. La zona inferiore, sotto il pavimento, chiamata ngaung, che è vista come un luogo oscuro, sotterraneo, regno degli spiriti malevoli dei morti. I Manggarai credono che gli spiriti delle persone morte, quando vogliono recare danno agli occupanti viventi di una casa, vanno ad insediarsi nell’area sottostante. In tempi antichi, un bambino che moriva in modo insolito ed inspiegabile, veniva sepolto sotto la casa, un luogo buio ed inutilizzato.

Lo spazio centrale, molto ampio, viene utilizzato come spazio aperto agli ospiti, circondato da un certo numero di camere da letto. Quest’area, detta lutur, rappresenta simbolicamente la luce del mondo che irradia continuamente vita su tutti gli abitanti del villaggio, soprattutto quelli che vivono nella Mbaru Gendang. In quest’area si possono identificare zone specifiche per svolgere cerimonie tradizionali o comunicare le delibere comunitarie o anche dove giacciono i cadaveri prima della sepoltura e il luogo per ricevere gli ospiti. Al centro di questo ampio spazio si trova il pilastro principale chiamato siri bongkok.

Su questo pilastro sono appese varie reliquie degli antenati come strumenti musicali tradizionali e altri cimeli. Durante la cerimonia lonto leok bantang cama (deliberazione e consenso) il leader tradizionale di solito si siede appoggiato al siri bongkok per presiedere la riunione. 

La terza area della casa è conosciuta col termine di lo'ang o camera da letto. Quest’area è suddivisa tra tutte le famiglie aventi diritto ancestrale di abitare la casa tradizionale. In questa area si trova anche il focolare o sapo. Nei tempi antichi, il sapo era inserito all’interno della casa, ma in uno sviluppo successivo, fu edificato separato da essa. 

L’ultima componente è l’ingresso o para (porta) inteso sia come l’andare e venire degli abitanti sia come luogo dove svolgere i sacrifici animali durante le cerimonie tradizionali, per fornire nutrimento ideale agli antenati e, più materiale, alla famiglia.


La forma conica della casa simboleggia la forma di un volto umano sempre rivolto "verso l'alto", che per i Manggarai è il luogo dove risiede il creatore, comunemente chiamato Mori (Dio). I Manggarai credono che gli esseri umani sono stati creati da Dio come forma più alta dell’intero creato.

 (with Cornelius Rahalaka )

mercoledì 18 novembre 2015

Il Triangolo di Corallo


Cos'è il Triangolo di Corallo?
Il Triangolo di Corallo è un termine geografico che identifica un’area di forma triangolare formata dalla sovrapposizione di zone marine e costiere di sei stati dell’Asia del Sudest: Indonesia, Malaysia, Papua New Guinea, Filippine, Isole Salomone e Timor-Leste.
Quest’area contiene almeno 500 specie di coralli in ogni eco-regione. Caratteristica principale che la identifica.
C’è un largo consenso nel mondo scientifico che identifica il Triangolo di Corallo come un epicentro mondiale di abbondanza e diversità di vita marina e quindi un luogo dove concentrare le priorità per la sua conservazione.
L’importanza di questo ecosistema è tale che, pur rappresentando appena l’1.6% degli oceani del pianeta, nel Triangolo di Corallo si trovano:
·       Il 53 % di tutte le barriere coralline del mondo,
·       Il 76 % di tutte le specie di corallo conosciute,
·       Il 50 % di tutte le specie di pesci della barriera corallina conosciute,
·       Il 75% delle specie di mangrovie che formano la più grande estensione di foreste al mondo,
·       Oltre il 40% di tutte le specie conosciute di piante che formano le praterie marine.

L’insieme eccezionalmente ricco di specie dell’insieme formato da foreste di mangrovie, praterie di piante marine e barriere coralline è habitat per la riproduzione e la crescita di innumerevoli specie di pesci di rilevanza commerciale, come ad esempio 5 specie su 6 di tonno.
La biodiversità è componente essenziale per mantenere sana la barriera corallina.
Una sana barriera corallina, formata da un ampio numero di specie diverse organizzate in comunità interdipendenti, può sopravvivere agli stress causati dal riscaldamento globale e dal cambiamento di clima più che un ecosistema con meno diversità.


Quali sono le minacce e i rischi riguardo al Triangolo di Corallo?
La ricca biodiversità del Triangolo di Corallo è minacciata da vari fattori, il principale dei quali è:
Il cambiamento globale del clima che porta con sé l’aumento della temperatura e del ph dell’acqua di mare, parametri che da soli portano allo sbiancamento del corallo e alla morte della barriera corallina.
Uniti a questi vi sono altre azioni, tutte di origine antropica, che direttamente o indirettamente alterano o distruggono la barriera corallina e gli altri ecosistemi acquatici associati:
·       Prelievo distruttivo delle risorse biologiche marine, come la pesca industriale senza limiti, la pesca fatta con mezzi distruttivi per l’ambiente come le bombe, che frantumano il corallo e decimano i pesci, e come il cianuro che, allo scopo di tramortire pochi individui, ne uccide altre centinaia e avvelena larghi tratti di barriera, o come il prelievo di corallo per farne materiale da costruzione,
·       L’inquinamento generale della fascia costiera, che sversa in mare scarichi reflui non trattati di origine sia industriale che urbana,
·       Il prelievo indiscriminato di risorse non biologiche, come minerali, petrolio e gas senza considerarne il pericoloso impatto sull'ambiente,
·       La deforestazione indiscriminata che, sia nelle foreste dell’entroterra che in quelle costiere di mangrovie, aumenta l’erosione dei suoli e il risultante apporto di sedimenti in mare e direttamente sulla barriera corallina, con la conseguenza di soffocarla e ucciderla,
·       La forte domanda di alcune specie marine da parte di certi mercati asiatici, che innesca localmente il sovra sfruttare dell’ecosistema costiero e corallino, portando rapidamente a rischio di estinzione numerose specie particolarmente sensibili, come il pesce Napoleone, alcune cernie di barriera, le oloturie, le tartarughe marine, alcuni mammiferi acquatici, ecc.
Nel Triangolo di Corallo già il 10-20% dei coralli sono stati distrutti senza possibilità di recupero e il 75% di tutte le barriere sono fortemente minacciate.

Popolazioni a rischio, cause e effetti.
Oltre 370 milioni di persone vivono nelle sei nazioni che formano il Triangolo di Corallo. 150 milioni vivono entro i confini dell’area e, di queste, 100 milioni dipendono in un modo o nell'altro dalle risorse che sono prelevate dall'ambiente costiero e marino. Tra queste ci sono 2.25 milioni di pescatori.

Larghe porzioni di queste popolazioni dovranno inevitabilmente cercare rifugio e lavoro altrove se continuerà la sottrazione di risorse marine, l’erosione della fascia costiera, la contrazione di suoli coltivabili e abitabili dovuta alla sparizione delle foreste di mangrovie e delle barriere coralline.

E’ molto probabile che la conseguenza sarà una serie di migrazioni di masse di persone verso zone più protette dell’entroterra, come le grandi città, esacerbando i problemi legati all'inurbamento.


In che maniera si opera per migliorare la situazione?
Innanzitutto è da sottolineare come, trattandosi di un problema legato al cambio globale del clima, il mondo scientifico stima che sia assolutamente necessario, almeno per fermare il riscaldamento globale, stabilizzare l’anidride carbonica dell’atmosfera sotto i 450 ppm.
Il WWF considera la regione una priorità d’intervento per la conservazione del mare ed ha attivato, nel 2007, il Coral Triangle Program.
Nel 2009 I governi degli stati che formano il Triangolo di Corallo hanno formato un’organizzazione interstatale di intervento chiamata la Coral Initiative che coordina i numerosi interventi intrapresi singolarmente e collettivamente a sostegno della conservazione dell’ambiente e delle popolazioni costiere, in questo aiutati dal finanziamento di alcune agenzie Internazionali. La C.I. ai muove a vari livelli per: 
·       Accrescere la conoscenza scientifica del problema attraverso l’organizzazione di Spedizioni di Ricerca che monitorano lo stato della barriera corallina,
·       Avviare iniziative di divulgazione delle conoscenze per accrescere nella popolazione il livello di consapevolezza, partendo dalla scuola,
·       Scegliere uno impiego sostenibile delle risorse biologiche,
     limitando la pesca industriale con l’adozione di quote annuali,
     abbandonando la pesca distruttiva a favore di sistemi selettivi,
     abbandonando il prelievo di corallo,
     bloccando il taglio delle mangrovie,
·       Avviare percorsi di conservazione e ripristino delle risorse ambientali attraverso:
     la creazione di aree marine protette, serbatoio di biodiversità,
     la riduzione dell’impatto ambientale industriale, urbano e turistico
     l’implementazione di uno sviluppo turistico eco-sostenibile
     l’attivazione di programmi di ripopolamento di coralli e altro organismi marini



Tra gli interventi di ripopolamento della barriera corallina, uno dei più efficaci ed innovativi è il cosiddetto Biorock che, attraverso l’uso della corrente elettrica a basso voltaggio, stimola la crescita e lo sviluppo di coralli impiantati su un substrato elettrificato e posto in mare a bassa profondità.

sabato 12 settembre 2015

La Sa’o Ria, casa tradizionale dei Lio di Koanara, Flores


Verticalmente, la Sa'o Ria può essere suddivisa in tre spazi principali: Lewu (Cantina), One (Spazio Centrale), e Padha (Attico). Lewu è lo spazio per gli animali domestici come cani, polli e maiali. One è lo spazio per l’immagazzinamento degli oggetti cerimoniali. Padha è il sottotetto, la zona sotto il colmo del tetto nella quale risiedono gli spiriti degli antenati.

Nella sezione centrale, dove risiedono gli occupanti della casa, si possono distinguere altre ripartizioni.

All'esterno vi è una bale-bale, una veranda che rimane protetta dal tetto. Il Bale-bale è ulteriormente suddiviso in due parti: la parte anteriore, più vicina al terreno, chiamata Magha Lo'o o Tenda Lo'o o piccola veranda. Magha Lo'o è composto da Tangi Java o primo gradino dal terreno, sotto cui c'è una pietra piatta chiamata Watu Lata Ha'i, per pulire i piedi in modo che le persone entrino in casa con i piedi puliti.
Tenda Lo'o è lo spazio dove sostano gli uomini e gli ospiti prima di entrare nella stanza principale della casa. Da questo luogo, le madri sorvegliano i bambini che giocano, mentre danno da mangiare a polli e maiali.
In passato, Tenda Lo'o era un luogo designato per Walu Ana Kalo Fai, le caste inferiori che vivevano in una Sa'o Ria. Dalla Tenda Lo'o si accede alla Tenda Ria o Magha Ria, la grande veranda che si estende lungo tutta la facciata della casa. Tenda Ria è più larga della Tenda Lo'o, e serve come un luogo per ricevere e intrattenere gli ospiti.
A metà della Tenda Ria si trova il Lata, la scala che dà accesso al Pene Ria (grande porta), esattamente al centro della facciata della casa. Ai due lati della Pene Ria, sono incisi un Mbedhi (fucile) e un Nipa (serpente in rilievo). Entrambi sono simboli di sicurezza. Dal Pene Ria, attraverso il Loro (il corridoio) si accede al One (la camera centrale). A destra e a sinistra del Loro ci sono due stanze, chiamate Magha Gania (camere anteriori) che servono come camera da letto per giovani e ospiti di sesso maschile.

Dopo le due Magha Gania, ci sono due Waja, o focolari, al cui centro si trova il Watu Laka, il fornello di pietra su cui viene messa una pentola durante la cottura. Proprio sopra il Waja c’è il Kae, cioè lo spazio dove si ripongono recipienti vari e attrezzi da cucina, in particolare le Podo Ria (grandi pentole), utilizzate solo durante le feste tradizionali. Vicino al Kae c’è il Noki, cioè il ripostiglio per la legna da ardere.

Al centro della casa si trova la One, la stanza principale della Sa'o Ria. La One è un po’ buia perché circondata dalle pareti di altre camere. Queste camere laterali sono chiamate Rimba o camere per le ragazze non maritate. Le camere sul retro invece si chiamano Magha Longgo, che significa aree riservate al Ata Laki Pu'u con le sue mogli.
La One si apre verso il Isi (colmo del tetto), che rappresenta il grembo della Sa'o Ria. All'angolo posteriore destro c'è uno spazio sacro chiamato Wisu Lulu. Qui sono collocati alcuni cimeli sacri, tra gli altri, un certo numero di Watu Pore (pietre che sanciscono accordi di confine tra gli antenati della casa e le altre genti limitrofe). C'è anche un Watu Pa'a, cioè una pietra vicino a cui mettere le offerte agli spiriti degli antenati. Inoltre, vi sono riposti anche un Roe Kiwi (piatto cerimoniale), un Sau (machete), Sue (zanna d’avorio) e Sundu (sciabola).
Questi oggetti sacri, oltre ad avere valenza storica, sono anche un segno tangibile della presenza immanente degli spiriti degli antenati. In questo luogo, il Wisu Lulu, i residenti pongono le offerte e celebrano gli spiriti degli antenati e del dio Du'a Ngga'e.
Sulla parete posteriore del One, in alto da sinistra a destra, corre trasversalmente il Lena, una mensola dove stivare il raccolto, collocato su una serie di piatti piani di terracotta, insieme ad altri strumenti. One è lo spazio comune a tutta la famiglia (una sorta di soggiorno), dove i membri della famiglia sono liberi di socializzare e giocare e gli estranei non sono ammessi.


La Sa'o Ria è costruita seguendo rigide regole ancestrali che danno un significato preciso ad ogni sua componente. Ecco un elenco delle parti principali.
1. Leke o Soko Boko (colonna)
La Sa'o Ria poggia su dodici colonne, chiamate Leke o Soko Boko. Ogni colonna è alta ± 1 metro e poggia verticalmente su una pietra piatta. Se visti dalla Kanga (lo spazio antistante la casa), i dodici pilastri sono distribuiti su quattro file e disposti secondo la forma naturale degli alberi, cioè la base in basso e la cima in alto. Due dei Leke più centrali si chiamano Leke Pera, o pilastri principali. Di solito ricavati dal legno più duro, servono da fulcro per il Mangu, che è la colonna principale che supporta il tetto. Data la loro funzione così importante, sotto il piedistallo dei Leke Pera vengono solitamente interrati pezzi d'oro o la testa di un bambino piccolo, sacrificato in occasione della costruzione della Sa'o Ria.
2.  Isi Gadha Ine
Sopra la fila posteriore di Leke, si colloca trasversalmente la Isi Gadha Ine, o trave. Oltre ad essere un rinforzo per i pilastri e una mensola, la Isi Gadha Ine serve anche come appoggio per la testa. Questa e le altre travi trasversali di rinforzo corrono longitudinalmente in senso antiorario, tutte le estremità rivolte verso destra.
3. Lata Hoja
A metà tra Waja e One corre una tavola trasversale chiamata Lata Hoja. Oltre che come separatore, serve come luogo di riposo.
4. Lani Halo
Di fronte a Lata Hoja vi è un’altra trave trasversale posta in cima ai Leke Pera, la Lani Holo Holo o Lata. Questa asse serve come appoggio per la testa.
5. Mbola Kadho
In cima a una tavola dentellata posta in corrispondenza del pilastro Mangu, si trova il Mbola Kadho, vale a dire una sorta di bara di legno a forma di barca. In essa sono riposti alcuni pezzi d'oro come i Rajo, a forma di barca, i Gabe a forma di luna piena e Ome a forma di vulva. L'oro è segno di grandezza, quindi non può essere usato come Belis (dote).
6. Ola Theo
Sulla trave Isi Hubu (colmo del tetto) è legata una corda chiamata Ola Theo. La corda è appesa esattamente in mezzo al One e serve a collegare il mondo soprannaturale con il mondo umano. All'estremità inferiore della corda è legato un piccolo cesto chiamato Timbi Theo, che contiene oggetti legati al culto degli antenati e, talvolta, un palco di cervo.
7. Isi Hubu
Isi Hubu è una trave trasversale sul colmo della casa, che corre da sinistra a destra sopra il centro della One. Questa trave deve essere installata dal fratello della moglie del Ata Laki Pu'u. Il fratello della “madre” è considerato come la fonte della vita.
8. Ana Wula Leja
In alto a destra, sopra lo Isi Hubu, si trova un pezzo di bambù chiamato Ana Wula Leja, sulla cui cima è posta una roccia piatta dove mettere le offerte per il dio Du'a Ngga'e.
9. Ate
Il tetto della Sa’o Ria è chiamato Ate. Ate è fatto di fasci di erba e si estende dal colmo fino alla congiunzione di pareti e pavimento della Sa'o Ria. Ate confina sia fisicamente che metafisicamente gli spazi, in senso verticale ed orizzontale. Separa la “natura interna” dalla “natura esteriore”, la “natura luminosa” della “natura oscura”.
10. Benga Toko
Vicino al Wisu Lulu, sul lato destro dell'ingresso della stanza sul retro, c'è una trave scolpita chiamata Benga Toko o Benga Bhei, che funge da palo di appoggio per lo Ata Laki Pu'u o Laki Ine Ame.

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venerdì 17 aprile 2015

Il miele di Indra

Ho incontrato I Wayan Durpa Adnyana curiosando fuori le “mura” di Tenganan Pengringsingan, su in cima, oltre il grande portale che segna il “finis terrae” del famoso villaggio dei Bali Aga.

I “balinesi di montagna”, i veri indigeni dell’isola, formano una società animista che risale a ben prima le ultime migrazioni cinquecentesche delle corti giavanesi dell’impero Majapahit, in fuga di fronte ai bellicosi sultani islamici.
Qui, e in poche altre enclave, gli antichi abitanti dell’isola hanno stabilito un rigido codice di comportamento e inflessibili norme matrimoniali endogamiche per mantenere intatte le loro antiche pratiche rituali. Chi non segue è ostracizzato e obbligato a vivere “fuori le mura”, nel ghetto dei paria.
In mezzo alla foresta secondaria, tra essenze lussureggianti e alberi da frutto secolari, si è accolti col sorriso composto di chi vive in pace con la natura e ne impiega con moderazione i frutti.

Pak Wayan sostiene di aver ricevuto l’ispirazione ed il consenso divini all’uso dei prodotti della foresta. Il taksu, o abi asian in balinese, viene direttamente da Indra, così come il divieto di abbattere gli alberi. E’ suo dovere preservare questo dono senza abusarne. Dewa Indra è al centro del culto di Tenganan e molti rituali ricordano la presenza nell’universo di una forza distruttiva e sanguinaria.

Con le sue mani callose, il padre di Wayan intreccia abilmente steli di hata (il fusto sottile di una felce rampicante del genere Lygodium) in cestini, scatole e coppe, scegliendo le parti nerastre basali per ottenere semplici abbellimenti geometrici. Il risultato è una trama tanto regolare da sembrare un tessuto.

Wayan, invece, si occupa delle api. Possiede poche arnie, dalla curiosa forma cilindrica. Il materiale è semplice bambù raccolto da ceppaie antiche, il più grosso e spesso. È la pianta preferita dalle api per nidificare. Trovata la colonia, la porzione di bambù che la contiene è tagliata via, tra due nodi, per una lunghezza di circa 50 cm. Una volta trasportata nell’orto, è spaccata longitudinalmente in due metà, poi riassemblate con stretti lacci di hata.

Sulle facce circolari, in corrispondenza dei nodi contigui, sono ricavati pochi forellini per dare accesso alle api. Il tutto viene appeso per il tempo necessario (tre o sei mesi) ad uno dei grossi rami di una palma della foresta, lì intorno. Solo quella palma può accogliere le arnie.

Wayan, seduto su una sedia traballante nel portico della sua casupola,  spiega che accudisce tre specie di api, o lebah in indonesiano. Le più comuni sono quelle di medie dimensioni, con l’addome zebrato molto simili all’ape europea, chiamate in balinese nyawan bali (Apis cerana). Questa specie preferisce il tronco della papaya e lo scava per ricavarne il nido. Talvolta, durante stagione con fioriture povere di polline, le api si nutrono dello strato di polpa zuccherina che rimane nel tronco dopo lo scavo del nido.

Raccolgono polline da una moltitudine di piante della foresta, da frutto e da legno. Il bayur (Pterospermum javanicum), albero altissimo dall’ottimo legno per case e mobilia, quando in fiore da un miele giallo paglierino.

I fiori del caffè regalano al miele un forte aroma, molto ricercato. Qui nel suo orto, in primavera, sono in fiore i manghi e i durian. Wayan mi porge una bottiglietta e un cucchiaino. Il miele che assaggio ha il colore delle loro infiorescenze gialle e un sapore inconfondibile di frutta matura. Ogni plenilunio raccoglie il miele, schiacciando semplicemente il favo contro un setaccio. Niente presse o centrifughe da queste parti, solo mani sapienti e colino in plastica da supermercato. Rapporto inverso tra livello tecnologico e delizia del palato.

Poi ci sono le piccole api nere (Trigona sp.), klanceng/lanceng in indonesiano, nyawan kele-kele in balinese, spesso scambiate per zanzare e impietosamente uccise dal turista sconsiderato. Sono lunghe pochi mm e con un pungiglione troppo piccolo per bucare la pelle. All'apertura dell’arnia Wayan si è messo a ghignare perché ne ero ricoperto. Tanta paura ma nessuna puntura.

Il miele è raro e scarso, vista la dimensione delle sacche polliniche e proviene da polline raccolto solo da fiori di palma, delle varie specie che affollano gli orti e i boschi dell’isola. Il gusto è asprigno ed il colore ambrato. Il nome, madu iran in balinese, o miele nero, richiama più la livrea dell’insetto che il suo colore. Molto ricercato dai balinesi che si affidano alle sapienze millenarie del dukun, lo sciamano del villaggio: va bene per tutto, dalle labbra screpolate alle coliche delle puerpere, dalle ustioni al mal di gola. Si raccoglie ogni sei mesi, ad inizio e fine della stagione delle piogge.

La raccolta del miele si fa di mattina fino a mezzogiorno. E’ la premura del Bali Aga verso le sue api nere. Lascia loro il tempo di sigillare la fessura che rimane dopo aver richiuso le due valve dell’arnia, o kungkungan. Solo la saliva collosa delle nyawan kele-kele riesce ad impedire alle formiche di entrare e fare festa tra miele, cera e larve. La “colla” è veramente adesiva e le mie dita impiastricciate strappano un altro sorriso a Wayan.

La terza specie è l’ubiquitaria ape gigante di foresta (Apis dorsata), o nyawan alas, in balinese chiamata anche dinding ay. Costruisce giganteschi nidi nei rami alti dei giganti della foresta. Non si addomestica e produce in abbondanza un miele multiflora, molto difficile da raccogliere. L’ho incontrata spesso nelle camminate in giungla e la massa brulicante di grossi insetti mette paura.

Wayan Mideh, del vicino villaggio di Selumbung, Manggis, dove l’apicultura è oramai una tradizione centenaria, mi racconta con orgoglio che vengono anche grossisti giapponesi, attirati dalle proprietà medicamentose del miele nero. I quasi 70 contadini possiedono da queste parti oltre 2000 arnie e riescono a guadagnare di che pagare la scuola ai figli. Ringraziano Wisnu per aver custodito questo insetto prodigioso, i cui benefici sono elencati in vari testi sacri indù. Col suo sorriso sdentato spia i miei capelli bianchi e, ironico, afferma che devo assolutamente provare l’agopuntura col pungiglione dell’ape, che i vecchi del villaggio considerano eccellente per reumatismi e artrite.