Ho incontrato I Wayan Durpa Adnyana curiosando fuori le “mura” di Tenganan Pengringsingan, su in cima, oltre il grande portale che segna il “finis terrae” del famoso villaggio dei Bali Aga.
I “balinesi di montagna”, i veri indigeni dell’isola, formano una società animista che risale a ben prima le ultime migrazioni cinquecentesche delle corti giavanesi dell’impero Majapahit, in fuga di fronte ai bellicosi sultani islamici.
Qui, e in poche altre enclave, gli antichi abitanti dell’isola hanno stabilito un rigido codice di comportamento e inflessibili norme matrimoniali endogamiche per mantenere intatte le loro antiche pratiche rituali. Chi non segue è ostracizzato e obbligato a vivere “fuori le mura”, nel ghetto dei paria.
In mezzo alla foresta secondaria, tra essenze lussureggianti e alberi da frutto secolari, si è accolti col sorriso composto di chi vive in pace con la natura e ne impiega con moderazione i frutti.
Pak Wayan sostiene di aver ricevuto l’ispirazione ed il consenso divini all’uso dei prodotti della foresta. Il taksu, o abi asian in balinese, viene direttamente da Indra, così come il divieto di abbattere gli alberi. E’ suo dovere preservare questo dono senza abusarne. Dewa Indra è al centro del culto di Tenganan e molti rituali ricordano la presenza nell’universo di una forza distruttiva e sanguinaria.
Con le sue mani callose, il padre di Wayan intreccia abilmente steli di hata (il fusto sottile di una felce rampicante del genere Lygodium) in cestini, scatole e coppe, scegliendo le parti nerastre basali per ottenere semplici abbellimenti geometrici. Il risultato è una trama tanto regolare da sembrare un tessuto.
Wayan, invece, si occupa delle api. Possiede poche arnie, dalla curiosa forma cilindrica. Il materiale è semplice bambù raccolto da ceppaie antiche, il più grosso e spesso. È la pianta preferita dalle api per nidificare. Trovata la colonia, la porzione di bambù che la contiene è tagliata via, tra due nodi, per una lunghezza di circa 50 cm. Una volta trasportata nell’orto, è spaccata longitudinalmente in due metà, poi riassemblate con stretti lacci di hata.
Sulle facce circolari, in corrispondenza dei nodi contigui, sono ricavati pochi forellini per dare accesso alle api. Il tutto viene appeso per il tempo necessario (tre o sei mesi) ad uno dei grossi rami di una palma della foresta, lì intorno. Solo quella palma può accogliere le arnie.
Wayan, seduto su una sedia traballante nel portico della sua casupola, spiega che accudisce tre specie di api, o lebah in indonesiano. Le più comuni sono quelle di medie dimensioni, con l’addome zebrato molto simili all’ape europea, chiamate in balinese nyawan bali (Apis cerana). Questa specie preferisce il tronco della papaya e lo scava per ricavarne il nido. Talvolta, durante stagione con fioriture povere di polline, le api si nutrono dello strato di polpa zuccherina che rimane nel tronco dopo lo scavo del nido.
Raccolgono polline da una moltitudine di piante della foresta, da frutto e da legno. Il bayur (Pterospermum javanicum), albero altissimo dall’ottimo legno per case e mobilia, quando in fiore da un miele giallo paglierino.
I fiori del caffè regalano al miele un forte aroma, molto ricercato. Qui nel suo orto, in primavera, sono in fiore i manghi e i durian. Wayan mi porge una bottiglietta e un cucchiaino. Il miele che assaggio ha il colore delle loro infiorescenze gialle e un sapore inconfondibile di frutta matura. Ogni plenilunio raccoglie il miele, schiacciando semplicemente il favo contro un setaccio. Niente presse o centrifughe da queste parti, solo mani sapienti e colino in plastica da supermercato. Rapporto inverso tra livello tecnologico e delizia del palato.
Poi ci sono le piccole api nere (Trigona sp.), klanceng/lanceng in indonesiano, nyawan kele-kele in balinese, spesso scambiate per zanzare e impietosamente uccise dal turista sconsiderato. Sono lunghe pochi mm e con un pungiglione troppo piccolo per bucare la pelle. All'apertura dell’arnia Wayan si è messo a ghignare perché ne ero ricoperto. Tanta paura ma nessuna puntura.
Il miele è raro e scarso, vista la dimensione delle sacche polliniche e proviene da polline raccolto solo da fiori di palma, delle varie specie che affollano gli orti e i boschi dell’isola. Il gusto è asprigno ed il colore ambrato. Il nome, madu iran in balinese, o miele nero, richiama più la livrea dell’insetto che il suo colore. Molto ricercato dai balinesi che si affidano alle sapienze millenarie del dukun, lo sciamano del villaggio: va bene per tutto, dalle labbra screpolate alle coliche delle puerpere, dalle ustioni al mal di gola. Si raccoglie ogni sei mesi, ad inizio e fine della stagione delle piogge.
La raccolta del miele si fa di mattina fino a mezzogiorno. E’ la premura del Bali Aga verso le sue api nere. Lascia loro il tempo di sigillare la fessura che rimane dopo aver richiuso le due valve dell’arnia, o kungkungan. Solo la saliva collosa delle nyawan kele-kele riesce ad impedire alle formiche di entrare e fare festa tra miele, cera e larve. La “colla” è veramente adesiva e le mie dita impiastricciate strappano un altro sorriso a Wayan.
La terza specie è l’ubiquitaria ape gigante di foresta (Apis dorsata), o nyawan alas, in balinese chiamata anche dinding ay. Costruisce giganteschi nidi nei rami alti dei giganti della foresta. Non si addomestica e produce in abbondanza un miele multiflora, molto difficile da raccogliere. L’ho incontrata spesso nelle camminate in giungla e la massa brulicante di grossi insetti mette paura.
Qui, e in poche altre enclave, gli antichi abitanti dell’isola hanno stabilito un rigido codice di comportamento e inflessibili norme matrimoniali endogamiche per mantenere intatte le loro antiche pratiche rituali. Chi non segue è ostracizzato e obbligato a vivere “fuori le mura”, nel ghetto dei paria.
In mezzo alla foresta secondaria, tra essenze lussureggianti e alberi da frutto secolari, si è accolti col sorriso composto di chi vive in pace con la natura e ne impiega con moderazione i frutti.
Pak Wayan sostiene di aver ricevuto l’ispirazione ed il consenso divini all’uso dei prodotti della foresta. Il taksu, o abi asian in balinese, viene direttamente da Indra, così come il divieto di abbattere gli alberi. E’ suo dovere preservare questo dono senza abusarne. Dewa Indra è al centro del culto di Tenganan e molti rituali ricordano la presenza nell’universo di una forza distruttiva e sanguinaria.
Con le sue mani callose, il padre di Wayan intreccia abilmente steli di hata (il fusto sottile di una felce rampicante del genere Lygodium) in cestini, scatole e coppe, scegliendo le parti nerastre basali per ottenere semplici abbellimenti geometrici. Il risultato è una trama tanto regolare da sembrare un tessuto.
Wayan, invece, si occupa delle api. Possiede poche arnie, dalla curiosa forma cilindrica. Il materiale è semplice bambù raccolto da ceppaie antiche, il più grosso e spesso. È la pianta preferita dalle api per nidificare. Trovata la colonia, la porzione di bambù che la contiene è tagliata via, tra due nodi, per una lunghezza di circa 50 cm. Una volta trasportata nell’orto, è spaccata longitudinalmente in due metà, poi riassemblate con stretti lacci di hata.
Sulle facce circolari, in corrispondenza dei nodi contigui, sono ricavati pochi forellini per dare accesso alle api. Il tutto viene appeso per il tempo necessario (tre o sei mesi) ad uno dei grossi rami di una palma della foresta, lì intorno. Solo quella palma può accogliere le arnie.
Wayan, seduto su una sedia traballante nel portico della sua casupola, spiega che accudisce tre specie di api, o lebah in indonesiano. Le più comuni sono quelle di medie dimensioni, con l’addome zebrato molto simili all’ape europea, chiamate in balinese nyawan bali (Apis cerana). Questa specie preferisce il tronco della papaya e lo scava per ricavarne il nido. Talvolta, durante stagione con fioriture povere di polline, le api si nutrono dello strato di polpa zuccherina che rimane nel tronco dopo lo scavo del nido.
Raccolgono polline da una moltitudine di piante della foresta, da frutto e da legno. Il bayur (Pterospermum javanicum), albero altissimo dall’ottimo legno per case e mobilia, quando in fiore da un miele giallo paglierino.
I fiori del caffè regalano al miele un forte aroma, molto ricercato. Qui nel suo orto, in primavera, sono in fiore i manghi e i durian. Wayan mi porge una bottiglietta e un cucchiaino. Il miele che assaggio ha il colore delle loro infiorescenze gialle e un sapore inconfondibile di frutta matura. Ogni plenilunio raccoglie il miele, schiacciando semplicemente il favo contro un setaccio. Niente presse o centrifughe da queste parti, solo mani sapienti e colino in plastica da supermercato. Rapporto inverso tra livello tecnologico e delizia del palato.
Il miele è raro e scarso, vista la dimensione delle sacche polliniche e proviene da polline raccolto solo da fiori di palma, delle varie specie che affollano gli orti e i boschi dell’isola. Il gusto è asprigno ed il colore ambrato. Il nome, madu iran in balinese, o miele nero, richiama più la livrea dell’insetto che il suo colore. Molto ricercato dai balinesi che si affidano alle sapienze millenarie del dukun, lo sciamano del villaggio: va bene per tutto, dalle labbra screpolate alle coliche delle puerpere, dalle ustioni al mal di gola. Si raccoglie ogni sei mesi, ad inizio e fine della stagione delle piogge.
La raccolta del miele si fa di mattina fino a mezzogiorno. E’ la premura del Bali Aga verso le sue api nere. Lascia loro il tempo di sigillare la fessura che rimane dopo aver richiuso le due valve dell’arnia, o kungkungan. Solo la saliva collosa delle nyawan kele-kele riesce ad impedire alle formiche di entrare e fare festa tra miele, cera e larve. La “colla” è veramente adesiva e le mie dita impiastricciate strappano un altro sorriso a Wayan.
Wayan Mideh, del vicino villaggio di Selumbung, Manggis, dove l’apicultura è oramai una tradizione centenaria, mi racconta con orgoglio che vengono anche grossisti giapponesi, attirati dalle proprietà medicamentose del miele nero. I quasi 70 contadini possiedono da queste parti oltre 2000 arnie e riescono a guadagnare di che pagare la scuola ai figli. Ringraziano Wisnu per aver custodito questo insetto prodigioso, i cui benefici sono elencati in vari testi sacri indù. Col suo sorriso sdentato spia i miei capelli bianchi e, ironico, afferma che devo assolutamente provare l’agopuntura col pungiglione dell’ape, che i vecchi del villaggio considerano eccellente per reumatismi e artrite.
Bell'articolo. Originale ed esaustivo riguardo ad un argomento di cui pochi conoscono l'importanza sia tra gli stranieri che vivono qui sia tra i giavanesi stessi che popolano l'isola oggigiorno. GRAZIE !!!
RispondiEliminalaura