Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

giovedì 31 dicembre 2020

La casa Dayak Benuaq

   

    In lingua Kutai ci si riferisce alle longhouse di questa parte Orientale del Kalimantan Indonesiano come rumah lamin o lou, come la chiamano i Dayak Benuaq.

    Quando ho visitato la Lou Pepas Eheng, pak Sius, al secolo Denisius, mi ha raccontato, oltre alle sue tristi vicende personali, anche molti aspetti dei simboli legati all’edificio e alcune notizie sulla comunità Benuaq che ci abita.

      La Lou Eheng è una palafitta lunga 74 metri e larga, in totale, oltre 30 m, con un'altezza di 3-4 metri. Poggia su una fitta rete di decine pali di ulin, legno ferro, di diametro diverso (i 13 principali, ricavati da tronchi interi, fino a 1 m), piantati fino a 1,5 m nel terreno, che mantengono il pavimento ad un’altezza anche di 2 metri da terra. Sotto il primo palo, piantato all’inizio della costruzione, anticamente si sotterrava la testa di un dayak ucciso in un raid apposito.

    Le pareti sono fatte di assi o corteccia, mentre il tetto è rivestito di tegole di legno. Il pavimento è formato da tavole di legno (nelle costruzioni più semplici, listelli di bambù).

    Attualmente vivono qui 12 capifamiglia di comune ascendenza, per un totale di quasi 40 persone. Solo pochi anni fa, racconta, erano 100 abitanti divisi in 32 famiglie.

    Se si devono aggiungere altre famiglie, la casa può aumentare in lunghezza. La lou è costituita da spazi abitativi, le stanze o orook, divisi da muri che separano una famiglia dall'altra e sono, in qualche modo, modulari. In ogni orook possono, anche temporaneamente, vivere più membri consanguinei della stessa famiglia, nonni, zii e cugini.

    Lo spazio davanti alle stanze è una area vuota longitudinale, lunga quanto la casa, utilizzata come luogo di ritrovo/lavoro, spazio per riunioni pubbliche (inuq) e per cerimonie tradizionali, dormitorio per i visitatori (stesi su stuoie intrecciate, o apai jaliq). Verso l’esterno comunica con un porticato per mezzo di una serie di porte dotate di scala (can) per scendere a terra, che si ripetono uguali dal lato interno e danno accesso alle orook. Sulla parte posteriore delle stanze si trovano le zone adibite a dispensa (lepubung) e cucina (jayung).


    Questa tipologia di abitazione tradizionale contiene in sé una varietà di significati, non solo come riparo, ma anche come rappresentazione del modo di pensare e di vivere dei Dayak Benuaq.

    Erigere una lou significa non solo dare forma ai valori “fisici” della protezione e della sicurezza domestica, ma anche fornire spazio adeguato alle attività culturali che esprimono i valori di unità, solidarietà, tolleranza, responsabilità verso sé stessi, la famiglia, la società, l'universo e la divinità. Infatti, forma e ripartizione degli spazi si rifanno alla cosmologia dei Benuaq e all'armonia della vita umana con l'universo. Una casa è l'incarnazione del processo della vita umana dalla nascita alla morte, una rappresentazione dei valori della famiglia, della solidarietà e cooperazione (in indonesiano gotong royong). Leggendo la struttura e l’organizzazione spaziale delle forme edilizie della lou è possibile analizzare la simbologia del mondo spirituale, di norme, credenze e filosofie della società Dayak Benuaq.

    Attualmente il villaggio di Eheng è composto da una longhouse, più altre case unifamiliari costruite intorno ad essa. I Benuaq sono animisti e credono in molti tipi di spiriti (wook) che si pensa vaghino per l'ambiente. Questi spiriti sono variamente associati con l'acqua, la foresta, gli alberi, il cielo, gli uccelli, la terra e il villaggio stesso. La maggior parte degli spiriti è benevola, se viene ricompensata dai beliant (sciamani) con offerte adeguate in occasione di rituali periodici chiamati guguq tautng o rituale del ”passaggio (durante) l'anno. Durante il guguq tautng, che può durare diverse settimane, gli spiriti che “risiedono” nella longhouse vengono invocati e appagati dagli sciamani, sia come ringraziamento per un anno favorevole o per cercare aiuto nel liberarsi dalle difficoltà causate, ad esempio, da un'epidemia, una pesante riduzione del raccolto o un attacco di parassiti alle coltivazioni. Questi spiriti, tuttavia, possono anche punire le persone che ignorano i costumi secolari del villaggio, o adat, facendole ammalare.

    In senso verticale, una lou consiste di tre piani: kolong (sotto), badan (corpo) e atap (tetto).

    La parte inferiore, kolong, con la sua rete di pali è utilizzata anche come deposito della legna da ardere, parcheggio veicoli, pascolo degli animali domestici (cani, maiali e galline), parco giochi dei bimbi. E’ lo spazio di passaggio tra ambiente circostante e abitazione.

    Il badan, la parte centrale, è l’insieme di spazi famigliari e sala comune (usoq), con tutti gli annessi ed attrezzature domestiche e associate al lavoro: femminile se si tratta di intrecciare il rattan per fare stuoie, borse o cesti; maschile se si parla di preparare il rattan o intagliare foderi per i mandau. La sala comune rappresenta lo spazio in cui le relazioni della comunità si fondono.

    L’atap, la parte superiore, è il luogo più sacro, assimilato alla divinità. È sostenuto da una rete di correnti di legno sungkai, leggero e resistente, a cui sono appesi vari oggetti, legati al culto e al sacro: una sorta di zattera intrecciata, luogo di meditazione; vari ciuffi di erbe secche, usate nei riti che coinvolgono gli spiriti, crani e corna di bufalo, residuo di sacrifici cerimoniali.


    In sezione orizzontale, la lou si distribuisce lungo un gradiente esterno/interno, che separa e protegge le zone più “intime” della singola famiglia dall’ambiente circostante attraverso spazi via via meno protetti: la scala di accesso (can), il portico (usoq), la sala comune, le camere da letto (bilik), la dispensa (lepubung) e la cucina (jayung).

    Davanti alle scale di entrata si trovano alcune statue di legno, che si chiamano belontakng. Pak Sius, quasi scusandosi, mi assicura che non sono oggetto di culto tra i Benauq. Poi, malizioso, aggiunge che sono state erette per ingannare gli spiriti maligni affinché non disturbino gli abitanti della casa. Ad esse si legano anche gli animali da sacrificare, bufali e maiali, in occasione di una cerimonia.


    Fumando l’ennesima sigaretta, Pak Sius si lamenta del ruolo del governo del Kutai Occidentale che presta poca attenzione a questa rumah lamin. E’ decisamente un cliché, visto che l’ho sentito spesso in Indonesia, lo stereotipo tipico del governo locale che non si prende cura di un luogo che, onestamente, ha grandi potenzialità per il turismo culturale.

    Mi alzo e mi congedo e non posso fare a meno di immaginare le schermaglie di potere dietro alla scelta di finanziare lo sviluppo turistico puntando su una o l’altra longhouse. Magari solo perché lì è nato uno dei signorotti del partito ora al potere.

    Un modo come altri per tenere la ricca cultura Dayak ai margini.

martedì 15 dicembre 2020

Le origini di Bali e la figura di Markandeya


    Lo studio della storia balinese mette spesso assieme fatti storici con storie tramandate attraverso il folklore. Una talle commistione riflette lo stile di vita e le convinzioni del popolo balinese, che per certi versi sono ancora avvolti nella superstizione.

    La narrazione dei miti fondanti la società balinese proviene generalmente da cronache, purana, tatwa sia in forma di scrittura (lontar) sia da storie orali che sono state tramandate di generazione in generazione. Tutto questo materiale, sebbene non  rigorosamente scientifico, è quantomeno importante come materiale di confronto per scoprire fatti storici realmente accaduti. È un fatto che molte delle reliquie storiche scoperte a Bali siano state trovate sulla base dello studio di questi racconti popolari. 

    Lo sviluppo dell'induismo a Bali come lo conosciamo, con la sua diversità culturale e di tradizioni, si è formato attraverso un lungo processo storico. Una parte importante di tale  evoluzione avvenne nel cosiddetto periodo dharmayatra, quando si assistette all’arrivo documentato in isola di vari santoni e sacerdoti, che portarono in isola i fondamenti di induismo e buddismo, allora già diffusi a Giava e Sumatra.

    Gli abitanti indigeni di Bali, ora chiamati Bali Mula, fino ad allora non avevano un complesso strutturato di regole religiose, essendo sostanzialmente animisti e aderenti al culto degli antenati, che chiamavano Hyang.

    Una delle figure a cui si fa riferimento per illustrare gli inizi dello sviluppo dell'induismo a Bali è  MahaRsi Markandeya, che per primo ha definito e implementato il Panca Datu e ha aperto la strada alla colonizzazione e popolamento di Bali nel IX secolo. Il periodo del suo arrivo è coinciso con l'introduzione a Bali di nuove forme religiose e sistemi di coltivazioni agricole, rese possibili dallo sviluppo di un nuovo sistema condiviso di irrigazione (Subak), ancor oggi in uso, considerato una delle unicità della cultura balinese.

    Ciò che rimane della vita di Markandeya, a parte una scarna serie di iscrizioni, è in forma di lontar o Purana, in particolare il lontar Markandeya Purana, che racconta le origini del MahaRsi e il suo viaggio di ricerca spirituale. La versione sanscrita del Purana è uno dei testi di letteratura indiana più antichi che tratta di religione indù. 

    Nella versione tramandata in Indonesia e Bali, si narra che MahaRsi Markandeya compì  il suo   viaggio ieratico nella terra di Jawadwipa (l’odierna Giava) partendo dall'India del sud. Praticò la meditazione yoga sul Monte Demulung, poi continuò il cammino verso il Monte Di Hyang (l’odierno altopiano Dieng, nella Giava centrale), che a quel tempo era sotto il controllo dell'antica Mataram (dinastia Sanjaya e Syailendra).

    Forse a causa di un disastro naturale (eruzione del vulcano) del Monte Di Hyang o, come narra il folklore, perché spesso disturbato da jins e demoni, Rsi Markandeya continuò il suo viaggio verso est fino al Monte Rawung (l’odierno vulcano Raung), che si trova a Giava orientale. In quell’epoca vi fu realmente un trasferimento di poteri da Giava Centrale a Giava Orientale, dal regno di Mataram Kun al regno di Medang Kemulan con il re Pu Sindok. 

    Sul Monte Rawung, il MahaRsi e i suoi seguaci costruirono un luogo di meditazione ed insegnamento, un pasraman. Grazie alla sua diligenza, fede e perseveranza nella meditazione e nello yoga, voci soprannaturali gli dissero che avrebbe dovuto integrarsi ed aiutare la popolazione che ne abitava le pendici.  Iniziò così un’opera di disboscamento e diffusione di pratiche agricole, oltre che di un nuovo credo religioso basato su yoga e meditazione, che avrebbe creato, tra gli abitanti, figli di indiani e giavanesi, nuovi aderenti. Queste persone erano chiamate "Wong Aga", o Popolo Aga.

    Si ritiene che il pasraman si trovi nel luogo in cui si trova ora il Tempio Gumuk Kancil nel villaggio di Bumiharjo, distretto di Glenmore, reggenza di Banyuwangi.

    Dopo aver trascorso un po 'di tempo sul Monte Rawang, sempre su consiglio divino, Markandeya si propose di continuare il suo viaggio verso est. A quel tempo l'isola di Bali non era ancora conosciuta con il suo nome attuale. I marinai che solcavano i mari di Giava e Lombok pensavano che Bali fosse parte di un'isola allungata che si integrava con quelle che oggi conosciamo come le Nusa Tenggara Barat (Lombok e Sumbawa). Infatti, nel Markandeya Purana  l'isola di Bali è chiamata Nusa Dawa/Pulau Panjang (isola lunga).

    Qui si recò dunque, attraversando il Segara Rupek (stretto tra Giava e Bali) accompagnato da circa 8.000 "Wong Aga". Trovarono molte fonti d'acqua naturali e si industriarono per liberare tratti di foresta per far spazio a risaie e altre colture. Questi sforzi, tuttavia, fallirono a causa di ripetute malattie, attacchi di tigri ed enormi serpenti velenosi. Vedendo che queste azioni non stavano avendo l'effetto desiderato, Markandeya pensò che vi fosse un'aura misteriosa, così forte da controllare quest'isola e decise di tornare al suo pasraman sul  Monte Raung per meditare di nuovo.

    Ed ottenne le sue risposte soprannaturali che lo spinsero ad organizzare una nuova spedizione a Bali con circa 4.000 uomini, ma su basi diverse. La meditazione gli fece capire che avrebbe dovuto instaurare un rapporto diverso con la natura del luogo e con le essenze soprannaturali che la governavano. Doveva mostrare rispetto, almeno nella forma, e chiedere “permesso” agli spiriti locali prima di prendere in prestito le terre per i nuovi insediamenti.

    Dopo il suo arrivo nella foresta balinese con i suoi seguaci, decise di tenere una cerimonia sacra nel luogo più alto dell'isola, che considerò il luogo più santo. Scalarono il monte Agung, che allora era conosciuto come Toh Langkir e qui seppellirono cinque tipi di metallo ("Pancadatu", oro, argento, bronzo, rame e ottone) che si pensava possedessero la potenza per respingere le forze del male e resistere ai poteri malevoli. 

    Si pensa che questo luogo corrisponda all’attuale Pura Basukihan, situato proprio ai piedi della salita per entrare nell'area di Pura Penataran Agung Besakih.

    È possibile che quando si trovò in cima al Toh Langkir (Monte Agung), Rsi Markandeya si rese conto che l'isola di Bali era solo una piccola isola, quindi pensò che il nome Pulau Panjang non fosse del tutto corretto e lo sostituì con il nome di Bali. La parola Bali stessa deriva dalla lingua Palawa, dell'India meridionale, terra natale di MahaRsi, e significa più o meno “offrire”, considerando ciò che gli dei ispirarono a Rsi Markandeya come celebrazione necessaria per ingraziarsi, gloriare e bilanciare le forze dell'universo in cui viviamo.

    Questa volta Markandeya e i suoi seguaci agirono in modo consono, e i loro tentativi di ripulire la foresta ebbero successo. Furono costruiti ampi terreni per le risaie e l'agricoltura, ma anche luoghi dove costruire abitazioni. La terra fu distribuita ai suoi adepti che si stabilirono in quello che ora è conosciuto come il villaggio di Puwakan (in indonesiano "Pembagian", divisione), vicino Taro (a nord di Ubud), considerato il villaggio più antico dell'isola di Bali. In quest’area, in mezzo alla foresta, si trova uno dei luoghi sacri più venerati dai balinesi, il Pura Sabang Daat, che sembra risalga a quel periodo.

    Fu nell’area compresa tra gli attuali villaggi di Taro e, più a sud, Payangan, che Markandeya pose le basi concettuali della neonata società balinese degli Aga. Suddivise i suoi seguaci wong Aga, noti a Giava per essere abili contadini e industriosi artigiani, in base alle loro capacità lavorative e diede origine così ai clan che ancora oggi formano l’ossatura della società balinese: bhujangga, pasek, pande, dukuh ecc. 

    Gli insegnamenti di Markandeya si possono considerare una sorta di manuale di sopravvivenza per questi gruppi di colonizzatori dell’isola, corredato, oltre che di procedure pratiche inerenti agricoltura e allevamento, anche del supporto filosofico/religioso considerato necessario per un corretto bilanciamento tra il mondo degli umani e quello della natura/divinità. Da qui la necessità di edificare luoghi di devozione e meditazione e di diffusione di una nuova forma di culto basata su rigorose pratiche di sacrificio/offerta, ringraziamento e celebrazione del divino, per conquistarne favore e benevolenza.

    La chiave di lettura potrebbe essere che il mito di Markandeya narra del passaggio dall’animismo puro e “anarchico” degli indigeni balinesi, all’induismo strutturato di origine Indo-giavanese. Nel contempo parla di una ondata di colonizzazione delle zone montane e vergini dell’isola che introduce, laddove c’erano forse solo cacciatori/raccoglitori, pratiche nuove legate ad una nuova organizzazione sociale sedentaria: disboscamento, coltivazione del riso, colture vegetali, allevamento di animali, comunità stabili e popolazione stratificata, con professioni ben distinte. Il tutto reso possibile da un avvicinamento lento, costellato di errori dovuti alla scarsa conoscenza del terreno e della sua “natura”. 

    Solo attraverso lo studio e la comprensione (la “meditazione”) della natura selvatica dell'isola si è potuto determinare la tattica adeguata per l'insediamento con successo di una nuova popolazione: i Bali Aga.

La casa Balinese: orientata con l’universo e col corpo umano

    La casa tradizionale balinese è formata da un complesso di padiglioni disposti attorno ad uno spazio vuoto centrale e protetti da un recinto in muratura ad altezza d’uomo.


    Le varie parti sono disposte secondo un ordine rigoroso che tiene conto di un allineamento ideale che segue il sottostante spirituale alla cosmologia induista ed un orientamento locale disposto secondo assi che rimandano alla grande montagna sacra, il Gunung Agung (kaja), e al mare (kelod) da una direzione, al sorgere del sole (kangin) ed al suo tramontare (kahu), dall’altra.

    Il Dharma è alla base di tutto: l’idea che in un universo gerarchizzato ogni oggetto deve avere una sua posizione ideale. Questa dev’essere individuata correttamente secondo vettori prestabiliti per poter raggiungere la moksha, il punto perfetto dove un umano raggiunge l’armonia con l’universo. La giusta disposizione delle strutture nella casa balinese è presupposto naturale per perseguire questo scopo.

    Le basi concettuali e filosofiche si riassumono in una suddivisione dello spazio che riflette quella dell’universo, attraverso la figura del Mandala, forma geometrica sub-circolare che può essere intesa come rappresentazione vettoriale del mondo e dell’universo e assomiglia ad una bussola.

    C’è un Mandala che ricorda come l’universo sia tripartito, formato dalla sovrapposizione ed interazione di un Nista, regno del sotto-mondo oscuro, un Madya, il mondo fisico dove camminano gli umani e un Utama, area in cui risiede ciò che l’universo ha di più sacro e divino. 

    Questa tripartizione si ritrova ampliata e gerarchizzata nei concetti filosofici di Tri Angga e Tri Loka, dove il disegno di progressione in tre parti dagli inferi all’empireo, attraverso il mondo dei vivi, viene sottolineata e precisata. 

    La conformazione dell’isola è all’origine e giustifica questa tripartizione, il mare dei morti e dei demoni (buhr), la pianura centrale dove prosperano gli umani (buwah) e il massiccio centrale (swah), dove risiedono gli dei-montagna, sui quali svetta il grande vulcano. E’ un esempio perfetto di come la geografia di un luogo fa immaginare una cosmologia intera.

    Un altro Mandala, Sang, si infila in questi tre reami e definisce il mondo lungo nove direzioni, gli otto punti cardinali e lo zenit. Ogni vettore ha un suo patrono o guardiano ultramondano, che possiede qualità tutte umane, colore, numero e sillaba sacri e materialità (un tempio è stato eretto in ognuna delle nove direzioni). Al centro sta la direzione somma, il creatore che è anche distruttore, il frutto di Yin e Yang: Shiva, la rappresentazione di Dio più sentita dai balinesi.

    Questi Mandala sono l’ossatura dell’induismo balinese e sono raffigurati in ogni luogo pubblico e privato di culto, a ricordare ad ogni cittadino come è fatto l’universo, chi lo abita e gestisce e qual’è il proprio ruolo in esso. 

    Gli stessi principi filosofici, e la loro volgarizzazione in pratiche costruttive, sono dettagliati nel "manuale" dell’architettura balinese, o Asta Kosala Kosali, scritto su foglie di lontar in giavanese antico, o kawi, nel lontar Bhagawan Siswakarma.

    Il fondo simbolico delle quattro direzioni cardinali fa si che le componenti abitative del compound balinese e le rispettive funzioni quotidiane, si dispongano in aree precise che possiedono gradienti di sacralità.


    Nell’angolo Kaja-kangin, l’area più sacra e destinata alla vita, è considerata la più propizia ed è sede degli altari famigliari. Nell’angolo opposto, kelod-kahu, il luogo più profano e impuro, è collocata la cucina e gli scarichi dei rifiuti.

    Il simbolismo include anche la rappresentazione metaforica del complesso di edifici e delle sue varie strutture in relazione al corpo umano. Così, il complesso di altari di famiglia viene identificato con la testa; la zona notte e il padiglione per ricevere gli ospiti, con le braccia; il cortile centrale con l'ombelico; il focolare con gli organi sessuali; la cucina e il lumbung (il magazzino del riso) con gambe e piedi e la fossa dei rifiuti nel cortile con l'ano.

    Nella cultura balinese, il primo giorno di costruzione di un nuovo complesso residenziale è un momento cruciale. Il proprietario della casa consulterà un esperto per scegliere il giorno più propizio nel calendario balinese per iniziare il cantiere. Si dovrà eseguire una cerimonia durante la quale varie offerte sono interrate nelle fondamenta, con la speranza che la costruzione proceda senza intoppi. 

    L'architetto (in balinese undagi) segue, come detto, le regole scritte nell'Asta Kosala Kosali. Queste regole costruttive servono a conferire alle varie componenti del compound abitativo corrispondenza geometrica e matematica col corpo del proprietario, come se la casa sia un’appendice del suo organismo e le proporzioni del corpo umano abbiano un significato universale. Analogamente a quanto categorizzato, per esempio, dall’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci o dal Modulor di Le Corbusier: l’uomo possiede tutte le misure e l’architettura dev’essere a misura d’uomo.




    L'undagi effettuerà una serie di misurazioni del corpo del capofamiglia, registrate su un paletto di bambù, che servirà come una sorta di metro per creare, in proporzione, il disegno della casa. Le unità di base sono depa (braccio), hasta (cubito o avanbraccio) e musti (è la distanza tra il polso e il pollice teso del pugno). 

    Altre varianti sono depa media (versione verticale di depa), sedemak (mano), tampak (larghezza del pugno chiuso, con il pollice nascosto) e lengkat (larghezza tra la punta di un pollice e la punta dell'indice se allungato). 

    Il primato della direzione Kaja-Kangin viene seguita anche nella costruzione. Il primo palo ad essere eretto, con una piccola piattaforma per le offerte attaccata alla sua sommità, è sempre quello all'angolo kaja-kangin. Dopo la posa di questo palo, gli altri sono  piantati in senso orario. 

    Infine, dopo il completamento della casa, viene effettuato un rituale di purificazione finale chiamato melaspas, che serve a preparare l’arrivo degli abitanti.

    L’edificio, o meglio l’insieme dei padiglioni, è ora avvolto in un denso intreccio di significati vettoriali necessario per inserirlo in un disegno universale ove tutto è certo, possiede un significato preciso ed è perfettamente bilanciato. La precisa rete di rapporti tra famiglie e clan della società balinese si riflette in modo riconoscibile nel rapporto con il sottomondo e l’ultramondo. Ogni individuo riconosce se stesso ed il suo posto in questo universo seguendo in ogni momento della propria vita tali tracce vettoriali, ed si realizza in armonia con esso. 




Vendere animali selvatici

    Gabbiette di infinite forme e colori, popolate di cagnolini, criceti, cavie, vampiri, tortore, mayne, pappagalli, scimmiette, grilli. Su tutto la cacofonia di grida, richiami, trilli, soffi, latrati. E un giorno come un altro al mercato degli uccelli, pasar burung, di Denpasar. 

    Un avviso ufficiale, apposto all’entrata come una lapide, sancisce il suo status di luogo turistico, obyek wisata: lo decretò il vice-governatore di Bali nell’anno 2000.

    Sotto un cielo blu terso, percorso da enormi cumuli candidi, i commercianti attirano i clienti comuni e gli intenditori esponendo i loro pezzi migliori e decantandone l’aspetto integro, i colori nitidi, il canto cristallino, le movenze languide. Come tutti gli orientali, anche i balinesi amano tenere animali in casa, meglio se uccelli abili nel gorgheggio o vestiti di colori particolari. Ma vanno bene anche  rettili, pipistrelli e mammiferi dalla pelliccia lucente. L’importante è che siano in gabbia.

    Qui un uomo controlla il ventre di un colombo nero e candido, là un gruppetto attornia il venditore di nidiate, infilate tristemente e banalmente dentro sacchetti di carta posati a terra. Per un milione di rupie mi offrono una giovane mayna di appena 8 mesi, che si difende a colpi di becco da una mano che la stringe impietosa.

    Trovo incredibili alcune gabbie di bambù che imprigionano grosse volpi volanti, appese a testa in giù, bocca aperta, stremate dal caldo e dal sole cocente. Mi chiedo che sentimento possa suscitare tenere prigionieri in uno spazio così piccolo animali che di giorno sarebbero al riparo nelle fresche fronde di grossi alberi, per volare via liberi di notte, alla ricerca di frutti succulenti. 

    Là, una coppia di giovani cinesi sceglie un pullo di piccione, in mezzo a tanti altri contenuti in una grossa gabbia, e ne contratta il prezzo: 20.000 rupie, non di più.

    Pochi pappagalli sono visibili nelle gabbie, ma le loro penne rosse e verdi, dense di colore, spiccano tra i grigi dominanti e i tenui pastelli delle cocorite.

    Il loro muoversi incessante, l’occhieggiare curioso, il cicaleccio stridente e nervoso, contrastano con l’immobilità rovesciata e costretta dei pipistrelli.

    La zona dei venditori di nidi è in fondo al vicolo, appartata. Le figure esili dei cercatori di nidi stanno accosciate quasi casualmente, tra motorini parcheggiati, circondate da compratori, compari e semplici curiosi. Pochi sacchetti di carta, chiusi a cartoccio e forati contengono il frutto delle ricerche, meglio delle rapine, nel folto delle foreste di Karangasem. 

    Luoghi lontani, impervi, aspri, come i volti di coloro che hanno strappato queste nidiate alla loro casa selvatica e sfinite dalla fame.

L’agitazione che cura

    Conobbi Ratu Bagus, al mondo pak Ketut, un giorno d’ottobre di molti anni fa.

    Assieme ad alcuni amici italiani andai in visita al suo ashram nel villaggio di Muncun, vicino Bangli. Un villaggio di contadini, tra le colline ai piedi del grande vulcano, dove Ketut si ritirò anni prima per fare anche lui il contadino e l’allevatore. Nella sua biografia Ketut racconta di aver avuto, durante una delle sue lunghe meditazioni, una visione che gli impose un nome (Ratu Bagus Jaya Kesuma Kawi) ed una missione: curare il mondo.

    Da allora si impose come uno dei più noti guaritori balinesi, popolare qui come in occidente, Europa e USA.

    La coppia di italiani, che allora mi accompagnò, si “curava” da anni con la tecnica sviluppata dal guru Ratu Bagus e contribuiva attivamente a diffondere la sua filosofia in Italia ed Europa.

    In origine, Ratu curava i contadini locali con la sola imposizione delle mani. Ora la sua tecnica si è evoluta e cura veicolando l’energia che deriva dal Gunung Agung, di cui afferma essere figlio.

    Da conosciuto sciamano locale si è trasformato in guru indianeggiante, acclamato da migliaia di adepti, che per qualche tempo si ritrovavano anche in Italia, vicino ad Ostia.

Le “donazioni”, a pagamento dei suoi servigi, assieme al ricavato raccolto durante i seminari, hanno concorso a costruire e tenere in vita l’ashram di Bali.

    Il complesso di edifici che lo compone è circondato da un muro riccamente decorato, aperto da un’alta e imponente entrata in stile candi bentar. Vari edifici, fastosamente adornati, lo compongono. Tra questi, una costruzione centrale a pianta circolare ospita una enorme sala rivestita di marmo, sede della pratica energetica dello sciamano. Centinaia di Balinesi la affollano il fine settimana per cercare sollievo da qualche malattia, nevrosi, psicosomatismo, pena di vivere.

    L’energia veicolata dal guru, mi spiegarono, deve sintonizzarsi sull’energia del paziente e mandare in vibrazione ogni cellula del suo corpo, tanto da farlo muovere, saltellare, ballare anche convulsamente. Il paziente, per ottenere la massima efficacia curativa, deve accettare consapevolmente questa energia, lasciarla fluire ed assecondare, senza ostacolarla, ogni reazione del proprio organismo, per quanto spontanea e convulsa.

    Osservai per un po’ i praticanti saltellare, ballare e agitarsi in vario modo, al suono di una tamburellante ed ossessiva musica disco, di fronte alla gigantografia del guru, giacché, si dice, basti la sua immagine a scatenare la reazione curante.

    Visto che non era necessaria la sua presenza, per ore Ratu non si fece vedere, nonostante fosse stato  avvisato del nostro arrivo. Nel frattempo curiosai in giro e scoprii molte gabbie contenenti uccelli e mammiferi: cuschi, jalak bali, rapaci, scimmie albine, pavoni, lori. Molte di loro specie protette anche sotto la legge indonesiana e per le quali non ne è consentito il possesso. Notai anche alcuni bungalow in costruzione attorno ad un’enorme piscina: un mini resort costruito con i fondi degli adepti.

    Il guru comparve proprio mentre, stanchi di aspettare, fummo sul punto di andare via.

    La figura vestita con sarong e sahariana bianchi ci attrasse attorno ad un tavolo per una breve conversazione. Alle domande su come funziona la sua cura energetica egli preferì darci subito una prova e chiamò a sé due adepte che, al suo tocco, iniziarono improvvisamente a saltellare come possedute e a ridere sguaiatamente.

    L’energia, ci spiegò Ratu, non sortisce lo stesso effetto su ognuno di noi. Sfortunatamente, un effetto visibile lo si rileva solo da chi è in sintonia con lui da tempo e nulla accade agli estranei. Quindi niente dimostrazione ad effetto su uno di noi.

    Ci offrì gentilmente alcune sue fotografie dove, variamente abbigliato e in posa, dispensava lievi e sapienti sorrisi, ricolmi del suo potente magnetismo medicamentoso.

    Ce ne andammo per nulla impressionati da ciò che testimoniammo, troppo scettici per essere convinti da quella che molto probabilmente è una manifestazione del potere curativo dell’autosuggestione.

    Che è tanto immateriale e infrequente quanto energicamente apportatrice di ingenti raccolte di denaro che, come sicuro effetto, hanno cambiato la vita del contadino pak Ketut.




lunedì 2 novembre 2020

Le diverse tipologie abitative di un villaggio Nagekeo

     Osservando le loro funzioni come entità sociali e il loro divenire, le case Kéo possono essere raggruppate in più livelli.

     Il primo livello è costituito da case rituali (sa'o nggua). A questo gruppo appartengono la casa del cavallo di legno (sa'o enda o sa'o jara), la casa dei gong e tamburi (sa'o wondi o basa damba ) e altre case rituali minori chiamate sa'o tudu e sa'o bhangga. Il sa'o enda o sa'o jara si trova nel lato nord della piazza del villaggio, vicino al palo sacrificale (péo). La sa'o wondi o basa damba, molto spesso chiamata la “casa con le scale” (sa'o tangi), si trova all'estremità meridionale della piazza del villaggio. Queste case sono usate per conservare i teschi degli animali macellati durante i sacrifici rituali, l’armamentario sacro del clan e gli strumenti musicali.

     Il secondo livello è costituito dalle case di origine (sa'o pu'u) e dalle case grandi (sa'o mere), che sono anche chiamate "case di incontro" (sa'o tiwo liwu). Tali case si trovano distribuite nel centro abitato sulla base del rango sociale dei loro abitanti. Possono avere uno, due o tre focolari (dapu) a seconda di quanti anziani maschi o fratelli maschi abitano la casa. Dove ci sono tre focolari, il focolare destro (dapu réta) è per il fratello maggiore e il focolare sinistro (dapu dau) è per il più giovane. Il focolare centrale (dapu ora) per il fratello di mezzo, si trova nella veranda superiore (tenda wawo) sul lato destro. Sa'o pu'u e sa'o mére sono utilizzate anche come case di abitazione. Tuttavia, una sa'o mére, in un momento successivo, può essere vista, dai familiari che ne discendono, come una sa'o pu'u, poiché si è suddivisa in diverse case di abitazione.

     Il terzo livello è quello della Kuwu Basa. Queste sono le case di usuale abitazione situate nel villaggio. Fondamentalmente, le kuwu basa sono il risultato di una espansione dei discendenti della sa'o pu'u e sono simboleggiate dall’incremento delle mangiatoie dei maiali (bagi kana wawi). La ragione di tale espansione potrebbe essere un aumento del numero dei membri di una casa, conflitti o scontri tra fratelli o frutto di scelte personali. Le case di abitazione (sa'o ndi'i) di quei maschi la cui residenza si basa su un tipo di matrimonio noto ai Kéo come piso moke kanda manu, che significa uxori-locale perché non sono stati in grado di pagare la dote della sposa, fanno anch’esse parte della kuwu basa.

     Il quarto è il tipo di grado più “basso” e semplice di casa, il Keka Doka. Questo è un’abitazione, costruita fuori dal centro abitato, da un nucleo famigliare per consentire ai suoi membri di dedicarsi alle proprie attività pastorali o agricole. Nei tempi attuali, questo tipo di capanne (kéka doka) sono spesso migliori in termini di qualità e dimensioni rispetto ad alcune sa'o mére e kuwu basa, tuttavia sono ancora riconosciute come kéka doka.

lunedì 19 ottobre 2020

Le fanciulle del rejang

   


    Una delle forme artistiche che assume la celebrazione del divino a Bali è il rejang. Una danza rituale, parte delle upacara dewa yadnia o offerte sacre alla divinità, che è ringraziamento alle attenzioni che il dio e gli antenati deificati pongono alla comunità, tenendola lontana da malattie, sciagure “naturali”, scarsi raccolti.

   Un rejang è organizzato ogni volta che il ringraziamento deve prendere la forma di coreografia di danzatrici femminili, in costumi particolarmente elaborati e ghirlande sul capo composte da infinite composizioni floreali che, in casi particolari, arrivano a preziosi diademi dorati.

   Il rejang è la canonizzazione di un’antico e necessario rito di passaggio, con cui le vergini della comunità si presentano ai probabili mariti e alle loro madri, al meglio del loro aspetto estetico e all’interno di una coreografia che esalta la loro femminilità, secondo il canone locale: serietà, compostezza, grazia, bellezza. Una sensualità composta.

   Nella regione di Karangasem, nella valle del Tukad Bangka, tra l’altura del Pura Lempuyang e il Gunung Agung, questo rituale si tiene in particolare alla fine del Galungan, nei giorni di Kuningan e umanis, quando le divinità rientrano nella loro dimora celeste e i devoti le salutano mettendo in campo preghiere, offerte, musica e danza sacre. Qui i costumi delle ragazze sono confezionati ed usati espressamente per questa cerimonia e le ghirlande sul capo esprimono con grande finezza e senso estetico il legame con la terra, i fiori e le foglie della natura esuberante.

   Ogni villaggio di quest’area pratica il rejang kuningan, con costumi e copricapo originali, in una sinfonia di colori sulle note ritmate e dolenti del gamelan gambang.

 

  Le ragazze si esibiscono con movenze aggraziate e lente, danzando in fila per tre volte attorno ai pelinggih del Pura Puseh, il tempio delle origini, per sottolineare la devozione e il ringraziamento agli antenati.

   Ragazzine, i tratti del volto evidenziati da un trucco intenzionalmente appesantito, attendono serie e un po’ imbronciate l’inizio della cerimonia. Arrivano alla spicciolata, alcune accompagnate da genitori e amici, siedono composte, il busto eretto, lo sguardo sfuggente. Altre si immergono subito nel mondo conosciuto e senza responsabilità del telefonino: mandano messaggi, si scambiano foto, quasi vogliano sfuggire alla sacralità del momento.

   I fotografi si aggirano tra loro: schierate immobili appaiono come prede impaurite. Ma sono solo consapevoli del gioco curioso e birichino di concedere al mondo la propria immagine. In fondo sono alla rappresentazione della verginità e femminilità e la civetteria oggi non è nulla di sconveniente.

   Le più scaltre e smaliziate si prestano a vere sessioni di posa, guardano l’obbiettivo senza pudore e con uno sguardo consapevole che sa già di età adulta. Alcune, poche in verità, delle vere bellezze anche secondo un canone universale e “televisivo”, sono inseguite e bombardate di scatti. Forse sono già entrate nel mondo, patinato e fuorviante, della moda, della televisione, della pubblicità. I loro sguardi languidi da principessa orientale fanno probabilmente gola alle agenzie pubblicitarie alla ricerca di volti nuovi da sbattere in prima serata per vendere più shampoo.

   Le madri, deposte le offerte sotto il balai, si affrettano a dare gli ultimi consigli e ad aggiustare con pochi tocchi le ghirlande di fiori o la fascia colorata indossata come cintura.

   Poi partono le note malinconiche e ritmate del gamelan di bambù e le bambine, in fila indiana in ordine d’età, si muovono lente e sinuose attorno agli altari del tempio.

   Tre volte dura il percorso, spesso sotto il sole cocente del mezzodì, a piedi scalzi sopra uno spazio lastricato di pietra lavica. Tanto arriva a scottare il selciato che un uomo versa acqua per alleviare i piccoli piedi, che continuano a strisciare, girare, sollevarsi, passo dopo passo.

  

  Le prime della fila, le meno giovani, le più belle, hanno già fatto questa danza e conducono le altre, via via più piccole, meno esperte e, più passa il tempo, meno interessate e concentrate. Le piccoline accennano appena i movimenti di braccia e gambe, obbligate ad un apprendimento che si rinnoverà anno dopo anno fino al matrimonio. Talvolta una madre si affianca alla figlia e le raddrizza il copricapo o le aggiusta il corpetto.

   Allo scoccare dell’ultima nota di gong la fila si ferma e le ragazze sciamano via, finalmente libere di riposarsi all’ombra con amici e parenti, pronti a elargire commenti e pettegolezzi. Gli dei, appagati, si ritirano in luoghi inaccessibili. Gli sguardi si fanno più aperti e sinceri e il sorriso ricolora di candido i volti delle fanciulle.

lunedì 24 febbraio 2020

Paronobaroro, una comunità in mezzo alle tombe


    

Il villaggio e le sue tombe da una parte, il mare smeraldo e la striscia candida di sabbia dall’altra. In mezzo il campo della Pasola Homba Kalayo, la “piccola” pasola.

     Le case, o uma manara, hanno i tetti alti dei clan più nobili. I loro piloni centrali sono ricavati da enormi tronchi della foresta, ora domati a lisce colonne ricoperte di decorazioni geometriche.

     Octavianus fa gli onori di casa e mi invita a sedere nella veranda esterna, quella dei viandanti. Dove vieni, quanti figli hai, la moglie è indonesiana? Il discorso si fa interessante quando Octavianus mostra un atteggiamento piuttosto moderno verso la contraccezione. Rimane però inflessibilmente stupito all’annuncio della mancanza di figli.

     Lo scemo del villaggio, dileggiato da tutti, mi sequestra con la speranza di ottenere qualche spicciolo. Firmo il libro degli ospiti e, solo dopo aver lasciato la giusta donazione, ho il permesso di fotografare. Passo un po’ di tempo seduto ala veranda di un’altra casa, piena di gente e di fumo del focolare. I giovanotti si alternano nel chiedere sigarette o soldi, le bocche carminio per il betel masticato continuamente. Un tizio passa il suo coltello a uno della casa, che a sua volta me lo offre per 150 euro. Il fodero è intagliato con un motivo floreale, l’elsa è un coccodrillo accovacciato, la lunga coda avvolta attorno al corpo squamato, il manico d’osso di bufalo è una figura umana che sembra a cavalcioni del rettile. Al mio disinteresse l’uomo sussurra “40 euro..”.


     Lascio perdere, mi prende la solita ritrosia, penso svogliatamente alla difficoltà a trasportarlo, alla probabile disapprovazione e anche questa occasione sfuma.

     La Pasola Homba Kalayo è un po’ fiacca: una ventina di cavalieri, alcuni con gli alti pennacchi verdi e arancio a cingere il capo a mo’ di alte corone. I due rato pasola, gli anziani che sovrintendono alla cerimonia, accompagnati dal kuda nyale, la coppia cavallo/cavaliere simbolo del matrimonio tra animale e uomo, entrano nel campo e, rivolti al pubblico, pronunciano cantando le rime che definiscono il rituale, così come tramandato dagli antenati, i Marapu. La folla risponde con grida d’approvazione, ovazioni e incitamenti. Poi, al centro del campo, attorniati dai contendenti come in un ring, gli anziani ripetono le regole di ingaggio e danno ufficialmente inizio alla tenzone.


     Nella calura sempre più opprimente i lunghi bastoni appuntiti sembrano restii a centrare il bersaglio. La battaglia, svogliata, è perlopiù una serie di cadute da cavallo, schivate, animali nervosi, sgroppate auto celebrative, urla, sfide deridenti, animali nervosi e scalcianti.

     Lì vicino la foce del fiume e le corte strisce di sabbia tra le rocce frastagliate offrono scorci magnifici. Lungo la spiaggia corre una stradina di sabbia che arriva fino all’insenatura su cui si affaccia il villaggio di Pero. Da lì si risale all’interno e, dalla cima di una bassa collina, si vede Paronobaroro e il campo della Pasola. Da un punto di vista così poco sopraelevato l’azione appare in una prospettiva schiacciata tra le ali della folla, bidimensionale. I cavalieri si muovono come su un binario, sotto il sole di mezzogiorno.

      

Il sole è un muro di fuoco che spinge verso il chiuso della stanza. Anche la doccia ripetuta non è sufficiente a scacciare la calura, la testa resta pesante, il sudore sgorga lento e inzuppa i vestiti, il fazzoletto assume un odore acre. La spossatezza scivola in un sonno incerto, in un letto rovente dove anche la zanzariera brucia di fiamme invisibili.