Il
villaggio e le sue tombe da una parte, il mare smeraldo e la striscia
candida di sabbia dall’altra. In mezzo il campo della Pasola
Homba Kalayo, la “piccola” pasola.
Le
case, o uma manara, hanno i tetti alti dei clan più nobili. I
loro piloni centrali sono ricavati da enormi tronchi della foresta,
ora domati a lisce colonne ricoperte di decorazioni geometriche.
Octavianus
fa gli onori di casa e mi invita a sedere nella veranda esterna,
quella dei viandanti. Dove vieni, quanti figli hai, la moglie è
indonesiana? Il discorso si fa interessante quando Octavianus mostra
un atteggiamento piuttosto moderno verso la contraccezione. Rimane
però inflessibilmente stupito all’annuncio della mancanza di
figli.
Lo
scemo del villaggio, dileggiato da tutti, mi sequestra con la
speranza di ottenere qualche spicciolo. Firmo il libro degli ospiti
e, solo dopo aver lasciato la giusta donazione, ho il permesso di
fotografare. Passo un po’ di tempo seduto ala veranda di un’altra
casa, piena di gente e di fumo del focolare. I giovanotti si
alternano nel chiedere sigarette o soldi, le bocche carminio per
il betel masticato continuamente. Un tizio passa
il suo coltello a uno della casa, che a sua volta me lo offre per 150
euro. Il fodero è intagliato con un motivo floreale, l’elsa è un
coccodrillo accovacciato, la lunga coda avvolta attorno al corpo
squamato, il manico d’osso di bufalo è una figura umana che sembra
a cavalcioni del rettile. Al mio disinteresse l’uomo sussurra “40
euro..”.
Lascio
perdere, mi prende la solita ritrosia, penso svogliatamente alla
difficoltà a trasportarlo, alla probabile disapprovazione e anche
questa occasione sfuma.
La
Pasola Homba Kalayo è un po’ fiacca: una ventina di cavalieri,
alcuni con gli alti pennacchi verdi e arancio a cingere il capo a mo’
di alte corone. I due rato pasola, gli anziani che
sovrintendono alla cerimonia, accompagnati dal kuda nyale, la
coppia cavallo/cavaliere simbolo del matrimonio tra animale e uomo,
entrano nel campo e, rivolti al pubblico, pronunciano cantando le
rime che definiscono il rituale, così come tramandato dagli
antenati, i Marapu. La folla risponde con grida
d’approvazione, ovazioni e incitamenti. Poi, al centro del campo,
attorniati dai contendenti come in un ring, gli anziani ripetono le
regole di ingaggio e danno ufficialmente inizio alla tenzone.
Nella
calura sempre più opprimente i lunghi bastoni appuntiti sembrano
restii a centrare il bersaglio. La battaglia, svogliata, è perlopiù
una serie di cadute da cavallo, schivate, animali nervosi, sgroppate
auto celebrative, urla, sfide deridenti, animali nervosi e
scalcianti.
Lì
vicino la foce del fiume e le corte strisce di sabbia tra le rocce
frastagliate offrono scorci magnifici. Lungo la spiaggia corre una
stradina di sabbia che arriva fino all’insenatura su
cui si affaccia il villaggio di Pero. Da lì si risale
all’interno e, dalla cima di una bassa collina, si vede
Paronobaroro e il campo della Pasola. Da un punto di vista così poco
sopraelevato l’azione appare in una prospettiva schiacciata tra le
ali della folla, bidimensionale. I cavalieri si muovono come su un
binario, sotto il sole di mezzogiorno.
Il sole è un muro di fuoco che spinge verso il chiuso della stanza. Anche la doccia ripetuta non è sufficiente a scacciare la calura, la testa resta pesante, il sudore sgorga lento e inzuppa i vestiti, il fazzoletto assume un odore acre. La spossatezza scivola in un sonno incerto, in un letto rovente dove anche la zanzariera brucia di fiamme invisibili.
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