Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

giovedì 24 ottobre 2019

I dayak del Mendalam





      Il primo contatto con Sanding non è di buon auspicio. Al tramonto, sulla riva destra del Mendalam, dopo un faticoso vagare dalle secche del Sentarum alla calura fuligginosa di Sintang, unica compagnia di una lunga attesa del travel per Putussibau. Una giornata interminabile, sola distrazione le chiacchiere inarrestabili dell'autista, un Batak di Samosir, migrato qui per amore. Il villaggio, Data Dian, non è, come detto dal mio contatto, da questa parte del fiume, ma affacciato sull'altra. Il molo è franato e solo una scaletta “dayak” mi separa dall'acqua: un tronco stretto appoggiato quasi in verticale alla riva e con intagli minuscoli resi viscidi dall'acqua. Leggo l' imbarazzo sul volto di Sanding, in risposta sincera al mio disappunto reso evidente dalla stanchezza. Mosso dalla mia aria estenuata e forse dai miei capelli incanutiti, mi prende lo zaino e mi fa cenno di scendere. Mi rassegno e penso, sarà l'ultimo sforzo della giornata. Quasi a tentoni, tra le prime tenebre del dopo tramonto, affidandomi ai nuovi sandali da trekking, riesco a scendere e a montare sul piccolo sampan, che subito ondeggia minaccioso sotto il mio peso inusuale.
      Risalito sul tronco dell'altra riva, raggiungo in pochi passi la via unica del villaggio, tra polli e minuscole porcilaie. Qui, di fronte all'edificio che mi ospiterà per la notte, mi accorgo della seconda informazione sbagliata: non è una vecchia longhouse abitata da famiglie, ma un nuovissimo edificio appena ricostruito, usato, come accade ovunque sul Mahakam, come luogo di riunioni e cerimonie. Non pensavo di trovarne qui, nel Kapuas Hulu, dove lo, spirito comunitario Dayak è ancora vivo e incarnato in bellissime longhouse, luogo di abitazione e culto per decine di famiglie e brulicanti di vita.
      Tant'è. Appendo la zanzariera nel grande salone coperto e mi dedico ad un lungo mandi rinfrescante. Il caldo è soffocante e non faccio molto onore alla scatola con riso e pollo che mi ero preso in città, mentre apprezzo l’offerta di un materasso che Sading, assieme a cuscino e lenzuolo, ha di certo strappato al giaciglio di un figlio o un parente.

      Questi sono i Dayak che ho incontrato. Gente che si danna quasi per mettere un ospite o un visitatore a proprio agio.
      La camminata a visitare il villaggio dei Kayan di primo mattino mi rimette in sesto. Sorrisi cordiali di chi va ai campi con una gerla sulle spalle, un caffè offerto da alcuni uomini. Uno di essi, che si presenta come facilitatore turistico, si offre di accompagnarmi, mentre Sading si occupa di organizzare la barca per la risalita del fiume. Incontro un grossista di kratom, impegnato a setacciarne le foglie sullo spiazzo davanti casa. Mi spiega che lo vende a 20.000 IDR /kg a chi poi lo esporterà negli USA, dove sarà venduto a 50 volte tanto. Mi conferma che i Dayak lo usano da sempre, per alleviare il dolore, il mal di testa, lo stimolo della fame. La nuova Indonesia, fortemente confessionale e puritana, presto lo dichiarerà droga non gradita e fuorilegge. Mi incammino verso la scuola e passo davanti la seconda longhouse, in stato di abbandono e in attesa di fondi governativi per la ricostruzione. Quattro classi di bambini festosi, i banchi disposti ordinatamente in un unico grande spazio senza pareti di separazione, mi accolgono ridendo e urlando di pura gioia, un curioso e benvenuto intervallo nella lezione del mattino. Lascio i pochi quaderni e penne che ho portato con me, con il rimpianto di non averne presi di più.

      Sanding mi accoglie in casa sua per un ultimo passaggio in bagno. Così ho modo di apprendere la sua passione per la musica. Dal padre ha imparato a costruire la sapee, una chitarra tipica dei kayan, senza cassa armonica e con solo tre corde accordabili, oltre a tre di accompagnamento. Senza esitare mi parla delle competizioni che ha vinto e mi incanta con un breve saggio della sua bravura. Mi ripropongo di tornare per assistere ad uno spettacolo, uno di quei desideri irrealizzabili che punteggiano i miei itinerari. Ultimo caffè con l'equipaggio, mentre le ultime cose vengono caricate a bordo. 
      
      Poi la tanto desiderata risalita del Mendalam ha finalmente inizio. Eccitato fotografo ogni cosa per alcuni lunghi minuti, prima di rendermi conto della veloce diminuzione della carica della batteria dello scintillante Huawei. Presto la foresta secondaria lascia spazio alla giungla intricata, regno di scimmie e ditterocarpi svettanti sulla chioma degli altri alberi. Gli occhi si perdono tra i rami e cercano con affanno e delusione tracce di uccelli o mammiferi. Solo i primi, e in voli veloci, appaiono e scompaiono in un amen. Stanotte è piovuto e il livello del fiume si è alzato abbastanza da rendere le rapide facilmente superabili. L’abilità di Saring è nel cogliere la direzione giusta e, a forza di braccia, nel manovrare la pertica nei passaggi più difficili.
      Camp Mentibat è eretto al margine del parco. Dopo aver esaminato lo spiazzo su cui dovremmo montare le tende, decidiamo di comune accordo di pernottare sul pavimento della stazione di ricerca e di reintroduzione degli oranghi nella foresta, costruita sulla riva del Mendalam, alla confluenza col Mentibat. Un grande cottage in teak sotto la cui ampia veranda si può far da mangiare e dormire. I ranger presenti ci concedono l’uso del bagno, anche se il divertimento è farlo nel fiume lì sotto, dilavati dalla corrente fresca, in equilibrio sui grossi ciottoli levigati e scivolosi.
      Sulla zanzariera, di sera, si appoggiano falene e curculionidi dalle forme strane e i rumori della foresta, cicale, richiami degli siamang e di uccelli invisibili, agitano un sonno scomodo e afoso.

      Il rientro di primo mattino permette di cogliere scorci di foresta incendiata dal primo sole e qualche bucero lontano che sorvola lento il fiume. Nei pressi del piccolo insediamento di Nanga Hovat incrociamo alcune piroghe con sopra piccoli gruppi di Bukat, diretti ai campi al limitare della foresta o, se accompagnati da cani e lance, alla caccia nel folto. Sguardi seri e intenti, labbra che si piegano in lievi sorrisi quando saluto le donne dagli ampi cappelli conici. Gli uomini osservano dall’alto della riva, semi celati sotto gli alberi, con lo stesso sbirciata indagatrice delle donne di un paesino del nostro sud, da dietro le persiane.

      Sotto un grande e polveroso gazebo che segna il luogo del molo franato di Data Dian, saldo i conti con Sanding e gli passo le foto fatte lungo il fiume. Saluto i membri dell’equipaggio, strette di mano, sorrisi, “quando ritorni qui”, impossibili promesse. I volti seri e immobili dei Kayan mi guardano un’ultima volta mentre salgo sull’auto che mi porterà a Putussibau.

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