Il
primo contatto con Sanding
non è di buon auspicio. Al tramonto, sulla riva destra del Mendalam,
dopo un faticoso vagare dalle secche del Sentarum alla calura
fuligginosa di Sintang, unica compagnia di una lunga attesa del
travel per
Putussibau. Una giornata interminabile, sola distrazione le
chiacchiere inarrestabili dell'autista, un Batak di Samosir, migrato
qui per amore. Il villaggio, Data Dian, non è, come detto dal mio
contatto, da questa parte del fiume, ma affacciato sull'altra. Il
molo è franato e solo una scaletta “dayak” mi separa dall'acqua:
un tronco stretto appoggiato quasi in verticale alla riva e con
intagli minuscoli resi viscidi dall'acqua. Leggo l' imbarazzo sul
volto di Sanding,
in risposta sincera al mio disappunto reso
evidente dalla stanchezza. Mosso dalla mia aria estenuata e forse dai
miei capelli incanutiti, mi prende lo zaino e mi fa cenno di
scendere. Mi rassegno e penso, sarà l'ultimo sforzo della giornata.
Quasi a tentoni, tra le prime tenebre del dopo tramonto, affidandomi
ai nuovi sandali da trekking, riesco a scendere e a montare sul
piccolo sampan, che subito ondeggia minaccioso sotto il mio peso
inusuale.
Risalito
sul tronco dell'altra riva, raggiungo in pochi passi la via unica del
villaggio, tra polli e minuscole porcilaie. Qui, di fronte
all'edificio che mi ospiterà per la notte, mi accorgo della seconda
informazione sbagliata: non è una vecchia longhouse abitata da
famiglie, ma un nuovissimo edificio appena ricostruito, usato, come
accade ovunque sul Mahakam, come luogo di riunioni e cerimonie. Non
pensavo di trovarne qui, nel Kapuas Hulu, dove lo, spirito
comunitario Dayak è ancora vivo e incarnato in bellissime longhouse,
luogo di abitazione e culto per decine di famiglie e brulicanti di
vita.
Tant'è.
Appendo la zanzariera nel grande salone coperto e mi dedico ad un
lungo mandi rinfrescante. Il caldo è soffocante e non faccio molto
onore alla scatola con riso e pollo che mi ero preso in città,
mentre apprezzo l’offerta di un materasso che Sading, assieme a
cuscino e lenzuolo, ha di certo strappato al giaciglio di un figlio o
un parente.
Questi
sono i Dayak che ho incontrato. Gente che si danna quasi per mettere
un ospite o un visitatore a proprio agio.
La
camminata a visitare il villaggio dei Kayan di primo mattino mi rimette in
sesto. Sorrisi cordiali di chi va ai campi con una gerla sulle
spalle, un caffè offerto da alcuni uomini. Uno di essi, che si
presenta come facilitatore turistico, si offre di accompagnarmi,
mentre Sading si occupa di organizzare la barca per la risalita del
fiume. Incontro un grossista di kratom, impegnato a setacciarne le
foglie sullo spiazzo davanti casa. Mi spiega che lo vende a 20.000
IDR /kg a chi poi lo esporterà negli USA, dove sarà venduto a 50
volte tanto. Mi conferma che i Dayak lo usano da sempre, per
alleviare il dolore, il mal di testa, lo stimolo della fame. La nuova
Indonesia, fortemente confessionale e puritana, presto lo dichiarerà
droga non gradita e fuorilegge. Mi incammino verso la scuola e passo
davanti la seconda longhouse, in stato di abbandono e in attesa di
fondi governativi per la ricostruzione. Quattro classi di bambini
festosi, i banchi disposti ordinatamente in un unico grande spazio
senza pareti di separazione, mi accolgono ridendo e urlando di pura
gioia, un curioso e benvenuto intervallo nella lezione del mattino.
Lascio i pochi quaderni e penne che ho portato con me, con il
rimpianto di non averne presi di più.
Sanding
mi accoglie in casa sua per un ultimo passaggio in bagno. Così ho
modo di apprendere la sua passione per la musica. Dal padre ha
imparato a costruire la sapee, una chitarra tipica dei kayan, senza
cassa armonica e con solo tre corde accordabili, oltre a tre di
accompagnamento. Senza esitare mi parla delle competizioni che ha
vinto e mi incanta con un breve saggio della sua bravura. Mi
ripropongo di tornare per assistere ad uno spettacolo, uno di quei
desideri irrealizzabili che punteggiano i miei itinerari. Ultimo
caffè con l'equipaggio, mentre le ultime cose vengono caricate a
bordo.
Poi la tanto desiderata risalita del Mendalam ha finalmente inizio. Eccitato fotografo ogni cosa per alcuni lunghi minuti, prima di rendermi conto della veloce diminuzione della carica della batteria dello scintillante Huawei. Presto la foresta secondaria lascia spazio alla giungla intricata, regno di scimmie e ditterocarpi svettanti sulla chioma degli altri alberi. Gli occhi si perdono tra i rami e cercano con affanno e delusione tracce di uccelli o mammiferi. Solo i primi, e in voli veloci, appaiono e scompaiono in un amen. Stanotte è piovuto e il livello del fiume si è alzato abbastanza da rendere le rapide facilmente superabili. L’abilità di Saring è nel cogliere la direzione giusta e, a forza di braccia, nel manovrare la pertica nei passaggi più difficili.
Camp
Mentibat è eretto al margine del parco. Dopo aver esaminato lo
spiazzo su cui dovremmo montare le tende, decidiamo di comune accordo
di pernottare sul pavimento della stazione di ricerca e di
reintroduzione degli oranghi nella foresta, costruita sulla riva del
Mendalam, alla confluenza col Mentibat. Un grande cottage in teak
sotto la cui ampia veranda si può far da mangiare e dormire. I ranger presenti ci concedono l’uso del bagno, anche se il
divertimento è farlo nel fiume lì sotto, dilavati dalla corrente
fresca, in equilibrio sui grossi ciottoli levigati e scivolosi.
Sulla
zanzariera, di sera, si appoggiano falene e curculionidi dalle forme
strane e i rumori della foresta, cicale, richiami degli siamang e di
uccelli invisibili, agitano un sonno scomodo e afoso.
Il
rientro di primo mattino permette di cogliere scorci di foresta
incendiata dal primo sole e qualche bucero lontano che sorvola lento
il fiume. Nei pressi del piccolo insediamento di Nanga Hovat
incrociamo alcune piroghe con sopra piccoli gruppi di Bukat, diretti
ai campi al limitare della foresta o, se accompagnati da cani e
lance, alla caccia nel folto. Sguardi seri e intenti, labbra che si
piegano in lievi sorrisi quando saluto le donne dagli ampi cappelli
conici. Gli uomini osservano dall’alto della riva, semi celati
sotto gli alberi, con lo stesso sbirciata indagatrice delle donne di
un paesino del nostro sud, da dietro le persiane.
Sotto
un grande e polveroso gazebo che segna il luogo del molo franato di
Data Dian, saldo i conti con Sanding e gli passo le foto fatte lungo
il fiume. Saluto i membri dell’equipaggio, strette di mano,
sorrisi, “quando ritorni qui”, impossibili promesse. I volti seri
e immobili dei Kayan mi guardano un’ultima volta mentre salgo
sull’auto che mi porterà a Putussibau.
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