In sella
ad uno scooter in affitto, percorro la bella strada costiera che da
Ende si allontana serpeggiando verso ovest, verso le terre dei Naga e
dei Keo, alla ricerca dei sa’o jara, i cavalli
lignei stilizzati che rappresentano il totem principale di questo
popolo.
In
questi ultimi anni questo tratto che corre lungo il mar di Savu
fino alla cittadina di Nangaroro, è stato riasfaltato e
permette viste incantevoli della costa sabbiosa, dell’isola e
penisola di Ende, con i vulcani Iya e Medja. La lunga
spiaggia da Maunggora a Nangapanda, conosciuta
al turismo come spiaggia blu, è punteggiata dai mucchi di
sassi di varie gradazioni di nero, verde e bluastro e calibri
diversi, che attorniano gli insediamenti precari dei
raccoglitori, spesso donne col bimbo al collo chine sulla battigia
per ore a raccogliere questo pesante tesoro verdazzurro, tanto ambito
dai costruttori di ville del Giappone e di Bali.
A Nangaroro la
strada si inerpica con ampi tornanti e la guida si fa ancor più
divertente, attraverso tratti di foresta e piantagioni. Ad Aegela si
lascia la pomposa trans-Flores e ci si dirige a nord, lungo quella
che sembra un’autostrada tra basse colline. Non incrocio veicoli e
nemmeno case per diversi chilometri. Sembra un pianeta deserto. Dopo
una curva compaiono le prima case sparse e, all’altezza della
chiesa, si sale una stradina verso il villaggio adat di
Lambolewa, Bo’a Zea.
Bo’a
Zea (Lambolewa)
Chiedo
il permesso di entrare nel villaggio ad un anziano: due file di case
tradizionali con al centro un ampio spazio comune, rinnovato di
recente. Una coppia di colubrine portoghesi fanno guardia minacciosa.
Om Dobi si scusa perché non ha nulla da offrirmi, in compenso mi
racconta del furto del Peo ligneo, che ha colpito al
cuore la comunità, e della boxe locale, tinju, che si
svolge ogni anno ad agosto. Ine Susanna mi parla della sua famiglia e
dei figli, al lavoro nei campi. I giovani sono tutti al lavoro, i
bambini alla scuola e a presidiare il luogo rimangono pochi anziani.
L’insediamento di origine, Labo-Kawa il kampung
induk, si trova 8 km più sù lungo il sentiero che porta alla cima
del monte Keli Lambo.
Da
Lambolewa in mezzora si scende verso il mare e la piana alluvionale
di Mbay, formata dal fiume Aesesa, verde di
risaie dopo le aride distese di sterpaglie che coprono i versanti
occidentali delle colline. Sul mare fa un caldo accecante e l’aria
attorno trema satura di polvere. Tristi edifici governativi si
affacciano lungo la strada, asfalto intriso di sabbia e buche
lasciate dall’ultimo monsone.
Prendo
la strada che si inerpica verso sud, lungo il versante occidentale
del Keli Lambo, fino al bivio per Tutubhada.
Tutubhada
Un
grande villaggio con molte case tradizionali, alcune, quelle di
origine dei suku, ben tenute. Queste, chiamate Sa’o
Ji Vao, hanno tre facce intagliate nella trave anteriore e, ai
lati dell’entrata, dietro la veranda, due statue lignee, donna a
sinistra e uomo a destra, a grandezza naturale. A sottolineare il
primato della coppia portatrice di vita di un clan.
Pak
Fredy, emigrato a Giava per cercare lavoro, è stato richiamato dal
governo locale per occuparsi della promozione turistica. Mi fa da
cicerone, alto, azzimato, occhiali spessi e sigaretta accesa. Chiedo
di visitare la Sa’o Ji Vao principale, ma niente: la morte di un
anziano incombe e bandisce la visita di stranieri durante i 40 giorni
di lutto. Solo indossando una sciarpa tradizionale, affittata da una
vecchina, posso avvicinarmi e ammirare gli intagli, le statue e le
decorazioni sulla facciata.
Fredy
è un ironico dissacratore e racconta di alcuni turisti musulmani
che, per non aver rispettato le regole e i tabù del villaggio, sono
morti colpiti dall’anatema degli antenati, di ritorno a Giava. Il
villaggio si affaccia su un’ampia piazza rettangolare che ospita
tombe e menhir di pietra, ricoperti di cera sciolta delle candele
offerte ai morti.
Dopo
la scuola media di Tutubhada una stradina a tratti sassosa e
sconnessa sale per diversi chilometri tra basse colline. Quando la
pista diventa cementata (è la spiccia modernità della profonda
provincia indonesiana), si prende un sentiero a sinistra.
Rendu
Ola
Il
villaggio mi appare vuoto. all’entrata, su un angolo dello spiazzo
centrale, sta un singolo Sa’o Nggua con alcune mascelle appese. Al
centro del villaggio si staglia solitario un Peo ben disegnato e
intagliato, e una Sa’o Enda minimalista. Arrivano due vecchine
cariche della spesa fatta al mercato di fondo valle. Si riposano
sotto la veranda di una casa e si fanno un betel. Si chiacchiera
degli incendi che, in questa stagione di secchezza estrema, sono il
vero pericolo per le comunità isolate. Un luogo tranquillo, abitato
dal vento secco e dai fantasmi.
A
Boawae riprendo la TransFlores verso est. Al bivio di Raja si imbocca
la strada verso sud che attraversa basse colline, gole, montagne
verdi e boschi di Eugenia (chiodo di garofano) e Aleurites (noce
delle Molucche). Poche risaie, già aride. La strada asfaltata è
costellata di macchie di noci, fave di cacao e chiodi di garofano
messi a seccare al sole.
Wajo
Pak
Arnold esce dalla sua grande casa moderna per accogliermi, abbigliato
con vesti antiche. Il suo aiutante mi fa togliere le scarpe e mi
aiuta ad indossare gli stessi capi, un sarong con motivi che sembrano
fiocchi di neve, dorati su fondo nero, e una sciarpa che riprende gli
stessi colori. Solo così posso salire sulla grande piattaforma di
pietra sopraelevata dove si trovano Peo e Sa’o
Enda. Questo villaggio, peraltro molto noto per la sua orchestra
di percussioni di bambù, non ha un Sa’o Jara separato
e distinto dall’edificio, ma lo si riconosce integrato nelle grosse
travi che sostengono il pavimento, abbellite con terminali a forma di
testa di cavallo. L’interno è stato estesamente intagliato con
scene e simboli legati a caccia e agricoltura e statue lignee.
Pautoda
Unione
di due suku, Pau e Toda, il villaggio ha dato origine a 4 ana
susu. A fine luglio si svolge la grande cerimonia Ka
Todo che coinvolge gli ana susu nella celebrazione
dell’unione fra uomo e agricoltura. La festa si dipana in varie
parti: durante la Pute Wutu i quattro anziani
capi-clan danzano attorno al Peo assieme all’anziano custode della
tradizione, o Nete Niro. imitati, in un secondo momento,
dalle loro mogli. Seguono danze collettive e declamazione di poesie.
L’apice si raggiunge con la Sepa Api, che prevede
danzare e scalciare le braci ardenti di gusci di cocco, fino ad
estinguerle. Infine, con la Papa Todi, i maschi dei due
suku, Pau e Toda, si affrontano in una battaglia rituale usando come
proiettili frutta (pinang, piccole noci di cocco, zucche del Siam,
arance e papaie).
Pak
Sipri (Ciprianus) mi racconta che all’origine della danza del fuoco
ci fu un esorcismo. Un antenato, nel villaggio, aveva raggiunto una
conoscenza tale delle preparazioni erboristiche da diventare
invulnerabile, salvo se bruciato con braci di gusci di cocco. La sua
presenza e arroganza creò disarmonia tra gli abitanti del villaggio
che, per ricreare il giusto equilibrio, lo bruciarono su braci
ardenti fino a calpestarne le ceneri.
Lewa
Ci
sono quattro suku. Oltre al Peo, a cui hanno rubato
alcuni abbellimenti, c’è il madhu, un palo intagliato
a motivi geometrici con in cima la statuina di un uccello. Le effigi
di uccelli sono associate, come accade negli intagli delle case
Ngada, a “gioielli”, qui rappresentati da conchiglie. Il
significato è lo stesso: i volatili domestici concorrono al
benessere del clan e del villaggio e sono simbolizzati mentre
“producono” ricchezza. Un gruppo di anziani mi invita a sedere
sotto una tettoia e inizia la solita intervista, come sempre condita
da buonumore, allusioni e frasi scherzose. Immancabile la foto
ricordo sotto il Sa’o Jara. Acquisto un bel po’ di
chiodi di garofano e l’invito a ritornare in occasione del Sepa
Api. Un giovane mi accompagna ad un villaggio vicino, dove è in
corso la festa di accoglienza di una suora, appena rientrata
dall’Italia. Mi siedo con i suoi famigliari che mi rifocillano e si
divertono quando scambio poche frasi in italiano con la sorella,
visibilmente imbarazzata.
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