Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

mercoledì 29 dicembre 2010

monsone

La pioggia cala impetuosa. Fili argentei che collegano il cielo alla terra. L’acqua cade con un suo temperamento, a volte è lieve, fine; altre scroscia con potenza. E’ sbattuta qua e là dal vento che l’accompagna. L’aria a folate sembra dominarla, ma lei ha la stessa sostanza di una prateria d’erba: si piega alle folate perentorie, ma dopo poco si riprende, dritta, implacabile, fissa.

La pioggia ha un suono. In alto, in cielo, se fossimo solo un pensiero che ascolta, e non materia, sentiremmo un fruscio, immobile nella sua regolarità. Un parlare fitto, sottovoce, un brusio. Il battito d’ali di mille colibrì. Appena si lega alla terra, alle materia di cui la terra è popolata, la pioggia muta il mormorio in ritmo, canto, cicaleccio. Regolare, insistente, a tratti ipnotico. E’ così la sonorità del monsone, che ha un suo accento peculiare nella ripetizione ossessiva di milioni di tamburelli. E’ un messaggio ridondante che la materia vaporosa delle nuvole manda alla terra. La terra lo riecheggia con le sue tante coloriture. Il suono monotono acquista toni nuovi dai rimbalzi, gli elementi terreni creano nuove note e la pioggia scrive una sinfonia là dove c’era la silenziosa immobilità della materia.

Quando i vapori, stanchi, cessano di inviare i loro frenetici messaggi liquidi, il canto si sfalda, s’interrompe il ritmo. I rimbalzi, prima arginati nel loro cammino sinfonico, ora assumono individualità, sono riconoscibili. La sinfonia si riduce ad un gocciolio di contrappunti. A singole note lente seguite da brevi scrosci tintinnanti, tip, plip plip, titip.

Crrraack ! Un lampo illumina lo spartito e si riflette rapido sulle foglie bagnate.

venerdì 24 dicembre 2010

il funerale

La nenia, ipnotica, inizia dopo l’alba. Gong e timpani, appena sfiorati, si fondono ai bassi ritmati per dare una melodia sempre uguale, vellutata. Sembrano viole. Risuona il grande gong e si ricomincia.
I primi, solidi, raggi di sole, raro in questi bui giorni monsonici, dissipano la bruma del mattino e con essa si alza il coro di voci femminili. Voci senza accenti si colorano in un’unica, mesta, litania che sale dalla casa e percorre i vicoli intorno.

La processione si compone nel traffico, al ritmo dei gong suonati come una marcetta. Un giovane, forse il nipote prediletto, s’arrampica svelto sul baldacchino, ornato di carta candida e oro. Questo è il segnale e la teoria di donne, in testa un vassoio prezioso di doni, si muove all’unisono, ancheggiando appena, corpi fasciati dai tenui colori dei sarong. In pochi minuti sono già lontani. A tallonare, il fragoroso e pagano scalpitare di una folla di motorini e auto, impazienza e noia al seguito della mestizia.

Quando il sole è alto, i musicisti lasciano le mani libere di rincorrere scale tonali colorite, tintinnii fioriti ed elaborati. E’ lo stile kebyar, che ogni tanto balza fuori dalla altrimenti monotona e setosa cantilena dei toni bassi. L’orchestra a poco a poco attira a sé il coro femminile, che stavolta si esprime con una sonorità da vocalizzi sacri.

Suoni che fanno da sfondo all’intera giornata, accompagnano il pensiero che si dipana sorretto da broccati di note, morbide e vaporose.

Non ci sono pianti, non scene di disperazione, lasciate all’intimità delle stanze in penombra. La morte è, oggi, intrisa dei legami di parentela e vicinato, sublimati in rituali millenari e scanditi da musica e canto.
Un modo ovattato di andarsene.

giovedì 16 dicembre 2010

Wayan, il massaggio

Oggi, in uno sperduto paesino alle pendici del grande monte Batukaru, sotto una pioggia oceanica e fulmini a pochi passi, le mani esperte e indagatrici di un massaggiatore balinese hanno sondato a lungo i miei dolori. Ho scoperto alcune cose nuove del mio corpo, nuove fitte, nuovi riflessi. Ho scoperto anche che i balinesi, tutti, allo schiocco del lampo si tappano le orecchie per non ascoltare il tuono.

La scena era da quadro di Corot, toni scuri poco contrastati, la cupezza del temporale avvolgeva tutti. Le facce livide dei pazienti e amici, in attesa del loro turno, rispecchiavano l’ansia per il saettare elettrico, il dolore che li aveva condotti lì, la rassegnazione per la lunga attesa.

Pak Wayan è un tukang pijat, un massaggiatore abile, con la capacità di suscitare riflessi là dove non esistevano prima. Ha un bel viso, capelli appena brizzolati, veste il sarong con la cintura tradizionale, riceve a casa sua, a Pekan, di fronte ad un tempio ricolmo di fregi fioriti. Ha mani che, ad un certo punto, paiono lavorare da sole, non mosse da comandi superiori. I tendini ed i nervi sono corde di un’arpa antropomorfa che evoca e suona, fino a trovare una nuova armonia nel corpo del paziente. Non insiste avido sulle sofferenze che induce, ma le accarezza per ricondurle entro lo schema balsamico che sta costruendo. Poi, finite le abluzioni rituali, raccoglie le offerte di ognuno e le concede in preghiera al suo dio, affinché la mano che ha guidato sia efficace nella cura.

Un’operazione salvifica di tale portata avviene nella più totale nonchalance di una casa balinese, dove bimbette giocano a rincorrersi in bicicletta, gridando felici. Galli inseguono galline, galline inseguono pulcini e tutti sono inseguiti da gatti e cani. Uccelli canterini sono appesi ovunque sotto le verande, una nera maina ride della risata dei bambini e saluta con i toni del capofamiglia. Piante profumate, fiorite di cento colori, pennellano i molti grigi del pomeriggio. La casa, composta da vari piccoli padiglioni separati, ciascuno con una sola camera, immersi in questo giardino lussureggiante, mette pace nell’animo. Il viandante si sente sempre a proprio agio in una casa a Bali, subito parte di un gruppo che lo avvolge con la spontaneità della vita domestica.

Ho scoperto, infine, che un massaggio “domestico” è un affare pubblico, qui. Il massaggiatore esercita sotto gli occhi di tutti, che stanno accosciati lì intorno, nella stessa veranda. Ognuno dice la sua, sul tempo, su quanto pioverà, su quanti anni ha l’ultima nipotina, su da quanto ha la patente quello lì, sulla pendenza del giardino, che non può allagarsi. Anche i commenti sull’andamento del massaggio sono trasversali e ai miei grugniti di dolore rispondono le risatine e le spiegazioni di Wayan, i commenti degli amici, le occhiate preoccupate e di commiserazione del prossimo paziente. Ad un certo punto, capito che la mia voglia di privacy non interessa a nessuno, e non ho alcuno schermo dietro cui nascondere le smorfie di sofferenza, intervengo con un paio di battute, che scatenano l’ilarità generale. 
Risate freddine, però, di chi è venuto a cercare le mani nervose e sapienti di Wayan.

mercoledì 15 dicembre 2010

Putu


Domenica mattina. Un risveglio indolente e, stranamente, non mattiniero come al solito. Apro la porta finestra, mi affaccio in veranda e trovo seduta ad una delle poltroncine impagliate, attorno al tavolino rotondo, una donna. Ben vestita, pantaloni lunghi, maglia e giubbino beige, occhiali da sole a tenere in ordine i lunghi capelli neri, un unico ciuffo sfuggito copre la fronte. Viso aperto, sorriso timido, un velo di imbarazzo negli occhi. Non si alza, in segno di rispetto, mi saluta e dice che è stata mandata per portarci a Tulamben.
Ecco Bali, che mi si apre davanti agli occhi ancora cisposi di sonno, in tutto il contrasto delle sue facce. Una totale disorganizzazione, fin pervicace nel rivendicare il primato dell’anarchia, che si presenta con il viso puro, limpido, sorridente di una giovane donna, disarmante nel modo in cui si concede al tuo servizio.

Mi trovo di fronte ad un equivoco, o meglio un netto errore di data. La donna autista è stata tirata giù dal letto alle 4 di domenica mattina, messa su un’agile citycar della Honda, inviata a tre ore di distanza, nell’alba brumosa di Bali orientale, semplicemente un giorno prima del concordato, con tanto di telefonata e mail di conferma.

Ha inizio così una domenica balinese. Cambio di programma, cancellata la cena con amici, a base di vino francese e salsicce e chorizo portoghesi, appena arrivati da Timor Leste; partenza trafelata per la lunga trasferta verso le spiagge nere a oriente, dove sopravvivono alcuni tra i più suggestivi coralli dei mari che lambiscono l’isola.
Putu, la nostra autista, guida con perizia ed è aperta al dialogo: presto chiacchieriamo al ritmo dei cambi di marcia, delle buche evitate, delle moto che ci sfiorano a folle velocità, tra il traffico di un giorno di festa, che qui non lo è per tutti. Putu è sposata con un uomo di Amlapura, nel Karangasem. Per amore lei, donna di villaggio di Singaraja, si è spostata di decine di chilometri, lasciando le dolci colline che degradano verdi verso il mare del caldo nord di Bali, verso i rilievi aspri e brulli delle pendici laviche della Grande Montagna. Ha tre figli. Il più grande lavora in un hotel in Qatar. Le altre due vanno ancora a scuola. Dopo anni passati a lavorare negli alberghi e negli affari di famiglia ora, da quando ha acquistato a rate una Honda di seconda mano, si è messa nello scomodo business del trasporto di turisti. A est i turisti non vanno, è una regione povera, aspra, dominano le pietraie, le spiagge sono scomode, ciottolose, appena dei bordi stretti tra mare e pendici subito ripide della Montagna. Questa terra di confine è diventata molto tardi l’unica risorsa per un popolo smarrito tra un’agricoltura povera e la ricchezza ostentata del sud, pasciuto dei soldi pregiati dei milioni di stranieri che lì approdano.
Putu mi confessa che anche qui, con la nuova fame di benessere, i contadini si stanno vendendo le terre. I cambiamenti sono rapidi e radicali. Case nuove, macchine nuove, motorini, galli da combattimento, gioco d’azzardo, alcolismo. Ma solo per i pochissimi che hanno la fortuna ancestrale di possedere le poche zone appetite dal turista danaroso e incantato dalla rude bellezza di questi luoghi.
Poi mi parla della recente visita del Presidente, che è andato al più grande e sacro tempio di Bali, senza vestirsi in modo appropriato, recando, a suo dire, un’offesa ai balinesi. E’ l’unica balinese che conosco ad irritarsi apertamente per il modo insensato di guidare dei suoi conterranei. Mi parla delle sue allergie ai crostacei, dell’asma, di quanto costano cose vitali come l’assistenza sanitaria e la scuola. Da colpetti affettuosi al volante, quando mi descrive le performance della sua auto che non s’è mai fermata per un guasto e, siccome è autista abusiva, mi racconta ridendo di come spesso dribbla il tono accusatorio di un poliziotto che la ferma, giurando che la macchina è di suo marito, suo fratello, suo cugino o che sta facendo un favore ad un amico. Del marito parla poco, ma vedo che annuisce con tristezza quando il discorso si sposta sugli uomini che sperperano il denaro in carte, galli e donne.

Le pendici di Tulamben, un tempo secche e brulle, ora sono ricoperte d’un verde tenero e setoso, frutto d’una estate particolarmente piovosa e di un monsone già insistente. Sott’acqua i coralli, infatti, li intuiamo più che vederli, per il buio denso portato dalla pioggia battente e dalla torbidità che l’accompagna. È però un fondale di festoni maestosi, di gorgonie enormi che si agitano alla corrente come fantastici ventagli.  Wayan, la nostra guida subacquea, è un tipo spiccio senza sorriso. È annoiato e non si sbatte gran che per noi. Il pranzo, sulla via di casa,  è a base di gustosissimi spiedini di carne e pesce, posati su un cartoccio di riso bianco e spalmati di una salsa densa e speziata. Putu ci offre due mandarini succosi.

Al rientro la sonnolenza è disturbata dalle buche e interruzioni nella grande arteria, un cantiere che dura da dieci anni. Il traffico della domenica sera ci da la sveglia. Alla prossima, Putu.

lunedì 13 dicembre 2010

I segreti di Dewa Ruci

I lunghi minuti, passati sotto il sole cocente attorno al Simpang Siur, inevitabilmente ci rendono familiare l’alta e impressionante statua che lo contrassegna, il Dewa Ruci.
Il gigante Bima, messo a sorvegliare con piglio da eroe, mentre lotta col serpente dell’oceano,  le migliaia di figurine umane che si affannano ai suoi piedi, potrebbe essere spostato per far posto ad un enorme svincolo sopraelevato destinato, si dice, ad alleggerire il traffico asfissiante di questa Bali moderna.
E’ l’occasione per riflettere sui guasti che la modernità subita e mal governata produce alla vita sociale ed alla cultura dell’isola che ci ospita. E’ anche un pretesto per penetrare più a fondo nella mitologia che così spesso permea la vita e la cultura dei balinesi, affascinati e soggiogati da eroi, demoni e imprese memorabili.

La storia di Dewa Ruci è una delle storie giavanesi più note ed amate, che ha valicato lo stretto di Bali e s’è radicata anche qui. E’ la descrizione di un’armoniosa relazione tra servo e padrone, rappresentati da Bima, o Arya Werkudara, e Dewaruci. E’ l’illustrazione di un risveglio, in senso buddista/induista, dell’ incarnazione dello spirito che guida il corpo e l’anima del praticante, simbolizzato da Wêrkudara, verso la comprensione della Perfezione della Vita e della Unione Mistica col Divino.

In tal senso, la narrazione s’intreccia con la tradizione sufi dell’essere umano come tripartito in corpo (raga), anima (pramana) e spirito (suksma), in giavanese jasmani, napsu e roh. La storia traccia la via, così antica nel genere umano e presente in ogni cultura, dell’unicità della persona e della necessità di cercare in sé stessi la perfezione di un essere completo, attraverso una pratica lunga, faticosa e piena d’insidie.

La tortuosa vicenda del baldo Bima si annoda con la narrazione del Mahābhārata. I cinque fratelli Pendawa hanno, in comune coi loro feroci cugini Kurawa, un precettore, il Guru Durna.

Durna affida a Bima un compito creduto impossibile: trovare l’acqua sacra Prawitasari (Prawita, pulito, sacro; Sari, essenza), cioè la sacra essenza della conoscenza.

Si crede che l’acqua sacra si trovi nella foresta di Tikbrasara, alle pendici del monte Reksamuka.
Questa prima ambientazione richiama  il forte impulso alla conoscenza del praticante, attraverso i sensi e la vista (reksa muka) in particolare.
Bima è all’inizio del percorso che lo farà giungere all’essenza della sacra conoscenza attraverso il samadi (o stadio finale di ogni via spirituale autentica, l’estasi divina). I passi che intraprende sono la purificazione del proprio corpo e anima con acqua e la concentrazione mediante la focalizzazione dello sguardo (paningal) sulla punta del naso.
Nella foresta Bima è assalito dai due fratelli giganti Rukmuka e Rukmakala. Bima, inizialmente quasi sopraffatto, riesce alla fine ad ucciderli entrambi, elimina, cioè, gli ostacoli che gli impediscono di raggiungere il suo scopo. I due orchi infatti rappresentano la passione per il cibo delizioso (Rukmuka, da ruk, danno; muka, faccia – o Kamukten) e la passione per le ricchezze materiali (Rukmakala, da rukma, oro; kala, pericolo – o Kamulyan), impedimenti alla concentrazione, barriere che coprono la propria vista interiore.
A questo punto Bima si rende conto che l’acqua sacra non si trova nella foresta e torna dal guru Durna. Questi gli fornisce un altro indizio: l’acqua sacra si trova sul fondo dell’oceano (samudra), ed è lì che l’eroe si reca senza esitare, anche contro l’obiezione della madre e dei fratelli.

Samudra, la vastità dell’oceano, rammenta a Bima che l’uomo virtuoso deve possedere un cuore grande come l’oceano per saper perdonre il prossimo. Non appena s’immerge nell'oceano, un serpente gigante lo assale. Solo con la potenza magica degli artigli dei suoi pollici, il kuku Phancanaka, riesce a smembrare e sopraffare il serpente. Si libera così anche dalla parte oscura e malvagia del proprio cuore, il rettile, con la forza dignitosa di chi ha raggiunto la vera realtà delle cose.
Immergendosi sempre più in profondità nell'acqua, Bima infine perde coscienza e quasi affoga. Si sveglia e vede davanti a sé un proprio doppio, ma in miniatura, che risponde al nome di Dewa Ruci (il dio minuscolo).
Il santo Dewaruci chiede a Bima di entrare dentro il proprio corpo, per abbracciare con lo sguardo tutte le cose. Bima, prima riluttante, obbedisce e s’introduce dentro di Sé/Dewaruci attraverso l’orecchio sinistro. Qui, al culmine della meditazione, concentrando la propria mente nello spazio interiore, infinito, gli si apre la conoscenza del mondo intero.

All’interno di Sé/Dewa Suksma Ruci, Bima raggiunge e accetta la piena consapevolezza del samadi, l’unione tra servo (Kawulo) e padrone (Gusti). Nello stato di compiuta visione interiore (paningal), Bima può vedere ogni cosa, tutto gli si manifesta (tinarbuka) e, nella sua essenza più intima, egli è uno col divino, ora indivisibile, ed ha raggiunto la vera realtà.
Lo stato di risvegliato gli dona una felicità mai provata, che non vorrebbe mai far cessare. Ma permane la consapevolezza dei propri doveri verso la famiglia e la società, ai quali è destinato. Bima, ora Dewaruci, ritorna ai suoi obblighi trasformato, sia esteriormente che interiormente. Il segno dorato tra gli occhi lo distingue come colui che pratica regolarmente il samadi; i braccialetti candrakirana mostrano il suo potere sulla divina luce lunare della vista interiore; la veste batik policroma simboleggia il dominio sui propri desideri; il bastone asem mostra l’attrazione unicamente verso la ricerca della perfezione; gli artigli la forte presa sulla vera conoscenza e la potenza della piena responsabilità morale. 

Ora può raggiungere i fratelli Pandawa e sconfiggere, uniti, i 100 Korawa.
(articoli di giornale rimaneggiati)

lunedì 6 dicembre 2010

i sigari di Jember

Il tabacco prodotto a Jember è della migliore qualità, tanto da essere indicato nella preparazione dei sigari. La cooperativa Kartanegara, formata da ex dipendenti della PT Perkubunan Nusantara, ha iniziato una produzione di sigari per conto terzi, impiegando manodopera locale femminile di grande esperienza. Una distesa di foglie, stese al sole a guisa di tappeto rosso, accoglie il visitatore nel viale d’accesso. Bassi edifici, immersi in un grande spazio alberato, un campo da tennis in cemento, poche persone in giro, secondo lo stile di basso profilo dei tropici.

La stanza dove avviene la manifattura è impregnata dell’aroma denso e dolciastro del tabacco. Mani abili, mani femminili, stendono con delicatezza la grande foglia sul piano di vetro. La tagliano in piccoli rettangoli, aiutandosi con uno stampo di plexiglas. Queste porzioni di foglia essiccata, ma ancora flessibile, sono velocemente riempite con tabacco sminuzzato e arrotolate con poche capaci mosse e l’aiuto di un semplice telaietto di legno. Un’altra foglia viene spianata, privata della nervatura centrale e tagliata longitudinalmente fino a ricavarne almeno tre strisce. Una di queste strisce è avvolta abilmente a spirale attorno al nascente sigaro: è il wrapper. Altre abilità, nella misura e nella cernita, si mettono in campo per pareggiare i sigari grezzi e selezionarli per colore e taglia. Ogni più piccolo scarto della preziosa foglia color caffelatte è recuperato e riciclato. Infine l’impacchettamento, prima con involucri individuali e poi in scatole di latta che, il committente australiano, ha voluto di un modaiolo color pervinca.
Confezionare sigari anche qui è affidato alla delicata sapienza femminile. Un accessorio del gusto tipicamente maschile è amorevolmente assemblato, dalla foglia al cilindro compatto, da mani di donna. E forse anche questo contribuisce a farne un oggetto ambito ed esclusivo in un mondo di maschi.

Nel vicino Cigar Corner, la cooperativa espone campioni delle sue produzioni, in scatole che riportano sul coperchio prevalentemente immagini esotiche ed evocative di Bali, una danzatrice, la maschera di Barong, un coro kecak. L’accostamento sigaro-liquore, così ricercato tra i buongustai, è malinconicamente relegato al ripiano polveroso di un armadio, poche bottiglie di vino e Fernet Branca, assurdamente vuote. Fuori, accostata ad un muro bianco, riposa una silhouette in compensato a grandezza naturale, il testimonial, dicono di grande appeal ma ormai in disuso, di una popolare linea di sigarilli. L’uomo, vestito d’un gessato nero, cappello a tesa abbassato sugli occhi, sigaretta che pende verticale dalle labbra strette appena segnate da baffetti precisi, è il ritratto improbabile d’un picciotto mafioso d’oltre oceano, abbastanza stravagante da sortire l’effetto di emulazione del macho medio indonesiano.

domenica 5 dicembre 2010

verso Java orientale

Una lunga e tediosa corsa in macchina, fatta di frenate, schivate, accelerate, sorpassi spesso pericolosi, moto e auto sfiorate continuamente. Questo è il tratto di strada, perlopiù costiera, che separa Kuta da Gilimanuk, da dove parte il ferry per Java e patria del gustoso piatto ayam betutu, in cui pollo e foglia di banana si sposano in un intreccio saporito. Si attraversa una delle zone più suggestive di Bali, accompagnati da immense risaie, verdissime e terrazzate, da una parte, e scorci di oceano di struggente bellezza dall’altra.

La grossa chiatta arrugginita, carica di camion e auto, attraversa in poco tempo il braccio di mare che è stato, nei secoli passati, un vero confine tra due mondi: Bali gelosa custode di una cultura hindu aristocratica; Java imbevuta rapidamente del nuovo ordine musulmano, sincretico con gli antichi riti animisti indigeni. Sopra, in cielo, grosse nuvole cotonose sembrano i palchi da dove gli dei, che lasciamo alle spalle, sembrano osservarci.

La terra giavanese si mostra immediatamente diversa in molti aspetti. Le case e molti fabbricati ricalcano, spesso, la forma tradizionale del joglo, con la parte centrale del tetto che si innalza a pinnacolo. Gli edifici pubblici hanno linee architettoniche più semplici e lineari, mancando delle coloriture barocche della tradizione balinese. L’Islam qui si respira, anche se non è ostentato, negli edifici religiosi, presenti ovunque a migliaia, e nei costumi tradizionali che si riducono a semplici sarong e camicioni, colorati in toni tenui.

La cucina, invece, non riserva grandi sorprese, perché la si trova spesso riproposta a Bali, come dappertutto in Indonesia, da warung e ambulanti di ogni genere, ed è quindi familiare. Sono comuni, da queste parti, le piccole “anguille di risaia”, o belut, fritte e ripassate in un sugo denso di spezie.

La strada che conduce al distretto di Jember costeggia, e per un breve tratto attraversa, un’enorme caldera punteggiata da alcuni vulcani attivi, il Ijen Plateau. Quando il lungo rettilineo scorrevole, che costeggia il versante meridionale dell’altopiano, si piega in stretti tornanti, ecco che si affrontano le pendici del monte Raung, che supera i 3000 metri, uno dei vulcani del gruppo. Gli inevitabili rallentamenti, provocati dai pesanti camion, consentono di cogliere con calma gli scorci di piantagioni di caffè e cacao che fiancheggiano e invadono la foresta vergine. Spesso si trovano anche piccoli boschi di alberi Nei punti più ripidi e nelle curve più insidiose, non è raro trovare mendicanti che, al bordo della strada e per pochi spiccioli, fanno cenni a guidatori per facilitare loro un sorpasso o impedire manovre azzardate. E’ un’economia del cercarsi da vivere anche nelle pieghe più impensabili della società. Di giorno agitano con stanchezza una mano, di notte arricchita dalla luce flebile di una torcia.
La strada, superato il passo, si precipita verso la pianura e l’aria si fa presto nuovamente calda e afosa. La larga pianura che ospita il distretto di Jember, si estende per una fascia lunga  una sessantina e larga trenta, protetta a nord dal massiccio dell’Argopuro e a sud dall’oceano. In alto enormi alberi si fondono nella foresta pluviale, di un colore che tende all’azzurro. In basso il terreno fertilissimo è patria di estese coltivazioni di tabacco, inframmezzate da caffè, cacao e gomma. Ogni villaggio ha almeno una moschea in perenne ri-costruzione e fedeli volenterosi chiedono soldi ai viaggiatori di passaggio, agitando scodelle di plastica, bandierine colorate, mani sventolate, al suono di una nenia arabeggiante, sparato sulla strada da enormi megafoni a volume altissimo.
 
Kalibaru, villaggio sparso sulle pendici boscose del vulcano, è luogo di pentolai, che sciorinano su bancarelle un bendidio di, padelle, tegami, pignatte, marmitte, teglie, casseruole, pentole, cuociuova, fornetti, bollitori, wok grandi come tavoli. Alcune forme esotiche si mescolano a ramaioli, schiumarole, mestoli, cestelli a creare una tavolozza di grigi, dall’alluminio all’acciaio, lucidi, opachi, zigrinati, martellati. Il sottofondo musicale è un martellare sordo, ritmato, degli artigiani che vivono e lavorano in un retrobottega che è già strada.
La strada, in Indonesia, è un confine sfilacciato, una trama a larghe maglie dalle quali tutto e tutti passano, è permeabile, è terra di comunicazione trasversale. Essere demarcazione non le impedisce di farsi popolata al pari delle terre che attraversa, e le macchine la percorrono come fosse un fiume affollato, schivano detriti, piante subito cresciute, aggirano capannelli e grandi voragini, genti e animali portati dalla corrente, la attraversano spesso e si fermano dove capita, dove c’è necessità, anche in mezzo, magari per consegnare un pacco o salutare un imam con rispetto.