Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

domenica 5 dicembre 2010

verso Java orientale

Una lunga e tediosa corsa in macchina, fatta di frenate, schivate, accelerate, sorpassi spesso pericolosi, moto e auto sfiorate continuamente. Questo è il tratto di strada, perlopiù costiera, che separa Kuta da Gilimanuk, da dove parte il ferry per Java e patria del gustoso piatto ayam betutu, in cui pollo e foglia di banana si sposano in un intreccio saporito. Si attraversa una delle zone più suggestive di Bali, accompagnati da immense risaie, verdissime e terrazzate, da una parte, e scorci di oceano di struggente bellezza dall’altra.

La grossa chiatta arrugginita, carica di camion e auto, attraversa in poco tempo il braccio di mare che è stato, nei secoli passati, un vero confine tra due mondi: Bali gelosa custode di una cultura hindu aristocratica; Java imbevuta rapidamente del nuovo ordine musulmano, sincretico con gli antichi riti animisti indigeni. Sopra, in cielo, grosse nuvole cotonose sembrano i palchi da dove gli dei, che lasciamo alle spalle, sembrano osservarci.

La terra giavanese si mostra immediatamente diversa in molti aspetti. Le case e molti fabbricati ricalcano, spesso, la forma tradizionale del joglo, con la parte centrale del tetto che si innalza a pinnacolo. Gli edifici pubblici hanno linee architettoniche più semplici e lineari, mancando delle coloriture barocche della tradizione balinese. L’Islam qui si respira, anche se non è ostentato, negli edifici religiosi, presenti ovunque a migliaia, e nei costumi tradizionali che si riducono a semplici sarong e camicioni, colorati in toni tenui.

La cucina, invece, non riserva grandi sorprese, perché la si trova spesso riproposta a Bali, come dappertutto in Indonesia, da warung e ambulanti di ogni genere, ed è quindi familiare. Sono comuni, da queste parti, le piccole “anguille di risaia”, o belut, fritte e ripassate in un sugo denso di spezie.

La strada che conduce al distretto di Jember costeggia, e per un breve tratto attraversa, un’enorme caldera punteggiata da alcuni vulcani attivi, il Ijen Plateau. Quando il lungo rettilineo scorrevole, che costeggia il versante meridionale dell’altopiano, si piega in stretti tornanti, ecco che si affrontano le pendici del monte Raung, che supera i 3000 metri, uno dei vulcani del gruppo. Gli inevitabili rallentamenti, provocati dai pesanti camion, consentono di cogliere con calma gli scorci di piantagioni di caffè e cacao che fiancheggiano e invadono la foresta vergine. Spesso si trovano anche piccoli boschi di alberi Nei punti più ripidi e nelle curve più insidiose, non è raro trovare mendicanti che, al bordo della strada e per pochi spiccioli, fanno cenni a guidatori per facilitare loro un sorpasso o impedire manovre azzardate. E’ un’economia del cercarsi da vivere anche nelle pieghe più impensabili della società. Di giorno agitano con stanchezza una mano, di notte arricchita dalla luce flebile di una torcia.
La strada, superato il passo, si precipita verso la pianura e l’aria si fa presto nuovamente calda e afosa. La larga pianura che ospita il distretto di Jember, si estende per una fascia lunga  una sessantina e larga trenta, protetta a nord dal massiccio dell’Argopuro e a sud dall’oceano. In alto enormi alberi si fondono nella foresta pluviale, di un colore che tende all’azzurro. In basso il terreno fertilissimo è patria di estese coltivazioni di tabacco, inframmezzate da caffè, cacao e gomma. Ogni villaggio ha almeno una moschea in perenne ri-costruzione e fedeli volenterosi chiedono soldi ai viaggiatori di passaggio, agitando scodelle di plastica, bandierine colorate, mani sventolate, al suono di una nenia arabeggiante, sparato sulla strada da enormi megafoni a volume altissimo.
 
Kalibaru, villaggio sparso sulle pendici boscose del vulcano, è luogo di pentolai, che sciorinano su bancarelle un bendidio di, padelle, tegami, pignatte, marmitte, teglie, casseruole, pentole, cuociuova, fornetti, bollitori, wok grandi come tavoli. Alcune forme esotiche si mescolano a ramaioli, schiumarole, mestoli, cestelli a creare una tavolozza di grigi, dall’alluminio all’acciaio, lucidi, opachi, zigrinati, martellati. Il sottofondo musicale è un martellare sordo, ritmato, degli artigiani che vivono e lavorano in un retrobottega che è già strada.
La strada, in Indonesia, è un confine sfilacciato, una trama a larghe maglie dalle quali tutto e tutti passano, è permeabile, è terra di comunicazione trasversale. Essere demarcazione non le impedisce di farsi popolata al pari delle terre che attraversa, e le macchine la percorrono come fosse un fiume affollato, schivano detriti, piante subito cresciute, aggirano capannelli e grandi voragini, genti e animali portati dalla corrente, la attraversano spesso e si fermano dove capita, dove c’è necessità, anche in mezzo, magari per consegnare un pacco o salutare un imam con rispetto.

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