La nenia, ipnotica, inizia dopo l’alba. Gong e timpani, appena sfiorati, si fondono ai bassi ritmati per dare una melodia sempre uguale, vellutata. Sembrano viole. Risuona il grande gong e si ricomincia.
I primi, solidi, raggi di sole, raro in questi bui giorni monsonici, dissipano la bruma del mattino e con essa si alza il coro di voci femminili. Voci senza accenti si colorano in un’unica, mesta, litania che sale dalla casa e percorre i vicoli intorno.
La processione si compone nel traffico, al ritmo dei gong suonati come una marcetta. Un giovane, forse il nipote prediletto, s’arrampica svelto sul baldacchino, ornato di carta candida e oro. Questo è il segnale e la teoria di donne, in testa un vassoio prezioso di doni, si muove all’unisono, ancheggiando appena, corpi fasciati dai tenui colori dei sarong. In pochi minuti sono già lontani. A tallonare, il fragoroso e pagano scalpitare di una folla di motorini e auto, impazienza e noia al seguito della mestizia.
Quando il sole è alto, i musicisti lasciano le mani libere di rincorrere scale tonali colorite, tintinnii fioriti ed elaborati. E’ lo stile kebyar, che ogni tanto balza fuori dalla altrimenti monotona e setosa cantilena dei toni bassi. L’orchestra a poco a poco attira a sé il coro femminile, che stavolta si esprime con una sonorità da vocalizzi sacri.
Suoni che fanno da sfondo all’intera giornata, accompagnano il pensiero che si dipana sorretto da broccati di note, morbide e vaporose.
Non ci sono pianti, non scene di disperazione, lasciate all’intimità delle stanze in penombra. La morte è, oggi, intrisa dei legami di parentela e vicinato, sublimati in rituali millenari e scanditi da musica e canto.
Un modo ovattato di andarsene.
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