La pioggia cala impetuosa. Fili argentei che collegano il cielo alla terra. L’acqua cade con un suo temperamento, a volte è lieve, fine; altre scroscia con potenza. E’ sbattuta qua e là dal vento che l’accompagna. L’aria a folate sembra dominarla, ma lei ha la stessa sostanza di una prateria d’erba: si piega alle folate perentorie, ma dopo poco si riprende, dritta, implacabile, fissa.
La pioggia ha un suono. In alto, in cielo, se fossimo solo un pensiero che ascolta, e non materia, sentiremmo un fruscio, immobile nella sua regolarità. Un parlare fitto, sottovoce, un brusio. Il battito d’ali di mille colibrì. Appena si lega alla terra, alle materia di cui la terra è popolata, la pioggia muta il mormorio in ritmo, canto, cicaleccio. Regolare, insistente, a tratti ipnotico. E’ così la sonorità del monsone, che ha un suo accento peculiare nella ripetizione ossessiva di milioni di tamburelli. E’ un messaggio ridondante che la materia vaporosa delle nuvole manda alla terra. La terra lo riecheggia con le sue tante coloriture. Il suono monotono acquista toni nuovi dai rimbalzi, gli elementi terreni creano nuove note e la pioggia scrive una sinfonia là dove c’era la silenziosa immobilità della materia.
Quando i vapori, stanchi, cessano di inviare i loro frenetici messaggi liquidi, il canto si sfalda, s’interrompe il ritmo. I rimbalzi, prima arginati nel loro cammino sinfonico, ora assumono individualità, sono riconoscibili. La sinfonia si riduce ad un gocciolio di contrappunti. A singole note lente seguite da brevi scrosci tintinnanti, tip, plip plip, titip.
Crrraack ! Un lampo illumina lo spartito e si riflette rapido sulle foglie bagnate.
Nessun commento:
Posta un commento