L’asfalto è un inganno, è la falsa promessa di un ordine inviolabile. E’ una certezza ingannevole. In Indonesia la strada nasce per essere violata. E’ permeabile, è rete a maglie larghe, che lascia passare tutti i pesci. Non è nemmeno “nastro d’asfalto”, perché la striscia è sfilacciata, s’interrompe, si restringe, s’allarga a servire la necessità di chi sta sul suo bordo. Tanto meno è l’asfalto la materia che la distingue. Se c’è pietra, è di pietra, se c’è polvere, è di polvere. Ma può essere fatta dell’acqua di un fiume, come del pietrisco rotondo e mobile del letto secco di un torrente, che ormai da anni ha distrutto il ponte che lo attraversa, in un impeto di pienezza. L’entropia dei sassi è più solida di un ponte che, prima o poi, crollerebbe di nuovo. Comunque, se d’asfalto è fatta, è un bitume cagionevole, si slabbra, si deprime, si sfonda. Emerge da sotto la sua sostanza grossolana, come ferite grigie che spurgano sabbia e pietrisco.
La strada è un’idea nata per percorrenze longitudinali, nette, senza esitazioni. Qui l’idea è corrotta da una natura imperiosa e da un senso della vita evanescente, confuso, incerto, ma abile nell’adattarsi a percorsi alternativi, deviazioni necessarie. Le genti equatoriali s’appropriano della malleabilità acquisita da quest’idea perfetta e la impastano come pongo, rendendola altra cosa, imperfezione indispensabile, mutazione.
Ecco, la strada indonesiana è l’evoluzione della specie strada, che ha inglobato le tante variazioni di forma e funzione, per dare origine ad un nuovo endemismo. Un poliforme miscuglio perfettamente adattato. Un percorso senza direzione.
Nessuno, qui, usa la strada come indicatrice di direzione e superflue sono le numerazioni. Poiché la strada è tragitto, valgono solo le indicazioni cardinali, oriente, settentrione. E la relatività: qui vicino, da questo lato, non lontano.
A Bali, la situazione per il viaggiatore si complica per le undici direzioni che si sovrappongono ai punti cardinali. Qui vige il concetto di “verso la Grande Montagna”, (kaja) che talvolta è nord, talaltra è sudest, ma non è verso sù. All’opposto, ma in senso relativo, c’è “verso il mare”, (kelod) che mescola timori atavici, scorrere d’acque a valle, immensità esoterica dell’oceano.
“Dov’è il tempio?”. “Non lontano da qui, ad oriente, ma dall’altro lato e poi verso kaja”.
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