E’ fuori dubbio, lo vedo. L’ospedale ti trasforma, cambia il tuo corpo. Anche solo poche ore e la metamorfosi ha inizio. La pelle impallidisce, diventa diafana. La voce s’affievolisce, un poco roca. I gesti rallentano, le mani tremano leggermente. Il corpo s’appiattisce, i rilievi a poco a poco scompaiono sotto le lenzuola candide, come un campo dopo un’intensa nevicata.
Anche il lume della ragione s’appassisce e una curiosità di solito viva si trasforma nel suo ricordo. Le domande che dovresti porre nascono già stanche e in ritardo.
Ti nutri di liquidi incolori, pappe opalescenti. La luce è fievole, i suoni smorzati, scivoli in un limbo esangue.
Uno spettro.
Gli spettri non sono i morti che ritornano, sono vivi, ancora carne e ossa, solo trasformati, ecco.
Sono i malati, gente irrisolta, sono i prigionieri di questo melmoso candore che riempie le stanze di un ospedale. E’ la loro esistenza non ancora definita che ci spiazza, ci agita, si insinua nei nostri pensieri e genera paure. Sono loro le nostre paure profonde che evochiamo quando, coi peli ritti, crediamo di sentire un rumore nel buio. O un brivido freddo in una giornata di sole.
Sono i malati, la cui condizione sospesa ci mette a disagio, s’insinua malevola nelle nostre esistenze ben definite. Non sappiamo come gestirli, i nostri fantasmi.
Molti riprendono il loro colore e la loro corporalità, altri non ce la fanno e spariscono diventando invisibili. Una volta concluso e risolto il loro percorso nella malattia, nella “spettralità”, o sono o non sono più. Comunque cessano di essere ombre. Eccoli i nostri fantasmi, e di essi abbiamo terrore. Non della morte, che è nostra amica sincera, schietta, risolutrice. Né della vita, che non ci da tregua, che cavalchiamo a spron battuto.
E’ del limbo che abbiamo timore, e del popolo diafano che ne occupa le stanze.
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