Il gigante
decollato del Tambora si erge lontano sopra coorti di nuvole a fiocchi. Il
profondo fiordo di Hu’u sembra una ferita aperta al centro del corpo dell’isola
di Sumbawa. Lontano, verso nord, spicca la vetta tronca del Sangeang, vulcano
che non cessa mai di elargire la sua materia fumante.
La pianura
arida di Kupang si apre sotto di noi. Timor sfila veloce, ora al ritmo di
un’auto in corsa. Ampi tratti di sterpaglie, rare boscaglie di alberelli privi
di foglie. Il monsone del sudest soffia ancora caldo e secco dalle pianure
australi e condiziona un clima aspro e una popolazione spigolosa e ruvida che
pare nata dai rami nodosi dell’eucalipto.
Sipri, la
mia guida, ha un bel sorriso ampio e sincero. Voce profonda, arrocchita dal
fumo. Rughe gentili incorniciate da folti capelli scuri, con ciuffo lasciato
libero. Il suo cognome, Da Silva, richiama i pochi coraggiosi portoghesi che,
nel cinquecento, “scoprirono” queste terre e imposero la loro religione, i loro
nomi e perfino i loro tratti. Un Topasse,
come erano conosciuti i sangue misto frutto del radicamento in queste terre dei
fieri portoghesi, abili nel commercio del legno di sandalo.
Attraversiamo
i due grandi fiumi che scolpiscono la parte centrale di Timor, il Noelmina e il Benanain. Vasti letti sassosi che ricordano il Piave, profondi
canyon tagliati nella friabile roccia sedimentaria. Poi la strade sale fino
agli altopiani collinosi e brulli a ridosso della frontiera con l’est.
Temkesi – oltre la strada asfaltata si entra
in una terra sospesa popolata da rifugiati da Timor Est. Hanno tagliato tutti
gli eucalipti, per farne legna da ardere e da carpenteria, e ora la terra
brulla e rossa rimane calcinata dal sole. Gli ultimi chilometri sono lungo i
bordi arrotondati di basse colline, rivestite da una coltre di rigida peluria
marrone che avvolge coriacea grossi affioramenti basaltici. Il villaggio risale
al 17° secolo ed è stato fondato da un principe di etnia Biboki. Si trova in cima ad una ripida salita
rocciosa, annidato tra due pinnacoli di pietra che sembrano due guardie armate.
Ci sono varie Lopo, una ampia casa
del rajah, abitata solo in occasione delle grandi cerimonie per il raccolto.
Ogni capanna ha davanti un bastone, che rappresenta il potere maschile.
Oelolok – in fondo ad una strada alberata,
un grande palazzo di stile coloniale eretto i primi del novecento. Cadente,
muri sbrecciati, giardino arso e incolto, infissi sfondati. A fianco una enorme lopo sostenuta da 9 colonne lignee,
ciascuna intagliata con un proprio motivo geometrico. Il tetto, in origine rivestito di strati di foglie secche, è ora di lamiera
arrugginita, il che non fa che accrescere l’aria di mesto abbandono e di lontananza
da alcunché di culturale locale. Triste.
Maubesi – un paesotto lungo la strada
grande. Ogni famiglia possiede più capanne, le moderne sulla strada, le
tradizionali ume kebubu e lopo, più indietro. Anton Naikofi mi
apre orgoglioso il suo “art shop”, l’unico negozio dove trovare oggetti di artigianato.
E’ una specie di retrobottega polveroso, dove tessuti, statue, portali
intagliati, maschere sono messi alla rinfusa, accostati in modo casuale a
sedie, tavoli e poltrone sfondate. Ma è una grotta di Ali Babà e alcuni pezzi del
tesoro sono pregevoli.
Boti – dal
bivio di Niki Niki, la strada si inerpica sulle colline e abbandona presto la
asfaltatura per la sua vera natura di sterrato pietroso. In cima ad una salita,
sotto un albero ampio e frondoso, si appoggia un misero recinto con cancello
metallico. Alcune famiglie, riunite attorno al giovane figlio di un vecchio
rajah, vivono nell'ortodossia animista. In realtà, si coglie una certa elasticità verso il compromesso,
visto il generatore di corrente e la larga parabola per la televisione che stanno dietro la casa padronale.
L’accoglienza del viandante si dipana secondo una cortesia rituale che non
manca di lasciare il segno. Sotto l’ampia veranda, al riparo del sole che cuoce
le cime delle colline, sono immediatamente serviti teh, caffè dolci e banane
bollite. Il visitatore offre una modesta donazione e il sirih-pinang e, a sua volta, ne prende un pizzico per cortesia. Gli
sguardi indagatori sono scambiati come i doni, avvolti da lunghi silenzi. I maschi,
fratelli o cugini, si assomigliano tutti.
Sguardi profondi come laghi di
montagna, sorrisi accennati da budda risvegliati. La sensazione di pace avvolge
l'intensità dell’accoglienza, solleticata dai giochi che faccio con un figlio
piccolo e la macchina fotografica. Ma l’emozione fa venire le foto tutte mosse.
Il bimbo ride, e gli adulti, rilassati, masticano betel. Solo la matriarca,
vedova del vecchio rajah, conserva uno sguardo indagatore e severo, da patrizia.
Non permettono che si violi l’intimità
delle ume kebubu, dove i riti
domestici s’intrecciano ad antiche consuetudini. Nemmeno posso vedere dove tengono i preziosi gong e gli
oggetti legati agli antenati, racchiusi in contenitori intrecciati e appesi al
soffitto.
La volontà
del rajah, di condividere alcune parti del loro vivere quotidiano, si vede
nelle donne che mostrano ai visitatori l’intero processo di tessitura. Dalla cardatura
del cotone, coltivato in loco, alla pre-filatura con l’archetto, alla filatura col fuso. Altre due donne sono intente alla tessitura di sciarpe. Il tutto
viene messo a disposizione, in modo discreto, in un negozietto lì al lato.
Benteng None – pochi km dopo Niki Niki, si
percorre un breve sentiero di terra rossa e pietre. Alcune lopo e capanne, costruite su un affioramento roccioso protetto da
precipizi su tre lati e un basso muretto a secco di pietre e coralli. Le donne
arrivano in fretta e mettono in mostra, sulla piattaforma di una lopo, decine di oggetti intagliati,
scatole rivestite di perline, piccole maschere, bracciali di ottone e argento,
fionde. Appare un uomo, trafelato, masticando betel, vestito con costume
tradizionale. E’ l’ultimo discendente dei fieri cacciatori di teste della tribù
Amanuban. Si presenta come “l’addetto
culturale” del villaggio. Con fare deciso, spiega il significato di quello che
è in realtà da secoli un fortino, un luogo dal quale gli uomini si preparavano
alla battaglia con le tribù confinanti dei Mollo
e dei Amenatun. Si mette in posa, orgoglioso,
sguardo febbrile e carico di responsabilità, in ognuno dei luoghi specifici
della spianata da cui, in modo ritualizzato, si decidevano le sorti dell’eventuale
battaglia. La sua narrazione è sicura, dettagliata. Prima il consiglio del
villaggio si riuniva al luogo chiamato penè
a discutere quale tribù attaccare, osservando le mosse dei nemici, giù nella
valle (e lui si mette a terra, gambe intrecciate, masticando lentamente).
Poi, con
un secondo incontro, nel sito chiamato ote
naus, si verificava il destino dell’imminente battaglia attraverso una
divinazione. Si rompeva un uovo e eventuali tracce di sangue in esso erano
considerate cattivo presagio. In caso invece positivo, la seconda prova comportava
verificare l’abilità fisica dei guerrieri. Gli uomini, a turno, dovevano
afferrare i due estremi di un manico di lancia, il none, spinto contro un grosso palo, allungando al massimo le
braccia (lui si tende all’estremo, col pollice della mano destra sfiora il
palo, il volto teso nello sforzo). Se
non potevano toccare il palo con un pollice mentre con l'altra mano a coppa
tenevano l’estremità opposta del bastone, avrebbero sicuramente trovato la
morte. La procedura dava la previsione cruciale 'vivremo' o 'moriremo' a
seguito della scorreria. In caso negativo, naturalmente, il raid veniva sospeso
e si doveva ricominciare dal principio, con una nuova decisione collettiva al penè per deciderne la necessità.
L’uomo si aiuta
con una lancia spuntata, spara dalle feritoie ai lati del muro con un moschetto
di legno, fende l’aria minaccioso con un vero parang. Ora sudato per la prestazione,
s’infervora alle richieste di chiarimento, sputa risoluto la sua morchia vermiglia,
che si confonde presto con la polvere rossastra del terreno. Esauriente,
conciso, efficace.
Al tramonto,
la luce esalta i toni rossi, rosa e oro della terra, delle pietre e del
fogliame dei tetti. Coinvolgente, fondamentale, imperdibile.
Il popolo
Dawan, a Timor Ovest, tradizionalmente costruisce tre tipi di abitazioni, chiamate
Lopo le'u (casa sacra), Lopo (casa) e ume kebubu (casa rotonda). La Lopo
le'u è un luogo sacro in cui sono custodite reliquie ancestrali e si
tengono le cerimonie rituali. Lopo e ume kebubu sono invece i luoghi dove la
gente vive, in cui si svolgono le attività di tutti i giorni, siano esse
private, sociali o comuni. Mentre la ume
kbubu è lo spazio più propriamente privato della famiglia, dove si cucina e
si dorme, la Lopo è associato alle
relazioni sociali all’interno della comunità. Questa tettoia a cupola,
rivestita di paglia, ricorda un mezzo alveare. E’ sostenuta da quattro grandi
tronchi d'albero che hanno, a mo’ di capitello, grandi dischi di pietra o di
legno per evitare ai ratti di salire nel sottotetto. Il pavimento è una rotonda
piattaforma sopraelevata di pietra e fango. La Lopo è un luogo di riparo dal gran caldo; un luogo dove tessere e
scolpire, o per sedersi a chiacchierare, masticando betel. Il sottotetto è a un
tempo granaio e dispensa dove raccogliere e conservare il mais raccolto, spesso
assieme agli oggetti preziosi tramandati da generazioni, i tessuti, le statue
degli antenati, i gioielli.
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