Mai come questo giorno ho capito
il significato vero della cerimonia balinese. Il senso che i balinesi danno al
ritrovarsi così spesso, riuniti nei luoghi comuni del banjar, la loro parrocchia, o del tempio, a celebrare una
ricorrenza.
E’ il puro piacere di
incontrarsi, di sedersi uno accanto all’altra, di compiacersi in pubblico dei
propri figli, mostrare a tutti il nuovo sarong, ancheggiare davanti ai ragazzi
fino a sedersi proprio là in fondo, commentare a bassa voce le movenze di quel
danzatore. Ridere ed applaudire le proprie figlie impegnate, ma non troppo, in
una danza collettiva. Vestire con lentezza e serietà il bambino che aprirà, in
un assolo, le celebrazioni; agghindato da sembrare più grande dei suoi 8 anni, si
trasfigura nella danza, aiutato dalla leggera trance che ispira ogni maschera, topeng, indossata da un balinese davanti
agli dei.
Naturalmente il tutto è permeato
dalla sostanza religiosa, che fa danzare, pregare, ridere e scherzare, muovere
le marionette e suonare uno strumento per onorare il dio. Che guarda tutti
dalle sue effigi, a sua volta quasi delle marionette di foglia di palma,
rivestite d’arancio e viola.
Oggi ho capito che l’osservanza
religiosa è la regola data al forte bisogno comunitario che hanno gli abitanti
di questa isola. Si stringono assieme per semplice bisogno di contatto sociale,
e il cemento è il ringraziamento agli dei per ciò che hanno.
La genialità che rende questa
società così affascinante è che la forma
della celebrazione trascende la sostanza e l’estetica vince sul canone
religioso. Dalle mura, portali, torri fiorite dei templi, dove la pietra viene
piegata fino a rincorrere la fantasia dei muratori-scultori, si arriva alle
maschere colorate intagliate nel legno dolce, ai costumi e manti cuciti di
arcobaleni e ori, ai volti disegnati dal belletto, ai sarong fioriti di raso e
seta, ai vassoi carichi di tinte pastello, ai drappi, ghirlande, disegni,
intagli dorati degli strumenti musicali. Perfino il fiore tenuto sopra la testa
a mani giunte, lievemente ondeggianti al tintinnio limpido della campanella,
perfino questo gesto è pura estetica. Tanto che è ripetuto più volte, variando
il fiore, la foglia piegata, l’intreccio di rametti. Il piacere assoluto per il
bello trasforma il dettato religioso in una immensa rappresentazione, una
scenografia grande come l’isola, una tela di un artista sublime che rende ogni
tratto di vita un’arte.
Qui, oggi, la socialità è
prorompente e l’agitazione è massima. La piazza erompe di movimenti erratici,
di grida, lazzi, facce serie, suoni, odori pungenti di incensi e fiori, sudore,
cani, pianti di neonati. Su tutto, come uno scroscio di piaggia, la musica dei
gong e dei timpani risuona fortissima, sovrasta e cementa ogni cosa, sottolinea
gli slanci del ballerino, gli scatti del capo, il roteare degli occhi, il
tremito delle mani artigliate.
La coreografia si sfilaccia
presto dal programma rigido e si perde in una cacofonia. I ballerini sono in
ritardo o forse i sacerdoti percorrono la folla in anticipo, aspergendo acqua
santa a tutti. Il personaggio del vecchio viene frettolosamente fatto rientrare
per dar spazio alla serie di preghiere. Ora c’è chi danza e si agita, anziché
in un palcoscenico vuoto davanti a volti rapiti, in mezzo a gente che cammina, donne
che ritirano mezzi polli arrostiti dai vassoi votivi, bambini che corrono, cani
che si spulciano, getti di acqua sacra, fiori che volteggiano in improvvisi
turbini di vento.
D’improvviso tutto si calma e il
lento suono dei flauti sottolinea le ultime battute delle due maschere ancora
in scena. Attorno, finalmente, il rispetto per la fatica degli artisti, che
declamano nel silenzio. Ma l’impazienza ha il sopravvento e gli applausi poco
convinti sono presto dimenticati dalla folla che si muove per tornare a casa.
Ritirandosi, questa marea umana
meravigliosamente anarchica, lascia un selciato ricoperto di fiori di chempaka,
frangipani e buganvillea, immersi nei bagliori dolci di un tramonto rosa e
porpora.
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