La Mbaru Niang, la
casa tradizionale dei Manggarai di Wae Rebo, ha forma conica con l’apice del
tetto arrotondato e abbellito da cuspidi e corna di bufalo poggianti su spire
di fibre di palma intrecciate. Ha in genere un’altezza di 15 m e un diametro al
suolo di 15 m. L’alto spazio interno è suddiviso in cinque piani, diversi per
funzione e tipologia costruttiva. Blasius, col quale condivido la colazione in
questa limpida mattina di novembre, mi guida in una breve descrizione delle
parti della casa.
Il piano più basso, che si eleva a circa un metro da terra,
chiamato lutur, accoglie fino a otto
famiglie che si distribuiscono lungo la corona circolare, suddivisa in vari
compartimenti da semplici tavole di legno e tende colorate. Altre zone della corona restano aperte, con
pagliericci dove dormono i famigliari non sposati. Lo spazio centrale è
organizzato in zone comuni e cucina, ricavata sopra un’area quadrata di terra
battuta, che fa da isolante, su cui sono infisse basse pietre usate per
sorreggere le pentole. La riserva di legno da ardere è accatastata su una
piccola piattaforma appesa sopra lo spazio dei fuochi. La Mbaru Gendang, la Casa dei Tamburi, è più larga delle altre alla
base perché conserva gli strumenti musicali, gong e tamburi di varie forme e
dimensioni, usati nelle cerimonie, come i cori notturni cantati
ininterrottamente in occasione della Penti.
Il secondo piano, detto lobo,
funziona da granaio per il consumo quotidiano. Il terzo, lentar, ospita semi e germogli per il nuovo raccolto. Nel quarto
livello, lempa rae, si ammassano le
riserve alimentari per fronteggiare raccolti andati male o siccità. Sul piano
più alto, il quinto o hekang kode,
sono conservati i paramenti ed attrezzi per le cerimonie.
Ma lo scopo principale dei cinque piani è di tenere assieme
una struttura che ha linee architettoniche e tecniche costruttive
sorprendentemente semplici e funzionali. Grande com’è la casa, senza i piani
interni, ruoterebbe su se stessa accartocciandosi sotto la forza dei venti che
s’incanalano tra questi monti, o dei terremoti così frequenti. La tipologia
costruttiva ha la purezza del sapere antico (un anziano mi dice che il
villaggio è stato fondato mille anni fa). Linee morbide, essenziali, legni
della foresta piegati ad amalgamarsi in una struttura che non trova eguali in
tutta l’Indonesia. I due piani più bassi sono rivestiti di assi e travi ben
squadrate e levigate, pesanti, di legni (il kayu worok e il kayu moak) molto
resistenti e duraturi. Abbassano il baricentro e ancorano al terreno la grande
“capanna”.
I nove pali centrali
principali penetrano per un metro e mezzo nella scura terra della radura. La
parte sotterranea è avvolta, innovazione recente, in fogli di plastica e fibre
di palma intrecciate a proteggerla dai danni derivanti dall’acqua. I restanti
tre piani sono graticci di grossi rami di kayu kenti, un legno più flessibile, collegati tra loro da un intreccio
di diramazioni inclinate. Conferiscono elasticità alla parte superiore della
struttura e, nel contempo, leggerezza oltre a scaricare il peso del tetto in
modo uniforme.
Il raccordo tra i piani ed i correnti verticali di bambù, che
sorreggono il tetto di foglie di alang-alang e fibre di palma, è fornito da un
fascio circolare di rami sottili di kayu
kenti. Ognuno dei cinque piani poggia la propria circonferenza su uno di
questi anelli, flessibili, elastici, a loro volta legati ai correnti di bambù
del tetto da fibre di rattan. Gli anelli tengono il tetto “aperto” e ne
mantengono la forma conica.
Gli anziani tramandano oralmente le istruzioni per costruire
queste abitazioni che vivono e riaffermano così il saldo rapporto di
interdipendenza con la terra e la foresta, madre e padre di questo popolo dei
monti.
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