Un
sogno lontano nel tempo, quando fantasticavo
di
esplorare l’interno del Borneo Indonesiano, il Kalimantan,
percorrendo le
sue
via d’acqua più
conosciute,
il
Kapuas
e
il
Mahakam. Finalmente,
dopo
la zona del Kapuas Ulu
a
Occidente, mi
decido a partire per
la parte orientale, con
l’idea di risalire
il
Mahakam
fin dove le
barche
pubbliche arrivano, prima delle grandi rapide.
Il nastro caffellatte si snoda nella pianura che ha creato nei millenni, si avvolge su se stesso, ricco di anse e giravolte che sembrano tracciate da un artista. Si vedono le cicatrici delle miniere, dei disboscamenti selvaggi e sistematici, che si trasformano in distese verde azzurre di monotone palme disposte in file ordinate a ricoprire migliaia di ettari attorno alle sinuosità dell’acqua. Il Fiume, in maiuscolo perché qui vicino al mare è immenso. Nei pressi di Samarinda si scorgono le file di chiatte che portano il carbone: uno scempio legalizzato.
Siamo nella grande regione che dal delta arriva fino oltre i laghi, il favoloso Kutai. Il nome deriva da antiche iscrizioni risalenti al IV secolo DC, e narra di uno dei più antichi e potenti regni indù, Kutai Martapura, poi conquistato dai malesi nel XVI secolo e passato sotto i sultani musulmani un secolo dopo col nome Kutai Kartanegara.
Martin, la mia guida, in realtà si chiama Markin, per gli amici Ikin, viso scuro, aperto e sorridente; mi fa cenni di saluto dalla sua barca, ampia, resa comoda da grandi cuscini e tettoia. Una breve traversata fino a Muara Muntai e mi innamoro del Fiume: la vita su zattere, le gabbie galleggianti col pesce, le cicogne che montano la guardia, la gente che sorride e saluta.
Muara Muntai è un piccolo insediamento di gente Kutai, pescatori e commercianti, con funzione di emporio per una vasta area attorno alle rive del Mahakam e del suo affluente. Bimbi e studenti si muovono in bicicletta, tutti gli altri in motorino, sfrecciando pericolosi sulle strette passerelle di legno ferro che formano le poche strade dell’abitato. Il loro passaggio non è mai silenzioso e talvolta il frastuono è tale da impedire la conversazione.
L’indomani inizio l’esplorazione della vasta area umida che si trova all’interno di una depressione geologica, estesa per circa 4.000 chilometri quadrati. Rappresenta un’importante “cassa di colmata” delle piene del Fiume che, durante la stagione umida in primavera, può crescere di oltre sei metri.
Oltre ai tre laghi principali, Danau Jempang, Danau Melintang e Danau Semayang, comprende decine di laghetti secondari, torbiere, paludi d'acqua dolce e la rete degli affluenti. È una delle zone umide più grandi del Kalimantan e fondamentale area di riproduzione e pascolo di centinaia di specie di pesci, uccelli e mammiferi.
La piccola via d’acqua che porta al lago Jempang si snoda tra campi con bassi cespugli e isolati alti alberi, fino alla piatta prateria che circonda il lago. Ovunque garze, aironi bianchi e cinerini, guarda-buoi, martin pescatori a becco di cicogna.
Tutto cambia non appena lasciamo lo specchio d’acqua bassa del lago ed entriamo nel piccolo sungai Ohong (Ohookng in dialetto Benuaq). Come separato da un sipario invisibile, si apre un mondo nuovo: una foresta di ditterocarpi, uccelli dalle ali iridescenti sfrecciano sull’acqua, un grosso varano nuota via disturbato, una coppia di grosse aquile appollaiate in alto, sui rami spogli di un albero. Martin blocca di colpo la barca sotto alcuni rami sporgenti e mi indica eccitato un giovane pitone, acciambellato in piena siesta a pochi metri da noi. Poi un piccolo gruppo di scimmie Nasiche (Nasalis larvatus), che un po’ rappresentano la meta “animale” di queste giornate. Il maschio si offre impettito alla macchina fotografica, sguardo vigile, pelliccia folta e fulva, naso importante. Sbuffa, mostra i genitali e se ne va stizzito. Nel pieno di questo orgasmo naturalistico un grosso albero caduto di recente blocca completamente il fiumiciattolo e ci obbliga a tornare indietro per raggiungere il villaggio di Tanjung Isuy attraverso il lago.
Entriamo così nel territorio Dayak, parola forse derivata da Dayeuq che in dialetto Benuaq significa “a monte” o “dell’interno”; altri fanno discendere il termine dal dialetto Iban per “umano”. I Benuaq sono il gruppo Dayak più numeroso di questa regione e hanno abbandonato da tempo il nomadismo per vivere nel benua, in senso lato il "territorio". I gruppi che vivono attorno al fiume Ohong si riferiscono a sé come Benuaq Ohookng.
La longhouse locale, chiamata qui lou o rumah lamin, trasformata in parte in locanda, è una buona base per esplorare i dintorni alla ricerca delle longhouse ancora esistenti ed abitate. Delle quattro che raggiungo in moto, guidata da Sur, un taciturno Benuaq, solo una, a Lempunah, è abitata, le altre sono o vuote o mezze diroccate. Quasi tutte, però, hanno le statue lignee che orgogliosamente le comunità dayak hanno scolpito per onorare i loro capi, colti in vari momenti topici della loro vita. Ci sono cacciatori con lancia e cane al seguito, oratori con tanto di microfono, donne che reggono un gallo, volti con lineamenti fantastici e grandi occhi sbarrati, scimmie e serpenti sul capo e poi bimbi che succhiano mammelle cadenti, coccodrilli, diademi, cinghiali zannuti. Una cacofonia di forme tratte dal legno e consegnate al ricordo delle generazioni a venire, la storia scritta a tutto tondo.
Il viaggio in barca riprende, di nuovo sul lago e poi su per il Boroh, tributario del Fiume. Anche qui la foresta è magnifica e lussureggiante, enormi tronchi sommersi, radici aeree che si inabissano con un folto pennacchio scuro. Per lunghi tratti il fiume è come racchiuso in un tunnel verde, popolato di pescatori, aironi, martin pescatori blu elettrico e tante Nasiche.
A poco a poco la foresta cede spazio alla presenza umana: capanni galleggianti con bilance da pesca, nasse riposte in file ordinate, tronchi segati di fresco, baracche con canoe legate davanti. Infine si sbuca sul corso principale del Mahakam, a Muara Pahu. Martin da gas e in velocità superiamo tratti di foresta e stazioni di carico del carbone, con le gru simili a enormi brontosauri col lungo collo proteso sulla chiatta, a vomitare carbone in un flusso nero quasi liquido.
Melak, il nostro approdo, è in sostanza il porto fluviale di Sendawar, la capitale del Kutai Occidentale. Una cittadina nata sulle miniere di carbone e cresciuta grazie ai commerci fluviali. Mostra , con le sgradevoli statue di cemento al centro dei larghi incroci stradali, il peggio dell’abbellimento kitsch di una municipalità arricchita, simbolo di un popolo rapito da una cultura aliena, dal profitto ad ogni costo, che sottrae, oltre a terra e foreste, anche identità e dignità.
Qui nel Kutai Occidentale, si percepiscono i Dayak come marginali, sommersi e contenuti dai musulmani che occupano ogni strato sociale. Anche il cibo è quello onnipresente proprio dell’Indonesia musulmana.
Decido di non fermarmi e proseguire in moto verso Nord, passando per due rumah lamin dei Dayak Benuaq lungo la strada (Bunung e Eheng). Sono entrambe isolate e tristi, poco abitate e mal tenute, e mi sembrano il simbolo di popolo ormai stanco delle proprie radici.
In una due ragazzi, intenti a perdersi nel loro telefonino, rispondono apatici e svogliati alle mie domande e, alla fine, mi fanno entrare. Nell’altra, segnata da alcune belle statue, chiedo il permesso ad un anziano, pak Sius, intento ad assemblare una corta spada tribale, un mandau. Mi siedo con lui e il discorso cade sulla morte recente della moglie. Con gli occhi lucidi mi racconta del funerale, del bufalo sacrificato e della sua solitudine. Non gli rimane che realizzare oggetti per i turisti, mandau, portachiavi con zanne di cinghiale. Le longhouse hanno entrambe belle statue che decorano la facciata: assieme agli edifici ora cadenti, sono la narrazione visibile di un passato lontano, di un presente che porta solo i segni del tempo, scheggiato e diroccato.
Con una corsa in moto paurosamente veloce, tra ripide colline e piantagioni di palma da olio, arrivo fino a Tering, il porto fluviale da cui salperò ancora più a monte.
L'indomani è domenica e, nelle terre dei cristiani Dayak, salgo sulla prima barca e mi faccio portare a Laham, dove dicono ci sia una chiesa “antica”. Sperimento così il moderno viaggiare sul Fiume, con questi barchini a panche contrapposte, chiamati speed, spinti da fuoribordo potentissimi, che planano sull’acqua portando dieci passeggeri e bagagli in un lampo, fino su alle grandi rapide. Sono come autobus, si fermano ovunque li chiami e ti sbarcano ovunque ci sia una qualche forma di approdo.
Mi presento davanti alla chiesa tra gli sguardi attoniti degli abitanti. Un edificio in legno come tanti ma con un bel portone e due colonne lignee a sostenere la veranda, il tutto intagliato con figure di missionari e gesucristi attorniati dai ghirigori e maschere tribali, affinché la nuova religione venga accettata dalla vecchia. La chiesa del Sacro Cuore di Gesù fu fondata da tre missionari olandesi, approdati a Laham nel 1926.
Il parroco, un pingue giovanotto di Larantuka, all’estremo orientale di Flores, si presenta fumando e con grossa croce al collo. Dopo un caffè, portato dalla perpetua, e varie banalità su vocazioni in calo, giovani che non vanno a messa, notizie dal Vaticano, mi affida all’obesità foruncolosa di un fedele che mi accompagna in moto a fare un giro del villaggio, fino alla rumah lamin.
Questa possiede ancora belle colonne intagliate e inglobate in una struttura ora adibita a magazzino di nuovi cassonetti per l'immondizia. Almeno qui, piccola comunità persa lungo l’acqua sporca e inquinata del Fiume, si inizia una raccolta di spazzatura casa per casa, con tanto di “Ape” dedicato.
E’ comunque un passo avanti rispetto alla pratica comune, lungo il Mahakam, di gettare tutto per terra o nel fiume. Tra l’altro, tutti si lavano nelle sue acque, dove anche defecano e attingono per gli usi idrici di case, locande e negozi.
La rumah lamin successiva, chiamata pomposamente Lamin Adat Dikut Amin Hyuq Puhuq Kayan e recentemente ricostruita, rappresenta la conferma istituzionale della svolta “pubblica” dei Dayak MakUl (Mahakam Ulu, la parte “a monte” del Fiume), che testimonia e certifica il cambio d’uso delle longhouse nel solco della tradizione, si direbbe ora.
Salgo sulla prima speed che passa e arrivo in due ore a Long Bagun. In questo lungo tratto il fiume cambia, si restringe, si infila tra basse colline che talvolta si trasformano in stretti canyon dalle pareti verticali di pietra grigia. Siamo nella regione a monte, Ulu, in contrapposizione ad Ilir, a valle.
Long Bagun è una comunità a molte facce, come altre che ho incontrato lungo il Fiume, nella quale convivono Bugis, Melayu, Kutai e naturalmente Dayak, che qui sono Bahau. Decido di fermarmi qualche giorno, giusto il tempo per respirare l’aria di frontiera e visitare alcune delle rumah lamin ancora esistenti.Sulla stradina principale si trova anche la prima longhouse, vecchia e disabitata, trasformata in edificio pubblico e cerimoniale, con i primi veri disegni simbolici tribali che ne adornano la facciata: coccodrilli fantastici e volti demoniaci, immersi negli artistici ghirigori Dayak, risaltano bianchi sul legno scuro.
Una breve camminata verso sud mi porta a varcare un arco un po’ cadente che porta al quartiere Bahau: casette povere ma ben tenute attorno alla rumah lamin Dayon Urun. Anche questa vecchia e mal tenuta, abitata da poche famiglie che hanno costruito annessi e dependance al corpo principale.
Il giro in moto attorno a Long Bagun conferma quanto visto finora: i Dayak (oltre ai Kayan e i Bahau, anche i Kenyah del villaggio vicino di Ujoh Bilang) hanno abbandonato la residenza comune nella longhouse e si sono trasferiti in casette monofamiliari. Il grande edificio, così ricco di significati per la comunità, di miti, depositario di regole ancestrali è stato riconvertito in spazio per cerimonie tradizionali e assemblee pubbliche. Talvolta, se arrivano sufficienti fondi governativi, la rumah lamin viene ristrutturata o ricostruita, riportando a nuovo splendore statue e colonne finemente intagliate, intricati ed inquietanti disegni ornamentali e lucidi pavimenti in legno-ferro.
E mi sembra che proprio qui, nel recupero ossessivo delle colonne portanti, con i loro intagli geometrici, antropomorfi e fortemente evocativi, con i loro spiriti intrisi nel legno, risieda la conservazione del forte legame con gli antenati, con la foresta, con la terra. L’edificio può cambiare, rinnovarsi, non essere abitato da viventi, ma conserva il suo essere luogo sacro, atavico, necessario alla comunità Dayak per richiamare l’insegnamento dei progenitori in occasione di funerali, matrimoni, nascite, riti sciamanici. E perché no, guardare al presente e vivere la rumah lamin come luogo dove far politica, parlare dei problemi della comunità, discutere delle prossime elezioni.
Tornato verso sud, verso ilir, l’incontro con alcuni biologi che si occupano di preservare i delfini d’acqua dolce mi fa decidere per un’altra giornata passata sul Fiume, con la ferma intenzione di incontrarli. E ritrovo in Martin il complice perfetto per queste ultime ore dedicate al Mahakam ed ai suoi figli più segreti e timidi.
E una lunga mattinata in barca, prima attraverso gli ampi specchi d’acqua dei laghi Melintang e Semayang: acque basse, alcuni pescatori che gettano il rezzaglio, altri che pescano con grandi reti triangolari, cormorani in equilibrio su pali, ali stese al primo sole, gabbiani immobili su reti da pesca tese sull’acqua, i coni metallici di una moschea che brillano in lontananza.
Poi, sbucati nel corso principale del Fiume, una lenta crociera avanti e indietro tra le confluenze col sungai Siran e col sungai Pela. Brevi risalite di questi affluenti e soste trepidanti al centro della muara, la confluenza, occhi incollati al binocolo a scrutare ogni increspatura dell’acqua, ogni tronco galleggiante o mazzo intricato di foglie strappate agli argini fangosi.
ne avevo già voglia ... adesso poi, ci voglio proprio andare
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