Le due forme, già delineate da morbide curve avvolgenti,
guardano dalla spiaggia grigia un mare che scorre placido.
I grossi Pinisi, dal ventre ampio e generoso e dolce,
poggiano su una piccola selva di tavole e pali, piantati quasi a caso nella
sabbia. Larghe tettoie di foglie di alang-alang
temperano il caldo indicibile della costa sudovest di Sulawesi.
Colpi d’ascia scandiscono il tempo del primo mattino, il
canto dei galli fa da contrappunto. L’aria, immota sotto gli scafi, è
impregnata del profumo dolciastro e resinoso del legno, tagliato e scheggiato
da mani scure.
L’enorme trave, che sarà la parte inferiore della chiglia, è
già sul posto, pietra angolare su cui poggerà l’intera struttura.
La centralità della chiglia, nel lavoro dei mastri d’ascia
Konjo, è celebrata con una cerimonia singolare. Purificazione, ringraziamento, comunione
tra uomo e legno, benedizione di un lavoro proficuo e duraturo. Questa è annattara, il taglio della chiglia.
E’ il rito fondante e celebrativo di una barca, in cui si
cercano i segni di un futuro propizio. La partecipazione di tutto il gruppo di
carpentieri sancisce e sacralizza il lavoro in comune, consolidato
dall’ingestione, come carne consacrata al sacrificio, del corpo del legno.
Hadji Wahab, il mastro carpentiere e armatore, indossate la
veste ricamata e il bianco sarong da
cerimonia, benedice il cibo posato sopra la superficie levigata del legno.
Afferra un largo scalpello, un mazzuolo ricurvo e si sposta all’estremità
anteriore della lunga trave, quella che guarda lontano, all’orizzonte
luccicante del Mar di Celebes.
Impregna la lama affilata dei fumi profumati di incenso che
salgono pigri da un braciere fumante dentro un mezzo cocco. Studia con
attenzione il punto esatto, si guarda rapidamente intorno, e scava con tre
colpi precisi un minuscolo solco. Si porta subito alla bocca la prima scheggia
di legno, quasi assaporandola. Dopo di lui tutti gli uomini, a turno, mangiano
una briciola di questo legno-ferro, compatto e rosato. La fila di uomini si
snoda dietro pak Hadji, che si sposta lungo la trave e si porta all’estremità
opposta, quella che guarda la terra, la foresta intricata, le poche capanne di
legno. Ancora una piccola incisione che si ripeterà al centro esatto della
grande chiglia. Qui, al centro di tutto, vengono lasciate cadere poche gocce di
sangue di gallo, per placare sul nascere l’istinto del legno, per decretare che
l’unione uomo-legno è finalmente cementata.
L’uomo si accosta al legno con rispetto, ne celebra la
centralità nella propria esistenza e poi, con pudore, lo assaggia e lo ingoia.
Lo fa suo prima di inciderlo e tagliarlo.
Sul solco tracciato con serietà da pak Hadji, il carpentiere
taglia prima la fetta distale del palo, subito presa da un giovane e scagliata
in mare dopo una breve corsa sulla sabbia rovente. Questo frammento del corpo
della nave, gettato tra le onde il più lontano possibile, è l’augurio che la
nave solcherà i mari con sicurezza e forza. Dall’estremità opposta della
chiglia viene tagliata allo stesso modo una fetta più piccola, gettata a terra
senza troppe cerimonie.
Tutto si compie in pochi momenti, concentrati nello sguardo
intenso e deciso di pak Hadji, e nel procedere sbrigativo degli uomini lungo la
chiglia, al suo seguito. Pak Hadji mi stringe la mano, gli occhi brillanti di
soddisfazione.
Poi ci si divide il cibo cerimoniale, che ha prevalenti note
dolci: palline di farina di riso avvolte in scaglie di cocco e dal cuore
sciropposo, riso glutinoso cotto nella melassa di palma, banane larghe e tozze
dalla polpa candida.
La grande Pinisi,
solido legno-ferro dalla tessitura compatta e i toni del rosa antico, solcherà
per sempre i mari d’Indonesia, a ricongiungersi con la sua parte mancante,
lasciandosi nulla dietro di sé.
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