Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

venerdì 1 novembre 2013

Annattara, il taglio della chiglia



Le due forme, già delineate da morbide curve avvolgenti, guardano dalla spiaggia grigia un mare che scorre placido.
I grossi Pinisi, dal ventre ampio e generoso e dolce, poggiano su una piccola selva di tavole e pali, piantati quasi a caso nella sabbia. Larghe tettoie di foglie di alang-alang temperano il caldo indicibile della costa sudovest di Sulawesi.
Colpi d’ascia scandiscono il tempo del primo mattino, il canto dei galli fa da contrappunto. L’aria, immota sotto gli scafi, è impregnata del profumo dolciastro e resinoso del legno, tagliato e scheggiato da mani scure.
L’enorme trave, che sarà la parte inferiore della chiglia, è già sul posto, pietra angolare su cui poggerà l’intera struttura.
La centralità della chiglia, nel lavoro dei mastri d’ascia Konjo, è celebrata con una cerimonia singolare. Purificazione, ringraziamento, comunione tra uomo e legno, benedizione di un lavoro proficuo e duraturo. Questa è annattara, il taglio della chiglia.

E’ il rito fondante e celebrativo di una barca, in cui si cercano i segni di un futuro propizio. La partecipazione di tutto il gruppo di carpentieri sancisce e sacralizza il lavoro in comune, consolidato dall’ingestione, come carne consacrata al sacrificio, del corpo del legno.
Hadji Wahab, il mastro carpentiere e armatore, indossate la veste ricamata e il bianco sarong da cerimonia, benedice il cibo posato sopra la superficie levigata del legno. Afferra un largo scalpello, un mazzuolo ricurvo e si sposta all’estremità anteriore della lunga trave, quella che guarda lontano, all’orizzonte luccicante del Mar di Celebes.
Impregna la lama affilata dei fumi profumati di incenso che salgono pigri da un braciere fumante dentro un mezzo cocco. Studia con attenzione il punto esatto, si guarda rapidamente intorno, e scava con tre colpi precisi un minuscolo solco. Si porta subito alla bocca la prima scheggia di legno, quasi assaporandola. Dopo di lui tutti gli uomini, a turno, mangiano una briciola di questo legno-ferro, compatto e rosato. La fila di uomini si snoda dietro pak Hadji, che si sposta lungo la trave e si porta all’estremità opposta, quella che guarda la terra, la foresta intricata, le poche capanne di legno. Ancora una piccola incisione che si ripeterà al centro esatto della grande chiglia. Qui, al centro di tutto, vengono lasciate cadere poche gocce di sangue di gallo, per placare sul nascere l’istinto del legno, per decretare che l’unione uomo-legno è finalmente cementata.
L’uomo si accosta al legno con rispetto, ne celebra la centralità nella propria esistenza e poi, con pudore, lo assaggia e lo ingoia. Lo fa suo prima di inciderlo e tagliarlo.
Sul solco tracciato con serietà da pak Hadji, il carpentiere taglia prima la fetta distale del palo, subito presa da un giovane e scagliata in mare dopo una breve corsa sulla sabbia rovente. Questo frammento del corpo della nave, gettato tra le onde il più lontano possibile, è l’augurio che la nave solcherà i mari con sicurezza e forza. Dall’estremità opposta della chiglia viene tagliata allo stesso modo una fetta più piccola, gettata a terra senza troppe cerimonie.

Tutto si compie in pochi momenti, concentrati nello sguardo intenso e deciso di pak Hadji, e nel procedere sbrigativo degli uomini lungo la chiglia, al suo seguito. Pak Hadji mi stringe la mano, gli occhi brillanti di soddisfazione.
Poi ci si divide il cibo cerimoniale, che ha prevalenti note dolci: palline di farina di riso avvolte in scaglie di cocco e dal cuore sciropposo, riso glutinoso cotto nella melassa di palma, banane larghe e tozze dalla polpa candida. 

La grande Pinisi, solido legno-ferro dalla tessitura compatta e i toni del rosa antico, solcherà per sempre i mari d’Indonesia, a ricongiungersi con la sua parte mancante, lasciandosi nulla dietro di sé.

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