Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

lunedì 26 settembre 2016

I giovani balinesi e la tradizione

In molti hanno osservato, nel corso dello sviluppo impetuoso e disordinato del turismo a Bali degli ultimi 20 anni, che non ce l’avrebbero fatta. Che i giovani balinesi non avrebbero retto al bombardamento sconsiderato di valori avulsi e spesso opposti a quelli gelosamente tramandati dalla società agricolo-religioso-feudale isolana. Che avrebbero accettato passivamente il consumismo e si sarebbero consegnati ad un capitalismo caotico e irrispettoso, un po’ come sta accadendo alla stessa frangia di popolazione nelle altre tigri asiatiche, Malesia, Thailandia, Vietnam e Filippine.
La realtà restituisce come al solito una situazione articolata, senza vincitori né vinti. I ragazzi balinesi sono sì lanciati nell'adottare nuovi modelli di comportamento, nuovi stili di vita, ma restano nella stragrande maggioranza ancorati e avvolti nel bozzolo culturale della organizzata e onnicomprensiva società dell’isola degli dei.
I membri più giovani di ogni banjar e villaggio continuano in massa a partecipare alle cerimonie religiose che formano l’ossatura entro cui si articola la vita di ogni abitante dell’isola, scandite in riti di passaggio e celebrazioni di dei ed antenati. Ci vanno in moto, con immancabili occhiali scuri, seri e imbronciati, cellulare all'ultima moda, acconciatura ardita e tatuati. Ma ci vanno, maschi e femmine in egual misura.

Questa piccola enclave di pensiero induista, persa in un oceano di isole abitate in massa da musulmani, non mostra di sgretolarsi sotto i colpi del profitto, che cerca di trasformare le magnifiche risaie della Bali rurale in enormi complessi turistici ed ha già con successo trasformato un paradiso esotico per pochi in un’icona turistica per le masse. Il segreto è, forse, in una parola: appartenenza.
L’intreccio di legami di famiglia, famiglia allargata e clan che trattengono e cementano assieme i gruppi sociali dell’isola è talmente saldo e autentico che ancora riesce efficacemente a proporsi alle nuove generazioni come modello originale, caratteristico, unico. Quasi uno status symbol, la balinesità. Un modello non da rigettare e sostituire con altri più semplici e moderni, ma da mantenere, coltivare e fare proprio. Da indossare con l'orgoglio di emergere ed essere distinguibili in quest'immensità etnica che è l’Indonesia moderna, al di là del pensiero unico islamico che, come un’immensa coperta, tende a uniformare, se non cancellare, la ricca diversità culturale dell’arcipelago.
In questo scenario l’unicità di Bali diventa una bandiera che attrae migliaia di giovani che non esitano a partecipare alla densa vita cerimoniale, vestiti in modo tradizionale e disciplinati a seguire passo passo le procedure rituali così come tramandate nei testi sacri redatti in foglie di palma.

Paradossalmente, il turismo di massa, con la sua pressione culturale multiforme e sguaiata, che invade l’isola e ne erode l’ecosistema naturale, tiene in vita gli aspetti esotici della cultura balinese promuovendone sul palcoscenico globale particolarità e sottolineandone l’identità. Tutti conoscono il brand Bali, i media mondiali ne parlano, viene dipinta come meta di vacanze esotiche, fatta di sorrisi, sole, mare e cerimoniali millenari. I balinesi sono dipinti come dediti alla danza, alla musica, all'adorazione silenziosa degli dei, disponibili al sorriso e quieti nell'accogliere il turista.
A fronte di ciò, gli abitanti dell’isola reinventano le categorie classiche con le quali definivano sé stessi e la propria cultura, si appropriano del brand e sottolineano l’esclusività etnica e religiosa di una discendenza induista. Pur nella contraddittoria realtà di un’isola colonizzata dalle élite polito-economiche giavanesi e dal capitale straniero, i balinesi riescono a mantenere e riformare le tradizioni artistiche e religiose che li hanno identificati per più di un millennio.
La balinesità è un asset in mano sia alla nuova borghesia, creatasi col turismo, sia ai banjar delle aree agricole. La unicità è coltivata attraverso il “turismo culturale” che vuole mostrare al mondo un complesso di cultura e natura interdipendenti e riconoscibili.
I ragazzi si muovono disinvolti all'interno di queste contraddizioni e cavalcano questi flussi di milioni di ospiti dai passi fugaci, imparando fin da piccoli a convivere con essi senza mancare di rinsaldare anno dopo anno, cerimonia dopo cerimonia, i contorni della loro traccia culturale.
Luogo ideale e significativo che sancisce il rinnovo dell’appartenenza è il rito di passaggio, che occupa con immutato trasporto, anno dopo anno declinato individualmente o in massa, la vita dei giovani balinesi.
Esempi se ne incontrano molti una volta abbandonate le caotiche vie intasate dal traffico dei vacanzieri e percorse le strade ancora verdeggianti di risaie della Bali contadina. Qui ogni villaggio è ancora addossato all'incrocio principale (il perempatan agung) fulcro dell’intreccio religioso-sociale che i balinesi si cuciono addosso. Da qui passano tutte le cerimonie rivolte agli dei, ai demoni ed agli umani.

I ragazzini di Daha Tukad, villaggio antico annidato tra le fertili colline alle pendici del grande vulcano, avvolti nei loro preziosi geringsing, tessuti seguendo antichissimi disegni indiani, si fotografano a vicenda con aria sbarazzina, sbirciando al di sopra dei loro smartphone e macchine digitali. E’ il giorno dell’abbandono dell’età dei volti lisci e innocenti per entrare a pieno titolo tra gli adulti del villaggio. I maschi, infagottati in vesti candide e marziali, il dorso coperto da mantelli variopinti, sono carichi di tensione sottolineata dall’eyeliner. Le giovani vergini, con la sensuale naturalezza di una femminilità raggiunta precocemente, schierate a spalle scoperte esibiscono sguardi languidi colmi di mascara. I due gruppi si scambiano occhiate rubate. Parecchi bambini si agitano in attesa di aprire, con il coraggio dell’innocenza, la lotta a colpi di foglie di pandano dalle spine laceranti, simbolo del rinnovo del patto di sangue che lega alla terra. Ai gesti millenari dei riti di passaggio, questi giovani adulti mescolano orpelli moderni maneggiati con consapevole noncuranza. Rimarcano la loro attualità mentre rinnovano il patto con l’antico.



A Munggu, nel cuore dell’ortodossia agricola della cintura verde di Tabanan, il velo dell’adolescenza è squarciato da squadre di giovani maschi che, con aria sorridente ma decisa, si fronteggiano muniti di fasci di alte picche di legno scortecciato. Le schermaglie iniziali a colpi di spintoni tra squadre urlanti per accaparrarsi le posizioni migliori, presto lasciano spazio alla vera prova di coraggio: scalare da soli la liscia piramide formata dalle aste affastellate. Ci vuole il giusto mix di fegato, agilità e soprattutto fiducia nella salda presa offerta dall'azione congiunta della propria squadra. Doti di cui i giovani adulti dovranno dare prova nella comune gestione delle faccende del villaggio. Alcuni adulti offrono consigli e raffreddano rapidamente animi troppo accesi. Nessuno dei giovani del circondario si sottrae alla sfida che conserva il significato millenario del rito di passaggio, ma vi partecipa con il personale e moderno segno di distinzione degli occhiali da sole e delle t-shirt con scritte che esortano a partecipare alla cerimonia (mekotekan) che accomuna.







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