In molti hanno osservato, nel
corso dello sviluppo impetuoso e disordinato del turismo a Bali degli
ultimi 20 anni, che non ce l’avrebbero fatta. Che i giovani
balinesi non avrebbero retto al bombardamento sconsiderato di valori
avulsi e spesso opposti a quelli gelosamente tramandati dalla società
agricolo-religioso-feudale isolana. Che avrebbero accettato
passivamente il consumismo e si sarebbero consegnati ad un
capitalismo caotico e irrispettoso, un po’ come sta accadendo alla
stessa frangia di popolazione nelle altre tigri asiatiche, Malesia,
Thailandia, Vietnam e Filippine.
La realtà restituisce come al
solito una situazione articolata, senza vincitori né vinti. I
ragazzi balinesi sono sì lanciati nell'adottare nuovi modelli di
comportamento, nuovi stili di vita, ma restano nella stragrande
maggioranza ancorati e avvolti nel bozzolo culturale della
organizzata e onnicomprensiva società dell’isola degli dei.
I membri più giovani di ogni
banjar
e villaggio continuano in massa a partecipare alle cerimonie
religiose che formano l’ossatura entro cui si articola la vita di
ogni abitante dell’isola, scandite in riti di passaggio e
celebrazioni di dei ed antenati. Ci vanno in moto, con immancabili
occhiali scuri, seri e imbronciati, cellulare all'ultima moda,
acconciatura ardita e tatuati. Ma ci vanno, maschi e femmine in egual
misura.
Questa piccola enclave di
pensiero induista, persa in un oceano di isole abitate in massa da
musulmani, non mostra di sgretolarsi sotto i colpi del profitto, che
cerca di trasformare le magnifiche risaie della Bali rurale in enormi
complessi turistici ed ha già con successo trasformato un paradiso
esotico per pochi in un’icona turistica per le masse. Il segreto è,
forse, in una parola: appartenenza.
L’intreccio di legami di
famiglia, famiglia allargata e clan che trattengono e cementano
assieme i gruppi sociali dell’isola è talmente saldo e autentico
che ancora riesce efficacemente a proporsi alle nuove generazioni
come modello originale, caratteristico, unico. Quasi uno status
symbol, la balinesità.
Un modello non da rigettare e sostituire con altri più semplici e
moderni, ma da mantenere, coltivare e fare proprio. Da indossare con
l'orgoglio di emergere ed essere distinguibili in quest'immensità
etnica che è l’Indonesia moderna, al di là del pensiero unico
islamico che, come un’immensa coperta, tende a uniformare, se non
cancellare, la ricca diversità culturale dell’arcipelago.
In questo scenario l’unicità
di Bali diventa una bandiera che attrae migliaia di giovani che non
esitano a partecipare alla densa vita cerimoniale, vestiti in modo
tradizionale e disciplinati a seguire passo passo le procedure
rituali così come tramandate nei testi sacri redatti in foglie di
palma.
Paradossalmente, il turismo di
massa, con la sua pressione culturale multiforme e sguaiata, che
invade l’isola e ne erode l’ecosistema naturale, tiene in vita
gli aspetti esotici della cultura balinese promuovendone sul
palcoscenico globale particolarità e sottolineandone l’identità.
Tutti conoscono il brand
Bali, i media mondiali ne parlano, viene dipinta come meta di vacanze
esotiche, fatta di sorrisi, sole, mare e cerimoniali millenari. I
balinesi sono dipinti come dediti alla danza, alla musica,
all'adorazione silenziosa degli dei, disponibili al sorriso e
quieti nell'accogliere il turista.
A fronte di ciò, gli abitanti
dell’isola reinventano le categorie classiche con le quali
definivano sé stessi e la propria cultura, si appropriano del brand
e sottolineano
l’esclusività etnica e religiosa di una discendenza induista. Pur
nella contraddittoria realtà di un’isola colonizzata dalle élite
polito-economiche giavanesi e dal capitale straniero, i balinesi
riescono a mantenere e riformare le tradizioni artistiche e religiose
che li hanno identificati per più di un millennio.
La balinesità
è un asset in mano sia alla nuova borghesia, creatasi col turismo,
sia ai banjar delle aree agricole. La unicità è coltivata
attraverso il “turismo culturale” che vuole mostrare al mondo un
complesso di cultura e natura interdipendenti e riconoscibili.
I ragazzi si muovono
disinvolti all'interno di queste contraddizioni e cavalcano questi
flussi di milioni di ospiti dai passi fugaci, imparando fin da
piccoli a convivere con essi senza mancare di rinsaldare anno dopo
anno, cerimonia dopo cerimonia, i contorni della loro traccia
culturale.
Luogo ideale e significativo
che sancisce il rinnovo dell’appartenenza è il rito di passaggio,
che occupa con immutato trasporto, anno dopo anno declinato
individualmente o in massa, la vita dei giovani balinesi.
Esempi se ne incontrano molti
una volta abbandonate le caotiche vie intasate dal traffico dei
vacanzieri e percorse le strade ancora verdeggianti di risaie della
Bali contadina. Qui ogni villaggio è ancora addossato all'incrocio
principale (il perempatan
agung) fulcro
dell’intreccio religioso-sociale che i balinesi si cuciono
addosso. Da qui passano tutte le cerimonie rivolte agli dei, ai
demoni ed agli umani.
I ragazzini di Daha
Tukad, villaggio
antico annidato tra le fertili colline alle pendici del grande
vulcano, avvolti nei loro preziosi geringsing,
tessuti seguendo antichissimi disegni indiani, si fotografano a
vicenda con aria sbarazzina, sbirciando al di sopra dei loro
smartphone e macchine digitali. E’ il giorno dell’abbandono
dell’età dei volti lisci e innocenti per entrare a pieno titolo
tra gli adulti del villaggio. I maschi, infagottati in vesti candide
e marziali, il dorso coperto da mantelli variopinti, sono carichi di
tensione sottolineata dall’eyeliner. Le giovani vergini, con la
sensuale naturalezza di una femminilità raggiunta precocemente,
schierate a spalle scoperte esibiscono sguardi languidi colmi di
mascara. I due gruppi si scambiano occhiate rubate. Parecchi bambini
si agitano in attesa di aprire, con il coraggio dell’innocenza, la
lotta a colpi di foglie di pandano dalle spine laceranti, simbolo del
rinnovo del patto di sangue che lega alla terra. Ai gesti millenari
dei riti di passaggio, questi giovani adulti mescolano orpelli
moderni maneggiati con consapevole noncuranza. Rimarcano la loro
attualità mentre rinnovano il patto con l’antico.
A Munggu,
nel cuore dell’ortodossia agricola della cintura verde di Tabanan,
il velo dell’adolescenza è squarciato da squadre di giovani maschi
che, con aria sorridente ma decisa, si fronteggiano muniti di fasci
di alte picche di legno scortecciato. Le schermaglie iniziali a colpi
di spintoni tra squadre urlanti per accaparrarsi le posizioni
migliori, presto lasciano spazio alla vera prova di coraggio: scalare
da soli la liscia piramide formata dalle aste affastellate. Ci vuole
il giusto mix di fegato, agilità e soprattutto fiducia nella salda
presa offerta dall'azione congiunta della propria squadra. Doti di
cui i giovani adulti dovranno dare prova nella comune gestione delle
faccende del villaggio. Alcuni adulti offrono consigli e raffreddano
rapidamente animi troppo accesi. Nessuno dei giovani del circondario
si sottrae alla sfida che conserva il significato millenario del rito
di passaggio, ma vi partecipa con il personale e moderno segno di
distinzione degli occhiali da sole e delle t-shirt con scritte che
esortano a partecipare alla cerimonia (mekotekan)
che accomuna.
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