Kaart van het Eyland Bali (Valentijn, 1726)

giovedì 7 marzo 2013

Sumba: il villaggio di Pero




Proprio come immaginato. Come se un pensiero, un abbozzo di idea, prendesse forma dal disegno e, tratto dopo tratto, particolare dopo particolare, si trasformasse lentamente nella realtà. Prima i chiaroscuri, poi  colori, poi i suoni e infine gli odori. Così è il viaggio.

L’arrivo è una breve corsa in moto fino al primo warung per mangiare un riso con pollo arrostito. Poi verso Pero, un’ora di strada poco frequentata, tra piccoli gruppi di case, nuove e antiche, poche chiesette, negozi generalisti nuovi di cinesi, con le facciate verniciate di colori violenti scintillanti sotto il sole delle tre del pomeriggio. Sono meglio di un’insegna luminosa, visibili da lontano anche alla luce.

Il losmen è come deve essere, l’archetipo della locanda indonesiana. Uno spazio centrale popolato di poltrone e divani polverosi, lerci e sfondati, ma dotati di cuscini ricamati e centrini poggiatesta lavorati all’uncinetto. Un tappeto appeso rimanda alla Ka’ba, il cubo nero della Mecca, a preghiere quotidiane e all’origine della famiglia dei proprietari, una coppia musulmana di Bima, Sumbawa. A terra pochi tappeti slabbrati e consunti. Attorno sei stanzette spoglie ma luminose, con un letto a una piazza e mezza e materasso di gommapiuma. Né armadio né sedie. In stanza si dorme e basta, il resto del tempo dev’essere passato fuori. E’ un modello centrifugo, che scoraggia l’isolamento e sembra favorire i contatti.
Aggiunto a questo edificio un capannone col tetto di lamiera, al centro due lunghi tavoli di plastica bianca, attorno un’altra serie di stanzette. L’ultima in fondo è lo spazio di preghiera. Dietro, nel giardino posteriore, i cessi, loculi di mattoni col pavimento di cemento sbrecciato perennemente bagnato, la turca e il vascone dell’acqua, da cui si prende per ogni tipo di pulizia.

Sul davanti che da sulla unica strada del paese, la veranda è protetta da un grande mango che, assieme al colore verde slavato dei muri, è la vera insegna del losmen. Una donna lo indica proprio così: la casa verde sotto il grande mango.

Pare che la telefonata al camat, il capo amministrativo dell’intera zona di Kodi, abbia funzionato e così la “prenotazione”. In realtà il losmen ha un solo cliente, un giavanese qui a costruire un pozzo. Sono appena le quattro del pomeriggio e già le zanzare tigre si affollano, sfidando le mosche e i moscerini.

Il nonno prepara il betel sotto la veranda. Dice che pioverà, che piove sempre e che è pieno di ladri. Sarà forse la versione locale del vecchio proverbio, fatto sta che estrae un lungo coltellaccio, il parang, e mostra come taglierebbe la testa a chiunque osasse entrare in casa a rubare. La testa poi, chiosa, la getterebbe in fondo alla via, in mare, ricettacolo di rifiuti, anche umani. Il nonno, spiega, è lì di guardia tutta la notte e non c’è nulla da temere. Le porte delle stanze non hanno serratura ma di notte le porte esterne sono chiuse dall’interno e i clienti sono isolati.

Passano tre pescatori con reti e lanterne a petrolio, stanotte si pescano calamari. Due bimbetti passano con qualche pesce colorato appeso ad un bastone “ikan!!! Ikan!!!” gridano. Le bambine invece vendono dolcetti e banane fritte, le vocine acute, modulate a seconda del genere di dolciume che tengono nel canestro di plastica in equilibrio sul capo. La strada è un palcoscenico e un mercato, i grandi alberi e gli arbusti fanno da quinte e da sipario.

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