Anche sotto la pioggia, bagnata e gocciolante, Flores emana un fascino ineguagliato. Se Sumatra è il karma, Flores è amore puro. I suoi tanti verdi assumono sfumature marcate, superfici scintillanti, gradazioni meditative e rilassanti. Come in altre zone dell’Indonesia si percepisce distintamente una natura ostinatamente ed orgogliosamente interconnessa con la presenza umana. Una unione e interdipendenza che gli Ngada hanno cementato con la loro filosofia di vita, solidamente ancorata ad antichi saperi ed efficacemente basata sul muto scambio tra clan, attorno al fulcro della sa’o meze.
Un fitto e secolare bosco di bambù è il sipario che si apre sui megaliti di Wagolama. Una radura lunga e stretta, erba bassa perfettamente brucata da una coppia di bufali, disturbati e vagamente minacciosi. I gruppi di turé sono genericamente allineati al centro di quello che doveva essere un enorme villaggio, molto più grande di uno qualsiasi di quelli attuali.
Delle due file di sa’o meze, si immaginano solo gli alti tetti di alang alang e le ampie verande di bambù, perché non resta nulla. Ma le pietre, i confini netti della linea di arbusti attorno alla radura, la sacralità del luogo, le decine, forse centinaia di bufali, maiali e polli sacrificati nei secoli sulle larghe lastre di ardesia grigia, parlano di una comunità fiorente, vociante, laboriosa. Seduti su un turé, lo sguardo perso nei verdi del prato, si possono sentire il canto dei galli, il pigolare dei pulcini, il latrato frenetico dei cani, le grida dei bambini che si rincorrono tra le case, il battere ritmico dei telai di tessitura, il chiacchierare delle donne. Un diorama che si sovrappone senza sforzo alle alte steli fiorite di licheni, squadrate ed appuntite con abilità, immote e silenziose sotto una pioggerella senza suono. Dietro, la voce della foresta di bambù, suono di un immenso organo, fatto di note basse, rimbombi, schiocchi, struscii e frusciare leggero di foglie.
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