Gli autisti
di travel si giocano la paga del
giorno a carte. Seduti sotto una tettoia di legno e bambù in riva al mare, le
auto giacciono scomposte intorno a loro, cariche di decalcomanie ma prive di
passeggeri. Sembra proprio che stiano in qualche modo marinando il lavoro. Nessuno
si schioda di lì e non resta che proseguire in autobus. Un affare colorato
fuori quanto decrepito e sfasciato all’interno. Sedili come dopo il passaggio
di unghiate di orso, il motore anteriore che butta il caldo verso i passeggeri,
costretti, anche per questo, a tenere i finestrini spalancati e a far entrare
vento e pioggia.
La
strada costiera, larga e asfaltata di recente, mette un po’ a disagio. Ma basta
lasciare la costiera e salire le prime colline che la pioggia scava i suoi
segni evidenti sulla carreggiata. Ecco la vecchia Trans-Flores, popolata di
massi giganti che si staccano da fragili pendii fangosi e deforestati. Cascate
d’acqua si riversano sull’asfalto e scavano canali profondi. Buche ovunque
piene d’acqua e dappertutto uno strato di fango viscido e infido.
Ai lati
scorre il verde brillante di Flores, che si apre in risaie terrazzate alla
balinese o macchie oscure di bambù e palme da olio. La strada ora si trasforma
in un unico cantiere, scavatrici e rulli compressori, camion carichi di terra e
autobotti che portano il catrame, operai accampati alla meglio ai lati della
strada, sotto fogli di plastica. Autobotti trasportano benzina dai depositi sul
mare su fino ai villaggi delle montagne e degli altipiani. Le chiese sono
meglio costruite e rifinite di quelle di Sumba, che spesso non hanno nemmeno il
tetto. Si percepisce un benessere diffuso nell’orgoglio mostrato dalle
architetture sacre delle comunità cattoliche. A Boawae un’alta figura dipinta su un muro con vividi colori segna la
parrocchia di S. Francesco Saverio. Scuole cattoliche sorgono in ogni borgo, in
una profusione di tetti di lamiera che lasciano ruscellare l’acqua a terra
senza rattenerla. I volti sono inconfondibilmente aborigeni, scuri con capelli
ricci. Il sorriso così si staglia più luminoso, lampeggiante.
A sera
risuona il tintinnare del venditore di bakso,
una ciotola di ceramica fatta risuonare col cucchiaio. Il carretto ha un
calderone col brodo fumante e nelle minuscole vetrine lascia vedere
spaghettini, palline di tofu e verdure. Una zuppa calda è il contorno ideale
per il clima frizzante dei 1100 m di Bajawa.
Johannes
ha il volto scavato del montanaro, corpo minuto infagottato in un’enorme
giaccone a vento, tre taglie più grande, di sicuro il regalo di una grosso
cliente europeo o australiano. Il sorriso gli esplode in faccia come un sasso
gettato in uno stagno, la pelle si arriccia attorno alla bocca aperta in cerchi
concentrici, i denti si proiettano in fuori senza timidezza. Parla piano da
vero uomo dell’altopiano, di casta nobile, i ga’è meze, abituato a
comporre le discussioni e a pronunciare discorsi di saggezza. Scandisce le
parole con lo straniero che si sforza di parlare la sua lingua. Vive con moglie
e 4 figli e si destreggia tra usi e costumi Ngada
forte di un sapere atavico e anni di studi antropologici a Yogyakarta.
La
pioggerella non si ferma. La strada che porta al mare e al paesotto di Aimere è asfaltata da poco e guidare la
moto è un piacere, nonostante il timore di scivolare sul bagnato. Subito sotto Bajawa iniziano i boschi di bambù e di palme immersi in una foresta rigogliosa.
Il panorama è mozzafiato. A ovest le pendici e l’alto cono perfetto del vulcano
Inerie. La pioggia ha modellato
profondi canaloni che incidono come unghiate i suoi fianchi ricoperti di una
bassa vegetazione vellutata. Sembra un pezzo di Scozia. Sono le colline di Watu Narinoto da dove i criminali
venivano gettati nell’orrido, approfittando in modo spiccio delle impervie e
intonse profondità.
A sud
c’è il mare, una lunga baia delimitata da una montagna che scende fino
all’acqua. Al centro della baia Aimere,
file di banchetti con pesce fresco, qualche ufficio pubblico, scuole
cattoliche, un collegio con l’architettura alpina. C’è anche il bancomat.
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